Il gioco dell'ostrica

By ethelincabbages

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[Edito per Words Edizioni, disponibile in formato digitale e cartaceo su Amazon] Beatrice Bianchi ha ricevuto... More

Premessa
Ouverture (I)
Ouverture (III)
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Ouverture (II)

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By ethelincabbages

 Giuseppe e Carlotta. Oggi sposi.

A giudicare dalle reazioni degli invitati, tutti ammassati alla ricerca della propria collocazione, la miriade di ghirigori che circondava i nomi degli sposi sul tableau doveva possedere delle proprietà allucinogene. Una buona parte dei duecentosettantaquattro ospiti, tra cui anche Beatrice e Nina, aveva deciso di ritrovarsi sulla porta d'ingresso della sala Achillea – la più luminosa e la più ampia – del sontuoso albergo gestito da Giuseppe, Il Roseto.

Bea, persa tra gli arabeschi in attesa di Nina che elargiva sorrisi e auguri a metà famiglia De Luca, lesse con sollievo la posizione dei suoi genitori, piazzati tra qualche vecchio amico che non vedevano da anni e con cui avevano mille cose da dirsi. Tuttavia, cercando il proprio nominativo sul disegno in scala della sala, si scoprì poco pronta alla sorpresa che le era stata riservata.

Come diritto di nascita imponeva, il suo nome era stato posto in mezzo a quello di Nina e di Lucia. A Carlotta era sempre piaciuto fare le cose con ordine e disciplina, non per nulla era la miglior personal trainer della zona. Questa volta, però, le sue abilità organizzative avevano fatto cilecca su un punto, perché qualcuno poco intelligente – giacché un'azione del genere doveva per forza implicare una dimensione del cervello inferiore alla media – aveva preso quel bel disegnino e fatto un po' di confusione.

«Secondo te hanno sbagliato?» bisbigliò nell'orecchio di Nina, con un tono più impaziente di quanto avrebbe mai voluto ammettere.

«Cosa? Ah, parli di Benedict al nostro tavolo? Ne dubito.»

Bea sospirò, il solo pensiero di dover passare la serata con quel soggetto lì, dall'ingresso trionfale degli sposi al primo ballo in coppia, con quel soggetto lì, dai ravioli alla zucca fino alla torta meringata al limone, con quel soggetto lì, le infondeva in corpo una certa ansia.

Ciononostante, le esclamazioni euforiche si sommarono agli auguri e ai saluti di rito, quando le sorelle Bianchi si ritrovarono attorno al tavolo insieme ai fratelli più piccoli di Carlotta, Maria e Jonathan – Bea era pronta a metterci la mano sul fuoco, i due si trovavano in loro compagnia grazie a qualche magia orchestrata da Jonny, per via di quella sua eterna e bizzarra voglia di muoversi sempre nello spazio vitale di Lucia.

Benedict apparve alle spalle di quest'ultima in un silenzio tombale. «È... ehm... un piacere rivedervi» abbozzò una frase di cortesia nell'incontrare gli sguardi diretti dei suoi compagni di cena. Avrebbe potuto apparire quasi sincero, ma anche quella sera, anche in una situazione così rilassata e tranquilla, sembrava piuttosto nervoso. A disagio, era sempre a disagio: osservatore attento di tutto quello che gli accadeva intorno, non si esprimeva mai se non sotto costrizione e così diventava impossibile riuscire a capire cosa gli passasse per la testa – non che Bea non avesse già provato più e più volte.

Dopo un estenuante silenzio che nessuno si curò di colmare, Beatrice diede voce alle sue perplessità: «Dove hai trovato il tempo per farci l'onore della tua presenza?» chiese senza alcuna intenzione di mordersi la lingua per il tono impertinente. Erano mesi che Devereux non si faceva vedere, quella era una curiosità più che legittima. E le piaceva osservare quegli occhi azzurri roteare verso il cielo. Provocarlo, d'altra parte, era sempre stato molto più semplice che ignorarlo.

«Vacanze di Pasqua» spiegò lui. Poi, viste le occhiate d'attesa che si guadagnò, si impose di continuare. «La zia sta ospitando me e mio cugino Riccardo.»

La zia era donna Caterina Antonietta Bonaccossi, antica marchesa, proprietaria del Roseto, beneamata benefattrice di Giuseppe, e dimostrazione vivente di vetuste verità perché la mela, è cosa nota, non cade mai troppo distante dall'albero. Il cugino, invece doveva essere un non meglio identificato ulteriore commensale in ritardo.

Riccardo Ferrari, difatti, comparve in sala con i riccioli castani pettinati a modo, ben oltre il tempo dei primi convenevoli. «Dovrei scusarmi, ma ho avuto qualche problema con lo specchio» si presentò con la giusta dose di autoironia. Si accomodò alla sinistra di Beatrice e il suo occhiolino impacciato la conquistò subito.

Era un bell'uomo sulla quarantina con gli occhi scuri e un sorriso stampato in faccia. I riccioli in testa e la barba di uno o due giorni incolta davano una generale impressione di studiata trasandatezza. Non sembrava curarsi granché dei due bottoni della camicia sul suo filo di pancetta che, sofferenti, minacciavano di saltare da un momento all'altro.

«Quindi, ricapitoliamo: tre sorelle Bianchi, giusto?» chiese, dopo il terzo bicchiere di vino, tra i ravioli – zucca e noci – e le linguine – gamberi e pistacchio. «Due fratellini De Luca, e un cugino muto.» Riccardo si voltò infine verso Benedict, che immobile preferì non commentare, quasi a voler confermare la critica.

I due cugini erano talmente diversi l'uno dall'altro che Bea, a metà serata, iniziò a nutrire dei forti dubbi riguardo alla loro presunta parentela. La ragazza aveva la sensazione di non aver mai incontrato due personaggi così agli antipodi. Mentre uno osservava tutti dall'alto, l'altro si infilava in ogni situazione, dalla più buffa alla più seria, e ballava scatenato in mezzo alla folla; uno si trincerava nei suoi silenzi, l'altro chiacchierava fino a riempirti la testa di frottole; Benedict nascondeva i suoi ghigni beffardi dietro un'apparenza glaciale, Riccardo rideva sguaiatamente e con soddisfazione.

Più o meno mentre stavano servendo il secondo – pesce spada alla siciliana, con olive, capperi e pomodorini – e dopo un giro infinito di balli di gruppo che avevano trasformato le caviglie degli ospiti in una poltiglia di ossa doloranti, Riccardo apostrofò Benedict con un nomignolo che portò le labbra di Beatrice a curvarsi verso l'alto: «Benny! Sai cosa penso?»

«Voglio davvero saperlo?» domandò l'interpellato, sorseggiando il suo bicchiere di vino.

«Penso che la misantropia abbia smesso di andare di moda da un centinaio di anni a questa parte. Potresti venire a ball—»

«Io non b—»

«Oppure» continuò senza permettere al cugino di ribattere. «Potresti dire qualcosa ogni tanto..» Afferrò la bottiglia di vino rosato che faceva bella mostra di sé sul tavolo e, mentre si prendeva gioco del cugino, ne versò un bicchiere per ciascuno dei commensali presenti – minorenni inclusi, cosa che gli fece guadagnare un'occhiataccia da parte di Nina, un sorriso malizioso da parte di Lucia e una scrollata di spalle da parte di Jonny. «Giusto per far vedere a queste belle signorine che sai parlare la loro lingua» spiegò poi, rivolgendo uno sguardo divertito a Nina e a Bea.

Benedict continuò a scuotere la testa, lo spirito di patata del cugino lo esasperava e bevve con tranquillità dal suo bicchiere.

«Tranquillo, oramai lo conosciamo. I suoi silenzi sono quasi leggendari» chiarì Bea, non riuscendo a nascondere la smorfia significativa verso l'oggetto della conversazione. «Sai, il signor Devereux non apre quasi mai bocca in questa parte di mondo. Potrei raccontarti storie piuttosto sconvolgenti, se volessi...» Ammiccò giocosa verso i due, sorseggiando anche lei di quel vino tanto dolce quanto traditore.

«Illuminami.»

«Devi sapere che la sera in cui ho avuto l'onore di incontrarlo per la prima volta... sai, una di quelle sere tra amici di amici in cui pizzette e birra la fanno da padrone?»

«Proprio il tipo di serata che Benny adora.» Riccardo assestò una pacca sulla spalla di Benedict, che, guardingo, sembrava attendere dove avrebbe condotto la conversazione.

«Esatto.» Beatrice non aveva alcuna intenzione di lasciarsi intimidire da quei suoi occhi inflessibili. «Il qui presente signor Devereux», avvertì in maniera distinta la punta delle scarpe di Nina scontrarsi contro il suo povero polpaccio, ma non era ancora pronta a stare zitta «passò la serata in muta contemplazione degli avventori del locale; avrà pronunciato al massimo tre parole in cinque ore.»

Riccardo scoppiò a ridere.

Benedict tirò indietro la testa, spostando di fatto i lunghi ciuffi neri che gli coprivano la fronte. Lo faceva sempre, sembrava una mossa da bimbetto irritato. Poi si versò un ulteriore bicchiere di vino e ne sorseggiò il contenuto. «Non nutro particolare favore per le parole dette a caso. Che posso farci?» Cercò di non tradire l'evidente fastidio che la conversazione doveva avergli causato. Era solo un gioco, eppure lui si infastidiva. Tutto lo infastidiva. Che problema hai con la gente che si diverte, Ben?

«Possa perdonarci, signor Devereux, non avremmo mai voluto dire alcunché che potesse offendere sua signoria» gli si rivolse Bea, in un tono tra il divertito e il piccato.

Benedict scelse di non rispondere alla provocazione, accennò un sorrisetto vagamente infame, anzi, decisamente infame. Sembrava volesse nascondere chissà quali verità superiori che capiva solo lui. Indirizzò le scuse ai presenti al tavolo e si alzò piano. Prima di congedarsi, sottovoce bisbigliò nell'orecchio di Bea: «Non potresti offendermi neanche se lo volessi davvero.»

E questo cosa diavolo voleva dire?

«Bea...» Nina decise che quello era il momento adatto per rimproverarle la sua irriverenza, pronunciando il suo nome con il tono esasperato da maestra stanca.

«Cosa? Era solo una battuta.»

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