Il dolore infranto. Una stori...

By Edoardo932

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La storia di una sfortunata coppia che non riesce ad avere figli, a causa della presunta sterilità del marito... More

Il dolore infranto. Una storia sadica

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By Edoardo932

C'è del sadismo in quello che sto per dirvi, in tutto questo, sì lo ammetto e non nego che provo un certo gusto e interesse nel raccontarvelo. Chiamatemi come vi pare, masochista, forse lo sono, narcisista, o addirittura "edonista" ( il cui significato adesso mi sfugge), o "folle predicatore", mente delirante, ma tutti i nomignoli che sceglierete, assegnateli con cura e attenzione. C'è del sadismo in questa storia, sì, ma c'è anche amore, affetto, ma vi dirò tutto alla fine di questa incredibile avventura, di cui anche io ero all'oscuro.

Il dolore era lancinante, acuto. Partiva dalle sue terminazioni nervose, per poi prendere il controllo della sua debole mente. Lo sentiva penetrare, come un colpo netto di frusta, nella sua pelle, ed entrare in circolo nel suo sangue. Lo sentiva, lo "ascoltava".

Poi il dolore cambiò. Da acuto e insopportabile divenne più leggero e tenue. Il mutamento in lei si verificò proprio quando il suo primo gemito divenne quasi un urlo straziato e impotente davanti agli occhi sorpresi del marito, squarciando così il silenzio della notte e facendo rabbrividire tutti i presenti in quella stanza, che assistevano al parto.

Le varie facce allibite e spaventate furono messe alla prova da un secondo gemito, questa volta più lungo e straziato.

Dopo di che nella stanza calò il silenzio. Gli orologi si interruppero e smisero di scandire il tempo. Le lancette si bloccarono, nell'ora precisa in cui si erano fermate. Persino il vento non soffiava più e tra le tende regnava una calma piatta. Nemmeno un leggero o impercettibile movimento increspava le tende, nulla.

Si udiva solamente il lamento agonizzante della povera donna, sdraiata sul letto, con la bianca veste da notte, somigliante a un panno raggrinzito e vecchio, immerso nel sangue, che formava una chiazza rossa che appariva quasi nera e opaca, di consistenza quasi solida, sotto la luce pallida della stanza. Si stendeva sul letto come una macchia di qualche strana sostanza nerastra, simile a petrolio, o catrame. Lentamente si muoveva, raggiungendo quasi la testiera del letto e sporcando lievemente la punta delle dita del marito, poggiate su di esso.

La stanza era buia. Solo una debole luce, molto opaca e soffusa, illuminava l'intero spazio circostante.

I lamenti, ora più deboli e quasi spenti, continuavano, ma bastò il tocco della mano dal marito per calmarla e rilassarla. Tuttavia, il dolore era sempre acuto e penetrante e non bastava l'amore, o la devozione, del marito per distenderla e distrarla. La calma durò qualche minuto, giusto il tempo per riprendere fiato e caricare i polmoni di ossigeno e poi l'irrequietezza del momento si scatenò nuovamente.

Cominciò a dimenarsi, scalciando in preda alle convulsioni come se dovesse cacciare oggetti invisibili davanti a lei, allarmando perfino i presenti e inducendoli ad uscire dalla stanza.

Coraggioso tra tanti, solo il marito decise di restare, affrontando la paura e il terrore che la moglie potesse non farcela in quella notte.

Il suo principale timore, in quell'ora infelice, era di non sentire più il battito del cuore dell'amata. E così, quando lei si accasciò sul guanciale, guardando in direzione della finestra e del vento assente con occhi sbarrati, stremata dalla fatica, il marito s'appoggiò al suo petto, nella speranza di sentire il meraviglioso suono che lo aveva accompagnato in tutti quegli anni di felice matrimonio.

Dopo diversi anni, la giovane famiglia ebbe l'esigenza di avere un figlio e fu una decisione che presero entrambi, per colmare un po' il vuoto che si era creato tra loro. E poi per assecondare il desiderio di lei a diventare madre. Negli anni aveva sviluppato un forte senso materno, anche in assenza di prole, che doveva però reprimere a causa dell'impossibilità di lui ad avere figli.

Un problema genetico con cui doveva combattere. Ebbene sì, aveva difficoltà ad avere figli, il che faceva di gran lunga soffrire la moglie, ma secondo la diagnosi dettagliata del medico non era proprio impossibilitato ad averne: almeno una piccola speranza, seppur un barlume lontano, c'era. Di certo, non era del tutto "sterile".

La casa era diventata ormai vuota, spenta, grigia, senza alcun tipo di svago e la loro vita matrimoniale monotona, lenta. Era come un grande disegno in bianco e nero, a volte con una leggera sfumatura di sanguigna (riferito al parto), in cui erano ormai assenti colori vivaci.

Erano felici, sì, ma non del tutto. Mancava sempre quel tassello al puzzle per riempire le loro giornate, che trascorrevano tutte uguali e lente sotto il peso degli anni che avanzavano.

Ma quella notte, su quel letto, si avverò il sogno di entrambi: nacque la loro piccola creatura.

Il medico fece di tutto per far sì che il parto andasse bene, per non comprimere troppo il bambino al momento dell'uscita.

Ci fu un errore di calcolo nelle manovre: il cordone ombelicale era ancora attaccato al bimbo, stringendogli il collo e impedendogli così di respirare.

Il medico tentò di tagliarlo, prendendo un paio di forbici lì accanto, ma senza alcun successo. Il bimbo soffocò, senza alcun gemito o piccolo lamento.

Di norma i bambini piangono quando escono, ma lui no. Smise solo di respirare e nessun pianto squarciò il silenzio della casa.

Il dolore che la giovane donna (di non meno di venticinque anni) provava prima, durante le ore frenetiche e incoscienti del parto, si ripresentò, questa volta più intenso. Un fiume in piena, impetuoso, che straripa fuori dagli argini, avrebbe fatto meno danni. Un vortice di emozioni sbiadite, scolorite, nere, invase il cuore della donna, che nemmeno riusciva ad esternare ciò che provava. Il dolore le si soffocava in gola.

Non riusciva nemmeno a deglutire, tanto lo sentiva nell'esofago, non andare né su né giù, come una spina conficcata di traverso.

Non riusciva a urlare, a buttare fuori il veleno che aveva accumulato, ma il suo debole corpo era vittima di continui spasmi involontari.

Alla fine, dalla sua gola uscì un leggero suono, simile a un sussurro. "Andate via, ve ne prego".

Ma i presenti non capirono ciò che le sue labbra avevano appena detto.

Quando lo ripeté, alzando ora debolmente il tono della voce, in maniera brusca, gli ospiti finalmente capirono e intesero ciò che la giovane donna desiderava: voleva che tutti quanti, compreso il marito, si defilassero dalla stanza.

Così fecero, tutti.

E lei rimase nella stanza, ora seduta sul letto, in compagnia del buio e con in braccio il feto morto, pieno di sangue dalla testa ai piedi, che stringeva amorosamente al petto, come per allattarlo. E difatti così fece.

Lo allattò, al seno, come fosse vivo, come se la Morte non avesse mai stroncato il suo innocente respiro. E come se ancora respirasse, poggiò l'orecchio sul suo piccolo petto, per sentire il suo ultimo leggero battito, se c'era. E difatti un piccolo, impercettibile, suono c'era: meraviglioso e beatissimo suono che si sprigionava dal petto del bimbo. E avrebbe voluto sentire quel suono fino alla fine dei suoi giorni, morire con quel battito ancora addosso, sentire ancora il suo respiro che le rinfrescava il seno, vedere ancora per anni e anni quel piccolo petto andare su e giù, nella frenesia dell'amore.

"Respira, piccolo mio, solo un'ultima volta", diceva disperata, mentre teneva in braccio l'unico frutto dell'amore incondizionato e sincero, devoto e puro, il più profondo che ci sia. "Non mi abbandonare, non mi lasciare sola", pregava.

Il suono piccolo, impercettibile, del cuore che sentiva prima si arrestò. E anche il respiro si smorzò lentamente, fino a svanire. Il feto era morto, non c'era dubbio. Anche se prima una lieve, seppur fragile, speranza era ancora viva in lei e teneva accesa la fiamma dell'amore, alimentandola di ora in ora, adesso tutto era sprofondato nell'abisso può cupo, nell'amaro più nero e nel dolore più estenuante.

Il ricordo non era più acceso come quando la sua speranza era ancora viva: si andava lentamente smaterializzando, come un qualcosa di inanimato ormai.

Era diventata insensibile al dolore, al sentimento penetrante dell'angoscia, non provava più nulla ormai da giorno.

Mentre soffriva e delirava per il feto morto, il marito non faceva altro che passeggiare avanti e indietro, molto nervosamente, dall'altra parte della stanza. Si torturava continuamente i pollici delle mani, strappandosi le pellicine fino a farne uscire il sangue dalle dita.

Nel frattempo, però, ascoltava, estasiato, ciò che la giovane donna aveva da dire al piccolo feto. Ma, con l'orecchio poggiato alla porta, ne restò completamente disgustato dal tono che usava.

Nonostante ciò, non si azzardava ad entrare. Udiva solo in lontananza una debole e fioca nenia che la donna aveva deciso di intonare per far addormentare il bimbo, che probabilmente cullava nelle sue braccia.

Il marito, impaziente di entrare e fremente nell'attesa, coglieva e percepiva il dolore della donna che attraversava quella porta, invadendo ogni angolo della casa e fermandosi nel suo cuore. Lo sentiva anche lui, forte e chiaro, lancinante e vorace, come un freccia che ti trafigge le carni.

Ma, con il passare del tempo, tutto si attenuò. Il dolore, la frustrazione, l'odio, l'amaro in bocca, le viscere contorte e in disordine, i deliri mentali e al posto di questi sentimenti si fece spazio l'amore materno, un sentimento di gioia verso la nascita di una nuova vita, di una nuova felicità per loro.

Il loro benessere personale, quello che non è per niente facile da raggiungere, consisteva solo in quello: accudire un bambino.

E nei giorni che seguirono, quando lei si fu liberata dall'ingombro del sangue sulle veste e il bambino fu ben lavato e asciugato, la donna lo accudì, facendo ogni cosa di cui un neonato aveva bisogno: lo profumava, gli faceva il bagno nella vasca, lo nutriva con il latte del suo seno.

A volte ne imitava pesino il pianto, il lamento notturno, il rumore che i bambini facevano mentre succhiavano il latte.

Non vi nego che i deliri stavano ricominciando, ora più frequenti e così il marito decise di chiamare un medico.

Ma il dottore non seppe dire un gran che. In assenza totale di spiegazioni, non sapeva delineare la natura, o l'origine, di quei deliri, o di quei "squilibri mentali", come li aveva definiti il medico. L'unica cosa che poteva affermare era che la donna aveva tutti i sintomi di una "schizofrenia latente", o, nel peggior dei casi, si poteva considerare come una vera e propria "sindrome". Secondo un termine da lui coniato, di cui poi il marito si convinse fermamente, la donna soffriva della cosiddetta "sindrome della madre compulsiva" (che ovviamente non esiste in medicina tale termine), associando quindi agli oggetti, o in questo caso alle persone, una forma e una identità.

Ma stando ora ad un termine medico, la donna era continuamente preda, giorno e notte, di "deliri di onnipotenza" e non c'era cura per questi tipi di mali.

Il marito tentava spesso di farla ragionare o di distenderle i nervi già malridotti, ma nulla. La moglie continuava a delirare e a prendere in braccio il bimbo, ad allattarlo, a fingere che tutto questo sia normale.

Ma non lo era. Il marito cominciò a stizzirsi di questo suo comportamento, tanto che provò a spiegarglielo a voce ciò che lei non capiva: cioè che il bambino, quello che teneva stretto al petto lì ora, non era altro che una creatura senza vita né nome.

Ma gli effetti di questa sua spiegazione non erano mai soddisfacenti. La moglie, di tutta risposta, si limitava a fissarlo contrariata e sbraitando ogni qual volta emetteva un giudizio che a lei non andava bene.

"Dobbiamo dargli un nome alla nostra adorata creatura", disse la donna, come se il discorso del marito di poco prima non avesse causato alcun effetto su di lei. "Voglio dargli un nome".

La malattia stava progredendo e il marito non sapeva fino a dove si sarebbe spinta.

Un giorno, in cui la luce era molto debole e pallida, quasi fredda, il marito trovò la moglie seduta in salotto, con il bambino in braccio ben vestito a mo' di marinaretto, con la schiena ben dritta e piazzata, che si specchiavamo entrambi, per vedere le loro immagini riflesse, madre e figlio.

Ma la cosa più inquietante era che anche il marito vide le loro immagini riflesse: la donna appariva come stralunata, con lo sguardo fisso e sbarrato e gli occhi, dai contorni rossi, che le uscivano dalle orbite, mentre il bambino era ben aggiustato, sorridente, ma somigliante a un pupazzo. Immobile e silenzioso.

Anche lei era tale. Lo accarezzava, gli aggiustava i capelli e, reclinando un po' il collo, gli sussurrava all'orecchio che gli voleva bene e poi ritornava nella sua posizione, sorridendo.

Con l'avanzare del tempo, tutto peggiorò. La donna divenne ancora più "protettiva" nei confronti del bambino, un bambino mai nato veramente, ci parlava sempre, giorno e notte, davanti a quello specchio.

Finché il marito, una notte, ebbe il coraggio di avvicinarsi a loro e si poggiò allo stipite della porta, guardandoli mentre si specchiavano. Il viso del bambino era pulito, candido.

Ma un'allucinazione fu preda di lui: nello specchio, il bambino alzò leggermente la mano sinistra, o almeno gli parve che la alzò e con gesto affettuoso lo salutò, sorridendo.

Era un sogno o no? Non lo sapeva dire con certezza. 

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