Come un papavero sonnifero

By themonaghangirl

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One shot con cui ho partecipato al "Concorso San Valentino 2018" indetto dagli Ambassadors italiani e premiat... More

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ABEL

Era un villaggio strano, il nostro.

Tante dicerie passavano ogni giorno di casa in casa, e alcune avevano persino la fortuna di giungere lontano, al di là del fiume e dei mulini. Non si trattava solo di pettegolezzi. Spesso erano delle storie a viaggiare sulla bocca di tutti. Leggende, tradizioni, racconti appartenenti al passato che ormai avevano perso la propria autenticità.

Ma tra tutte le storie mai pronunciate, ce n'era una che non mi era mai stato possibile cancellare dalla mente. Una vecchia leggenda che aveva quasi la mia età e che ogni abitante del villaggio conosceva.

Si narrava di questo giovane uomo venuto da lontano, forse da un luogo oltre i confini della nostra Olanda. Molti dicevano che avesse i capelli bianchi come la neve, altri invece sostenevano che fossero biondi, ma tutti concordavano sul colore dei suoi occhi: neri, come la pece, come la più oscura delle tempeste, come la più buia delle notti. Aveva gli occhi neri e smaniosi, questo era ciò che dicevano tutti. Ed era bellissimo. Alcuni sostenevano che fosse l'essere più bello che avesse mai messo piede nel nostro villaggio, dotato di una bellezza capace di uccidere.

Nessuno conosceva il motivo che lo aveva spinto ad arrivare lì. Tutto ciò che si sapeva era che lo straniero era giunto numerose volte nella nostra terra, si era trattenuto per qualche tempo e poi era scomparso nel vento, senza lasciare alcuna traccia.

C'erano alcuni al villaggio che erano convinti che avesse un legame con la mia famiglia. Non sapevo perché, ma alcune voci dicevano così.

Mia madre non aveva mai provato interesse per quelle storie, e mio padre si era sempre rifiutato di rispondere alle mie domande al riguardo. Lottie diceva che era per via dell'attaccamento alle proprie radici. Diceva che nostro padre non apparteneva a quel villaggio. In realtà, nessuno della nostra famiglia apparteneva a quella terra.

La mia famiglia aveva origini scozzesi, ma aveva conosciuto numerosi Paesi nel corso della storia.

Io ero l'unico ad essere nato nella terra dei mulini e dei tulipani, quando invece il mio nome non aveva niente a che fare con quel posto. Mi chiamavo Abel, un nome che sia la corona francese che quella inglese potevano vantare come proprio. Charlotte invece era nata in Francia, così come i miei genitori. Peccato che mia sorella non ebbe mai la possibilità di conoscere a fondo quella terra perché, a soli due anni, venne portata via da nostro padre e nostra madre per giungere in questo villaggio, lontano dai confini francesi.

Nessuno mi aveva mai rivelato perché lo avevano fatto. Nemmeno Lottie riusciva a indovinarne il motivo. Di una cosa però ero certo: quel villaggio era la mia casa e non l'avrei lasciato per niente al mondo. La tranquillità e la naturalezza che si respiravano lì non avrei mai potuto trovarle in nessun altro posto. Amavo la mia terra e amavo la mia casa.

Poi però tutto cambiò quando lo straniero decise di tornare.

Secondo le voci, erano anni ormai che non si faceva più vedere, tanto che alcuni stavano iniziando a dubitare della sua esistenza. Non erano in pochi a credere che non ci fosse nulla di vero sulle storie che si raccontavano sul suo conto e che, in fin dei conti, lui fosse proprio quello: una storia.

Stavo cominciando a credere anche io che fosse così. Per anni avevo ascoltato tutti i racconti su di lui e per anni avevo sempre provato quel forte e insensato desiderio di incontrarlo. Non sapevo perché lo volessi così tanto, forse per curiosità, o forse desideravo semplicemente incontrare il suo sguardo per poter ammirare i suoi occhi.

Quando tornò al villaggio, mancavano circa due settimane al ventesimo compleanno di mia sorella.

Io non ero lì quando accadde. La vecchia Dagmar, una locandiera, mi raccontò di aver avuto l'impressione che le sue vecchie ossa stessero per spezzarsi di colpo quando tornò.

Tutti lo sentirono. Tutti avvertirono la sua presenza.

Persino io, che stavo passeggiando nel prato che circondava la residenza della mia famiglia. Quando mi recai al villaggio, scoprii che era tornato.

Dopo tanti anni, lo straniero dagli occhi neri come la tempesta era tornato. E non era cambiato. Nemmeno un po'. Nonostante il tempo, era ancora lo stesso giovane uomo che alcuni avevano conosciuto anni e anni prima.

Domandai in giro dove fosse andato, in preda a un'ansiosa curiosità, ma nessuno mi diede una risposta. Tutti però sapevano che era nei paraggi. Era strano da descrivere, ma lo sapevo anche io. Lo avvertivo nell'aria.

Passarono i giorni, ma le nostre strade non si incrociarono mai. Sembravamo respingerci l'un l'altro, come se non potessimo stare entrambi nello stesso posto allo stesso momento. Eppure, avevo sempre la sensazione di vederlo ovunque. Per le strade del villaggio, accanto al mulino, nella mia stanza, lungo il corso del fiume, nella locanda della vecchia Dagmar, oppure disteso in mezzo ai campi di fiori.

E fu proprio lì che lo vidi per la prima volta. In un campo di tulipani rossi. Era seduto in mezzo ai fiori e stava canticchiando qualcosa fra sé e sé quando mi avvicinai. Con lo sguardo stava soppesando la propria mano, sopra alla quale si era posata una farfalla dai mille colori sgargianti.

Il giovane era diverso da come me lo ero immaginato, ma allo stesso tempo era proprio identico al ragazzo misterioso che animava la mia mente da anni. I suoi capelli erano chiarissimi sotto i raggi splendenti del sole. Il suo viso sembrava avere la stessa consistenza della porcellana, delicato, fine, ma anche spigoloso e tagliente. C'era armonia in lui. C'era pace, tranquillità, sicurezza. C'era pericolo, forza, violenza.

Eppure, c'era anche equilibrio in lui. E bellezza. Era davvero bellissimo.

Nonostante mi trovassi a pochi passi da lui, non dissi nulla. Non volevo infrangere una simile scena. Aspettai.

«Vorrei un papavero sonnifero» mormorò il giovane agitando la mano, facendo volare via la farfalla.

Era proprio vero quello che dicevano. La sua voce aveva un bizzarro accento, straniero e allo stesso tempo familiare. Sembrava che dalla sua bocca non fosse uscita una semplice voce, ma le urla di mille uomini in preda all'agonia.

Avevo sperato in uno sguardo da parte sua, per poter osservare da vicino quei due occhi di cui tutti parlavano, ma lui non mi guardò nemmeno. Si alzò tenendo la testa bassa, poi si allontanò, senza dire una parola. Il suo silenzio mi congelò il sangue e mi impedì di seguirlo, ovunque stesse andando.

Il giorno seguente, fu lui a trovare me. Stavo passeggiando vicino l'argine di un piccolo corso d'acqua con un libro in mano, e lui era lì, sull'altro argine, ad osservare il proprio riflesso. Guardai anch'io il manto trasparente che ci separava, fissando i nostri riflessi, poi rialzai lo sguardo e lui non c'era più.

Quando i nostri mondi collisero di nuovo, il giorno seguente, io stavo camminando sul sentiero terroso che costeggiava il vecchio mulino. Lui arrivava dalla direzione opposta, e si muoveva come se avesse a disposizione l'eternità intera. Sembrava la personificazione della calma. Eppure, avvertivo qualcosa di strano in lui. Qualcosa di tremendamente pericoloso.

Quando gli rivolsi la parola per la prima volta, decisi di ignorare quel qualcosa.

«Chi sei tu?» dissi, quasi mormorando.

Lui teneva lo sguardo puntato a terra, come sempre. «Dimmelo tu.»

«Io non so chi tu sia» replicai. «Ma so che non sei come gli altri. È da anni che al villaggio parlano di te.»

«Perché mi temono.»

«Forse, ma non io. Io non ti temo.»

Un soffio di vento gli sollevò appena il ciuffo di capelli chiarissimi che gli ricadeva sulla fronte. E fu allora, dopo anni di attesa, che il suo sguardo incrociò il mio, permettendomi di ammirare i suoi grandi occhi neri. Per tanto tempo, avevo creduto che, se mai fossi riuscito a incontrarlo, avrei trovato il gelo nei suoi occhi. Non fu affatto così. Incontrare il suo sguardo fu come cadere nelle braccia del sonno. Fu come lasciarsi andare completamente e dimenticare la vita. Le sue iridi nere splendevano di forza. Erano potenza allo stato puro, quel genere di potenza in grado di radere al suolo il mondo intero. E c'era anche desiderio nei suoi occhi. C'era un fuoco che mi stava consumando lentamente e che mi avrebbe sicuramente ucciso se lo avessi lasciato fare. Onestamente, ero pronto a morire fissando i suoi occhi.

Non sapevo cosa volesse da me. Non sapevo perché le nostre strade si incrociassero continuamente. Ciò di cui ero certo, era che ero pronto a tutto per scoprirlo.

Il giovane fu il primo a distogliere lo sguardo, e allora avvertii il fuoco spegnersi improvvisamente. Tornare ad osservare qualcosa che non erano i suoi occhi fu come tornare alla vita, come riprendere a respirare dopo troppo tempo in apnea. Eppure, chissà per quale assurdo motivo, ne volevo ancora. Volevo tornare a fissare i suoi occhi ancora e ancora, fino a quando non ci sarei annegato dentro.

«Dimmi il tuo nome» sussurrai nel vento. «Ti prego, dimmi il tuo nome.»

Lui voltò la testa, mostrandomi il suo profilo. «Chiamami come tu desideri.»

«Ma se non so nemmeno il tuo nome, come farò a ritrovarti?»

«Oh, non preoccuparti di questo. Sarò io a farlo. Troverò sempre la via che mi condurrà da te.»

Lo straniero mantenne la sua parola.

Accadde infatti che il giovane tornò da me il giorno dopo, e quello dopo, e quello dopo ancora. In qualche assurdo modo, sembrava sapere sempre come trovarmi e come raggiungermi. Lo fece ogni giorno a partire da allora.

Presto i nostri incontri divennero qualcosa di quotidiano e di familiare. Ero così che succedeva: io lasciavo la mia casa, lui mi trovava, e insieme passeggiavamo nei dintorni del villaggio, seguendo il corso del fiume, camminando tra gli alberi del bosco, sedendoci sulla collinetta, oppure distendendoci in prossimità del prato di tulipani rossi.

A lui non piaceva particolarmente parlare. Diceva che la sua forza non erano le parole e che risultava odioso ogni volta che le adoperava. Io non ero di quell'idea, ma rispettai comunque il suo volere, intrattenendolo ogni giorno con nuove storie, nuove vicende, nuovi aneddoti. Gli raccontai la maggior parte delle leggende che conoscevo, eppure lui non sembrava stancarsi mai.

Durante quei nostri incontri giornalieri, evitava di incrociare il mio sguardo, come se fosse costretto a farlo. Chissà se sapeva quanto desiderassi scrutare di nuovo nelle tenebre dei suoi occhi e perdermi in quel labirinto fatto di oscurità.

Un giorno mi portò in dono un fiore che non avevo mai visto prima di allora. Disse che era un fiore di loto e che aveva un significato molto speciale.

«Significa purezza. Eleganza. Grazia. In alcuni luoghi molto lontani da qui, è questo ciò che simboleggia. E io l'ho voluto donare a te.»

Da quel momento, conservai gelosamente quel fiore, anche quando questo appassì. Non esisteva dono al quale tenessi di più.

I giorni passarono e i nostri incontri continuarono ad avvenire. Ogni sera mi addormentavo con i ricordi del nostro ultimo incontro vivi nella mia mente e la certezza che il giorno seguente lo avrei visto di nuovo.

Poi però, quella certezza si sgretolò tra le mie mani.

Lo straniero non mi trovò più.

Mancavano ormai pochi giorni al compleanno di mia sorella quando il giovane incominciò a non farsi più vedere. Non incontrarlo più fu come togliermi la terra da sotto i piedi, come vagare alla cieca, senza una guida.

Lo cercai ovunque. Domandai a chiunque. Nessuno lo aveva visto e nessuno sembrava sapere dove fosse finito, eppure io sapevo era ancora in giro. Lo sentivo. Sapevo che non se n'era andato. Sapevo che non mi avrebbe mai abbandonato in quel modo.

Avvertivo la sua presenza soprattutto a casa mia, forte, incombente, minacciosa. Ero certo che stesse per succedere qualcosa, ma non avevo idea di cosa aspettarmi.

Finché una sera, affacciato alla finestra, lo vidi. Era in piedi nel prato che si estendeva alle spalle della residenza della mia famiglia, e da laggiù sembrava che stesse guardando nella mia direzione, fissandomi con i suoi occhi neri e profondi. Non appena lo scorsi nel buio, lasciai la mia stanza e uscii da casa mia.

Nel cuore della notte, io stavo correndo come un forsennato nel prato, sperando con tutto il cuore che lui non se ne fosse andato via per sempre. Per fortuna non fu così. Quando lo vidi di nuovo, era di spalle e si stava allontanando lentamente, verso il bosco che si protendeva in lontananza.

Appena lo raggiunsi, lui si arrestò. «Devi andartene. Sei in pericolo se mi stai vicino, Abel.»

Era la prima volta che mi chiamava per nome. Io non glielo avevo mai rivelato perché lui non me lo aveva mai chiesto. Chissà da quanto tempo lo conosceva.

«Pericolo? Di quale pericolo parli?»

Esitò. «Un giorno mi odierai. Quel giorno è più vicino di quanto voglia.»

«No. Io non potrei mai odiarti.»

«Nemmeno se uccidessi una persona a te cara?»

Ecco di nuovo quella sensazione di pericolo. Era tornata, più forte e travolgente, eppure io non avevo paura. Non avrei mai avuto paura di lui. «Non lo faresti mai.»

«No, è vero. Adesso che ti ho conosciuto, non lo farei, ma questo non riguarda me. Non riguarda nemmeno te. Riguarda un ordine che mi è stato imposto. Riguarda il mio Padrone e la giustizia del Cielo.»

Mi avvicinai a lui, accorciando la distanza tra noi, cercando il suo sguardo nel buio della notte. «Dimmi di cosa si tratta e io ti aiuterò. Giuro che ti aiuterò.»

A quel punto mi guardò, puntando i suoi occhi nei miei, raggelando l'aria, fermandomi il respiro. «Sono stato incaricato di uccidere tua sorella il giorno del suo ventesimo compleanno. Uno dei tuoi antenati, diversi secoli fa, ha giocato con le creature dannate dell'Inferno, condannando tutta la sua discendenza. Ogni primogenito che ha il suo stesso sangue è destinato a morire una volta compiuti i vent'anni. Io sono l'esecutore. Ho ucciso il fratello maggiore di tuo padre e anche quello di tuo nonno. Adesso devo uccidere lei. Il Cielo vuole così.»

«Non farlo» lo implorai. «Prendi la mia vita, ma non uccidere lei.»

«Sciocco umano. Credi davvero che potrei mai torcerti un capello? Se dipendesse da me, ti porterei via da questa terra e lascerei in pace la tua famiglia per sempre. Pur di non vederti perire, sceglierei la dannazione eterna. Sfiderei il Cielo e tutti i miei fratelli per te. Per te, piccolo essere imperfetto.»

Fu allora che divenne troppo tardi. Il fuoco divampava e nessuno avrebbe mai potuto spegnerlo. Nessuno su quella terra e nemmeno in Cielo. Avevamo superato entrambi quel confine sottile che ci aveva separato fino a quel momento.

E fu allora che la mia bocca si avvicinò alla sua, fino a quando le mie labbra non sfiorarono le sue, fredde ma assolutamente perfette. Quando lo baciai, mi parve di essere sul punto di scoppiare e di trasformarmi in pura luce. Fu come se stessi assistendo alla fine del mondo intero e di tutta la razza umana, e anche se fosse stato così, non me ne sarebbe importato niente.

La sua bocca era fredda come il ghiaccio contro la mia, ma era anche morbida, accogliente e desiderosa di essere baciata. E io volevo farlo. Volevo baciarne ogni singolo lato. Volevo esplorarne ogni angolo nascosto.

Quando avvertii le sue dita gelide sfiorarmi il collo e poi i capelli, quasi sussultai, ma non bastò a farmi staccare da lui. Se fosse dipeso da me, non l'avrei lasciato andare per niente al mondo.

Alla fine, fu lui a scostarsi da me, anche se io lo desideravo tanto, e lo sapeva. Sembrava che anche per lui fosse lo stesso, nonostante stesse cercando di controllarsi con tutte le sue forze. «Per un momento, stavo quasi per rivelarmi nella mia vera forma.»

«Fallo» sussurrai contro la sua bocca. «Fallo se vuoi.»

«Moriresti se ci provassi.» Fece scivolare una mano sul mio petto e con l'altra mi accarezzò il viso. «Saremo dannati per l'eternità. Io verrò punito e anche tu. Ci verrà inflitta la più terribile delle pene.»

«Non mi importa. Se innamorarmi di te significa essere dannato, allora voglio esserlo fino alla fine dei tempi.»

In quel momento non lo sapevo, ma andò proprio così.

Il giorno seguente, mia sorella compì vent'anni. Quello fu anche il mio ultimo giorno di vita. L'ultimo giorno della mia prima vita.

La mia morte non fu gloriosa e per niente eroica. Accadde così: un momento stavo passeggiando verso il vecchio mulino abbandonato, e un momento dopo stavo precipitando a terra, avvertendo qualcosa che si era spezzato dentro di me. Lui fu lì non appena accadde, e mi accolse tra le sue fredde braccia. Mormorò delle parole in una lingua sconosciuta, mentre il mondo intorno a me perdeva i suoi colori e la vita scorreva via dal mio corpo.

«Dimmi il tuo nome» dissi attingendo a tutte le mie forze. «Voglio che sia l'ultima cosa che sentirò.»

Lui mi rivolse il più triste degli sguardi e dopo annuì. «Mi hanno dato molti nomi. Nell'antica Grecia mi chiamavano Thánatos. Oggi alcuni mi chiamano Azrael, mentre altri mi confondono con mio fratello Michele. Non ho un vero nome. Io sono solo un esecutore, un servo del Cielo che tutti gli uomini detestano.»

«Non io. Non... io...»

«Mi dispiace.» Allontanò la mano dal mio viso, e in quel momento mi parve di vedere un fiore spuntare tra le sue dita. «Questo papavero sonnifero sarà il mio ultimo dono per te. Riposa in pace adesso. Ci rivedremo presto, amore mio.»

Era un villaggio strano, il nostro. Si narravano tante storie, ma nessuna di queste aveva mai narrato della morte che conosceva l'amore e che arrivava a sfidare le leggi del Cielo in nome di esso. Nessuna storia aveva mai narrato di come l'angelo più temuto dal genere umano si fosse innamorato di un semplice ragazzo appartenente alle terre olandesi.

E in quel momento ero tra le braccia della morte, letteralmente, e ne ero lieto.

Chissà se anche la nostra storia sarebbe stata raccontata al villaggio, un giorno.

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