David e Rosa tornarono a fare colazione tutte le mattine nel bar vicino a casa.
«Così Paul è partito. Devi averlo fatto scappare tu, sempre con quel muso lungo» ironizzò David.
«O forse lo ha fatto per lasciarti dormire nel suo letto. Non mi risulta che tu abbia dormito con me una sola notte da quando siamo qui.»
«Oh-oh attenzione! Ѐ iniziata la predica!»
«Dove hai trascorso la notte? E ieri? E l'altro ieri, dove sei stato? Sono sei notti che non ho tue notizie.»
«Ti prego non cominciare, non ci troviamo in Calabria. Siamo in California, Stati Uniti d'America. Hai presente? Fossi almeno di compagnia... sprofondi con la faccia nel cuscino appena metti piede in camera da letto e io cosa dovrei fare, starmene in ammirazione del tuo bel sedere?»
«A Milano lo facevi. Poi ogni tanto di notte mi svegliavi...» disse in tono più malinconico che sensuale.
«Comunque ho riletto il biglietto di Paul. Si augura che quando tornerà, avremo trovato un nuovo alloggio» continuò David.
Non concluse la frase che era già al bancone. Tornò dopo pochi istanti con il solito cappuccino annacquato e un giga-muffin bluastro, zeppo di calorie.
«Allora oggi che si fa?» domandò Rosa sorseggiando l'orribile bevanda calda, sforzandosi di contenere gli spasmi facciali.
«Nulla di ché. Dobbiamo solo trovare una casa, un'automobile e un lavoro. Quisquilie» replicò inviperito.
Rosa scoppiò a ridere.
Appurato che le sventure non arrivano mai da sole, quella risata attirò l'attenzione di una morettina seduta accanto a loro che faceva colazione leggendo l'L.A. Weekly. Una strana donna che incontravano ogni giorno a uno dei tavolini sul terrazzo del bar. Una bellezza in stile Madonna, piccolina, pepata, con il rossetto rosso già di prima mattina.
«Bonjour mes amis, comment Ça va?» esordì in un francese con forte accento americano.
«Bonjour mademoiselle, nous somme italienne, pas franÇais» replicò Rosa senza battere ciglio.
David riacquistò all'istante la sua luce.
Giselle, si chiamava così, iniziò a rivolgere le sue attenzioni a David, che tra i due sembrava il più amichevole. Intavolarono un'amabile conversazione rivolgendosi di tanto in tanto a Rosa nel tentativo di coinvolgerla, parlando un po' in inglese e un po' in francese, lingua che a tratti le risultava più comprensibile.
Da ciò che i fidanzati riuscirono a capire in quel primo scambio di battute - al quale purtroppo ne sarebbero seguiti molti altri - questa donna era afflitta da un dramma d'amore. Stava con un ragazzo parecchio più giovane di lei che, com'era intuibile, la faceva soffrire. Lei viveva a West Hollywood, in una villetta proprio accanto al bar, lui non si sa in quale angolo della megalopoli. Quanti anni avesse Giselle, non era dato saperlo. A Los Angeles qualunque donna di qualsiasi nazionalità non avrebbe rivelato il proprio segreto neanche sotto tortura. Ma Rosa aveva ventisette anni e Giselle ne dimostrava almeno dieci di più. Non si capiva da dove provenisse, ma parlava un perfetto inglese e un ottimo francese. Poteva essere canadese.
Anche David faticava a comprendere l'inglese parlato da una madrelingua, pur avendo vissuto a Los Angeles per un anno intero prima di tornarci con lei. O forse, pensò, fingeva. Forse non voleva riferirle tutto ciò che capiva e che a lei sfuggiva.
Alla domanda sulla sua occupazione, rispose che era un'artista: creava profumi.
«Questa è messa peggio di noi» bisbigliò Rosa fingendo di parlare d'altro, in un italiano veloce.
David ribatté in un gelido inglese, pregandola di non parlare in italiano davanti agli americani.
«Che è scortese» sottolineò.
Giselle era una donna molto disinvolta, quasi sbarazzina, anche se la pelle e i denti tradivano la stanchezza di chi ha vissuto una vita a doppia velocità. A Rosa ricordò una sua vecchia amica del mare, Cristina, una ragazza molto bella con dei tratti in comune con Giselle. Anche lei era di costituzione molto esile e aveva i capelli ricci e neri, la carnagione cadaverica e gli occhi di un bellissimo grigio tendente al blu, che ricordavano quelli di un gatto persiano. Anche lei aveva una pelle consumata dall'acne e i denti gialli. Morì di overdose a ventiquattro anni.
Quanto a Giselle, non se la scrollarono più di dosso.
Da quando seppe dove alloggiavano, iniziò a presentarsi tutte le mattine da loro. Spesso dormivano ancora quando lei entrava in casa come se niente fosse. Era usanza del posto dormire senza chiudere a chiave le porte, qualcosa che a Rosa appariva paradossale. In un luogo dove la criminalità era ai massimi livelli, in cui le strade traboccavano di polizia e gli elicotteri sorvolavano i cieli giorno e notte, a West Hollywood si dormiva con le porte aperte.
Ben presto Rosa divenne insofferente nei confronti di Giselle, iniziò a trovare la sua presenza ingombrante. Trovarsela lì alle nove di mattina e vederla andare via alle sei di sera iniziò a pesarle. Cominciò a chiedersi cosa volesse da loro.
Ne parlò con David, il quale al contrario gradiva quella presenza e le intimò di non provare, neanche per gioco, a isolarlo dal mondo. Non le avrebbe permesso di comportarsi come aveva già fatto suo padre a Milano.
Quando Rosa si sentì paragonare a Rocco, pensò che se esisteva un fondo, lo aveva appena toccato.
Per tutti i dieci giorni seguenti, incluse le domeniche, Giselle andò a trovarli senza sosta.
David entrò come in uno stato di grazia, di colpo tutte le sue preoccupazioni si dissolsero nel nulla. E Rosa, che di notte si addormentava prima che David mettesse piede in camera da letto – il sonno era sempre stata la sua personale cura contro la depressione - non riuscì più a scambiare due parole con lui nemmeno di giorno. Perché davanti a Giselle si doveva comunicare in quell'unica lingua a lei quasi del tutto sconosciuta.
Un mattino si presentò vestita da pantera nera, con una tuta di pizzo aderente molto scollata sul seno e il rossetto più rosso del fuoco. Rosa la incontrò in corridoio che si era appena svegliata e non credé ai suoi occhi. Come ci si poteva conciare in quel modo alle dieci di mattina per andare a trovare una coppia di amici?
David la accolse estasiato. Rosa rimase imbambolata per qualche istante in corridoio e dopo aver abbozzato un saluto impastato di sonno si rifugiò in bagno.
«Vogliono che vai di là da loro» sussurrò il nano con il naso tappato.
Rosa gettò un urlo a pieni polmoni e si appoggiò alla parete opposta, impietrita.
«Le mutandine...» arrossì imbarazzato.
Si udirono dei passi provenire veloci dal corridoio.
«Tutto bene?» chiese David che si era precipitato in suo soccorso.
Quando aveva spalancato la porta del bagno, che per poco non divelse, l'aveva trovata in piedi con gli slip calati a metà gamba. Il volto pallido come la porcellana del water.
«Sei impazzita?»
«C...c'era u...un'ape» balbettò.
«Ti sembra il caso di urlare così? Dai, vieni di là. Hai visto che carina che è oggi Giselle?»
«Non è il mio tipo, e poi chiudi quella maledetta porta! Mi metti a disagio!»
«E tu smettila di strillare e vieni di là. Ah... ti prego, ti scongiuro: abbigliati in modo decente. Non ne posso più di vederti in tuta.»
Sbatté la porta.
Rosa si guardò la pancia, il pube, le gambe, i piedi. Pensò al corpo rinsecchito di Giselle. Stentava a credere che David preferisse quello sgorbio a lei.
«Lei ha quello che tu non hai» riprese il nano del bagno.
«Ha quello che aveva Matilde e che piace tanto a David...» ridacchiò l'altro nano, in camera da letto.
«Sto impazzendo» sibilò sgomenta.
Uscì dal bagno mantenendosi il più distante possibile da quelle statue dalle sembianze fin troppo umane e si sedette preoccupata sul letto. Da quella prospettiva riusciva a osservarle entrambe. Non erano che dei buffi oggetti di arredamento, di uno strano marmo rosa variopinto, eppure le era sembrato di avere udito le loro voci e in quel preciso istante, ci avrebbe giurato, si erano scambiati un'occhiata d'intesa.
«Povera me.»
Deglutì a fatica. Indossò i primi indumenti che le capitarono in mano, cercando di dominare il panico, e sgusciò fuori da quella camera da letto senza perdere di vista i due mostriciattoli. Chiuse in fretta la porta dietro di sé e si soffermò a osservarli attraverso il vetro. Si aspettava di vederli muovere o chissà cosa. Provò un lieve sollievo rilevando la loro marmorea staticità, così adatta al loro ruolo, e si precipitò in cucina. Aprì il frigorifero, riempì un bicchiere con del ghiaccio e ci aggiunse succo d'arancia fino all'orlo.
«Bonjour petite Rose...» disse Giselle con aria da diva porno.
Rosa la ignorò e si rivolse a David, nel suo adorato italiano.
«Di' a questa lesbica che a me piacciono gli uomini, e che se proprio dovessi andare a letto con una donna per fare contento quel depravato che ho per fidanzato non sceglierei certo lei. Non è il mio tipo. E mi sembra anche malata. Comunque» sospirò, «vado a telefonare a mia madre e poi non lo so. Non so cosa farò. Non aspettatemi per pranzo. Divertitevi, mi raccomando.»
Uscì lasciando la porta spalancata.
A David parve di sentirla ridere in lontananza.
Peggio per lei, pensò, e chiuse la porta a chiave.