YOUNG GOD // MARC MARQUEZ

By _Donna__

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21 anni, campione del mondo nella classe Regina, Marc non ha altro da chiedere alla vita, se non la forza di... More

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BOYS BEING BOYS
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WRAPPED AROUND YOUR FINGER (II)
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One month later
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Blame game (II)
Falling
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Sorpresa
Alex
Inconvenience
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Gossip and Pride
Tears
If you stay
Gp di Germania
All about glory
Epilogo
Wattys 2017
THRONE/THE THREE OF US

HONDA VS KTM

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By _Donna__



a place that is so pure,
so dirty and raw.
it's our paradise
and it's our war zone.

Pillowtalk
📍Cervera, Spain





||MARC||



Il rombo della moto arriva ovattato attraverso il casco, ma è abbastanza forte da poter cancellare qualsiasi altro rumore.

Più apro il gas, più la terra sembra tremare sotto i miei piedi.

Chiudo per un secondo gli occhi e li vedo, gli spalti pieni di bandiere arancioni, di gente che urla il mio nome. Non posso sentirlo, ma so che è così.

Gonfio il petto.

<<Marc Marquez, al suo anno d'esordio nella MotoGP, campione del mondo>> rimbomba nella mia testa. Il mio sogno più audace, quello che mi teneva sveglio la notte, che ogni volta sembrava troppo, un giorno è diventato la mia realtà.

Io sono questo.

Il più giovane campione che la MotoGp abbia mai visto.

Eppure qui è tutto diverso.

Il ruggito del motore, lo scenario, la pista. E con gli occhi chiusi rischio solo di prendere in pieno qualche albero.

Con il manubrio della moto da cross tra le mani e le ruote che solcano il terreno mi diverto come un bambino, un po' incosciente, un po' fuori di testa, passando ore a fare cross per la selva desolata a qualche chilometro dalla mia città.

Conosco questo posto quasi fosse una pista, come se questi sentieri fossero Aragon, o magari il Mugello. So quali svolte prendere, so come evitare la terra morbida e fangosa vicino al lago, so dove posso addentrarmi più tra gli alberi senza rischiare troppo. Che poi è tutto inutile, perché pur di superare l'altra moto che mi sfreccia davanti rischierei la decapitazione tra i rami degli alberi. Tanto campione del mondo lo sono già stato, non ho altro da chiedere alla vita se non vincere ancora.

Quando il sentiero curva cerco di infilarmi in un piccolo spazio tra un mucchio di siepi e la moto che mi precede, ma gli pneumatici di quella sono sempre qualche centimetro davanti ai miei e per non lasciarmi spazio quasi mi abbatte su un tronco poco distante. 

Giocare pulito non è mai stato il suo forte, ed un titolo in MotoGp non può far niente per salvarmi qui.

Cerco di recuperare lasciando il sentiero e spalancando il gas, con la mascella serrata e i denti che quasi digrignano dal nervoso, ma proprio quando penso di avercela fatta l'altra moto mi taglia la strada. Freno in sgommata pur di non prenderla in pieno e quasi finisco per terra, mentre l'altra con nonchalance accelera su una cunetta e vola in aria. Atterra in malo modo però, con la ruota posteriore che perde aderenza sul terreno pantanoso adiacente al lago. Il pilota è abituato e lascia andare la moto prima che questa possa schiacciarlo.

Per quanto possa sembrare sadico, un mezzo sorriso trionfante mi si stampa sul viso, nascosto dal casco. Poi con un'aria vittoriosa e solo lontanamente preoccupata raggiungo il punto in cui la moto bianca e rossa si è abbattuta.

Abbandono la mia Honda poco distante, poi fingendo di tirar su l'altra moto le dò una piccola accelerata, lasciando che la ruota ormai immersa nel fango vada a vuoto, provocando un'onda che investe in pieno il mio avversario, in pochi secondi quasi interamente ricoperto di quella puzzolente melma.

«Cerchi di seppellire sotto il fango la verità?» esclama quella voce familiare mentre con estrema delicatezza, cercando di non far trapelare alcuna goccia di fango all'interno, si toglie la mascherina dal viso. Strizza un attimo gli occhi per abituarsi alla luce, poi mi becco un'occhiataccia di sfida.

«E sentiamo, quale sarebbe la verità?»  domando divertito, con le mani sulle anche.

«Che sarai anche il campione del mondo in MotoGP, ma qui io ancora ti batto» dice, decidendo finalmente di togliersi il casco. Ciuffi di capelli biondi sfuggiti alla coda bassa le ricadono sul viso, incorniciando quel naso piccolo e gli zigomi pronunciati. Ha il volto accaldato, con delle goccioline di sudore che le imperlano la fronte, e per quanto credo di scorgere anche un che di sofferente nella sua espressione, il suo sguardo resta tagliente «e che correre in pista ti ha rammollito» sbotta.

Penso alla stagione passata e mi viene da ridere, per lei non sono bravo abbastanza neanche dopo essermi conteso il titolo di campione del mondo con i campioni in carica, per di più da rookie. Ma lei è così. Incontentabile, imprudente, schietta.

Ed io la adoro per questo.

Mi tolgo guanti e casco, poi vado ad allungarle una mano per aiutarla a tirarsi su.

Osservo i suoi movimenti e la vedo stringere i denti quando muove la spalla. Eppure non dice niente. Potrà sentire dolore, ma anche se ferita fisicamente, non può esserlo nell'orgoglio.

«Smetterò di darti quel secondo di vantaggio in partenza» dico piuttosto, attendendo che sia lei a decidere se dirmi o meno se sta bene.

«Rassegnati, Marc. Non sei tu che me lo dai quel secondo, sono io che me lo prendo perchè sono più scattante»

Reina mi dà una pacca sulla spalla, vincendo anche per oggi non solo la gara in moto, ma anche il premio come migliore distruttrice di orgogli e rigiratrice di frittate.  

Poi, sotto i miei occhi, tira giù la zip della sua giacca munita di protezioni.  Si sfila la maglia termica. Resta con un top e i pantaloni imbottiti, finché non lascia scivolare anche questi e si avvicina alla riva del lago.

Io e Reina ci conosciamo da più di una vita, da prima di poter anche solo immaginare cosa volesse dire non poter fare a meno di qualcuno. Abbiamo iniziato a correre insieme da piccoli, ci allenavamo insieme, cadevamo insieme, gioivamo insieme. Nei miei ricordi da bambini ci siamo io e lei, sporchi di fango, su moto da cross più grandi di noi.

Poi un giorno non è stato più un gioco per me, ma una cosa seria.

La Moto3, il primo titolo, la Moto2, la MotoGp e le cose, al di fuori di questa selva, sono iniziate a cambiare. La mia vita è cambiata.

Qui però è sempre tutto come una volta, qui siamo sempre noi e ciò che succede al di là di questi alberi non conta. Io, Reina e le nostre corse folli, alimentate dal nostro solito orgoglio bruciante.

Sono sempre stato geloso di questi nostri momenti. Li paragono ad una pole position, ad una vittoria sudata, qualcosa che mi dà il carburante per andare avanti. E Reina è l'unica cosa che non ho mai voluto dividere neanche con mio fratello, con nessuno.

Certo è che Reina non ha ben capito che siamo cresciuti, che di anni non ne ho più undici ma ventuno, e che lei con i suoi vent'anni e il corpo ormai non più di una bambina, non può spogliarsi così davanti a me.

Perché Reina è bella ed io non posso fare a meno di guardala, e non come la guardavo quando eravamo piccoli. Al tempo era facile volersi bene e basta, tanto che abbiamo passato la nostra infanzia a convincere tutti di essere fratello e sorella. Sono un paio d'anni, però, che nessuno di noi due si azzarda più a dirlo. 

Come sempre decido di fare finta di niente, ingoio il groppone e ricordo a me stesso chi ho davanti. 

«Reina non starai davvero per...» esclamo, allungando un braccio per cercare di afferrarle il polso, ma prima che possa arrivare a fermarla o anche solo finire la frase lei si getta in acqua «...buttarti»

«Marc o ti togli quella tuta o vengo e ti trascino in acqua vestiti e tutto»

È scontato dire che lo farà davvero.

Così a mia volta mi spoglio e in pochi secondi mi trovo con la testa sott'acqua, trattenuto giú dalle sue mani, e quando riemergo é guerra. Lei potrà anche essere più forte di me nel cross, ma io sono ancora forte abbastanza da vincere i nostri giochini stupidi in acqua e tenerla stretta tra le braccia fino a sentirla implorare tregua.

«Giuro che se mi lasci andare la prossima volta ti lascio vincere» grida Reina, dimenandosi tra le mie braccia. I capelli biondi appiccicati al viso, un sorriso da orecchio a orecchio abbinato ad una finta espressione scocciata. Noi non ci diciamo mai cose carine, ma so che siamo entrambi più che felici di poter essere qui ed ora.

E dopo un po' la lascio andare, anche se non é vero che mi lascerà vincere. Non lo vorrei neanche io.

Solo mio fratello ci interrompe, qualche tempo dopo, passando dal percorso vicino al lago con la sua bici. Attira la nostra attenzione con un fischio e, quando alziamo le mani per salutarlo, ci grida un «Voi mi raccomando, dimenticatevi sempre di chiamarmi». Così come é arrivato, con una sgommata va via.

Io e Reina ci guardiamo, poi scoppiamo a ridere.

Il solito Alex, sempre idiota, sempre innamoratissimo di Reina.

Usciamo dall'acqua e ci godiamo il sole sopra il cielo spagnolo in una delle prime giornate calde di Marzo, sperando che possa asciugarci almeno un po'. Anche nel silenzio, io e lei ci troviamo a nostro agio. La verità è che spesso sappiamo poco l'uno dell'altro, spesso passano mesi prima di una chiamata, di un messaggio, quando sono lontano per il Motomondiale. Eppure quando torno, montiamo sulle nostre moto e il tempo non sembra essere passato. Soprattutto, i problemi non vengono a bussare qui nella selva.

A volte mi chiedo come sarebbe fuori da questi alberi, fuori da questa città, in giro per il mondo. Riusciremmo comunque a tenere lontani i problemi, io e lei?

«Vieni con me» le dico, di punto in bianco. Reina sa di cosa parlo tanto quanto io conosco la risposta.

«No Marc»

«Ti piacerebbe da morire»

«Marc» Reina si gira a guardarmi, con gli occhi castani improvvisamente gelidi. «Io torno a casa, ci vediamo sta sera».

Sbuffo. Solito discorso, solita storia.

Reina è un ottimo pilota, ma resta ancorata al suolo, alle sue radici, al passato, negandosi la chance di ottenere un riconoscimento per quello di cui è capace con due ruote come prolungamento del suo corpo. E non posso credere che semplicemente le vada bene così.

Reina Del Gado è nata per fare grandi cose, e saperla qui, ad accontentarsi di gareggiare nei Dirt Track e quando capita agli Europei di Motocross, è un pensiero che mi tortura.

Si riveste, nonostante l'intimo sia ancora palesemente fradicio, ed io la lascio andare. Lei non vuole essere rincorsa, ed io le dò come vantaggio molto più di quel secondo che si prende in partenza.

✖️✖️

Non passa troppo, però, prima che torni a cercarla. Cercarla però è diverso rispetto rincorrerla. E solo perché domani parto, e quando ci vedremo questa sera ci sarà troppa gente e stare insieme non sarà la stessa cosa. Conoscendoci, probabilmente ci saluteremo a malapena.

Sua madre, con i suoi bei capelli biondi e il viso allungato, mi apre la porta d'ingresso con un sorriso. È abituata a vedere me e mio fratello gironzolare per casa e non si fa problemi quando raggiungo sua figlia in camera.

Anche perché Reina a tutto pensa, fuorché a me.

Seduta a gambe incrociate sul morbido tappeto della sua camera, camicia larga, capelli umidi che profumano di miele e pennarello tra le labbra, è circondata da fogli con formule fisiche e calcoli matematici che solo a vederli mi fanno venire il mal di testa.

Su un cartoncino, però, c'è lo schizzo di una moto.

«Ehi, ma quella è la mia HRC» esclamo riconoscendo le forme sinuose, lo scorcio del 3 sotto il vetrino, i piccoli particolari che rendono la mia moto inconfondibile. Allora forse non è vero che Reina non mi pensa.

«Guarda un po', io che non vedo l'ora che tu parta ogni volta per il motomondiale, così da poter finalmente stare lontana dal tuo essere saccente, arrogante e presuntuoso, mentre non ci sarai dovrò studiarti» borbotta, con il pennarello che asseconda i movimenti delle sue labbra. Divertito, cerco di farmi spazio tra i fogli e la raggiungo sul tappeto, godendomi la vista del suo viso corrucciato per colpa mia.

«Nena, se volevi studiare il mio corpo c'erano modi più affascinanti per chiedermelo» esclamo. Faccio finta di avvicinarmi a lei, sporgendomi in avanti e poggiando una mano vicino al suo ginocchio mentre l'altra vola alta per cercare di raggiungere il suo viso. Non riesco a trattenere il sorriso però e scoppio a ridere quando inizia a schiaffeggiare la mia mano per allontanarla.

«Per fortuna ho scelto ingegneria meccanica e non medicina allora, così posso studiare l'unica parte bella di te: la tua moto» ribatte lei, indicando con un cenno il disegno sul foglio e tutti i numeri che lo circondano «e comunque, neno, non metterti strane idee in testa. Nella mia vita me ne basta uno di Marquez che mi ama, e quel posto è già stato preso anni fa»

Scuoto la testa.

I mesi in cui ho dovuto convivere con Alex che cercava costantemente di sbaciucchiare Reina sono stati un terrore, immagini che desidero ardentemente di poter cancellare dalla mia testa e sensazioni che vorrei non aver mai vissuto.

«Perchè studi la mia moto?» le domando cercando di cambiare argomento, più interessato alla risposta che a fare come sempre qualche battutina sulla passione dei Marquez per lei.

Mi faccio più vicino e lei mi scruta da dietro le lenti spesse con i suoi occhioni marroni.

Con i denti mordicchia il tappo del pennarello e devo distogliere lo sguardo dopo poco, cercando di nascondere l'improvviso interesse per le sue labbra. 

«In università hanno proposto un progetto ai corsisti con la media più alta, tra cui ovviamente rientro, per avere crediti in più e si, insomma, spalarsi la strada» spiega, liberando finalmente la bocca per potermi fare un sorrisetto d'intesa «prendendo come punto di riferimento il motomondiale che è alle porte, ci assegnano un pilota e gli aggiustiamo la moto, nel senso che cerchiamo di farci venire qualche idea geniale che i top del top della meccanica si sono lasciati sfuggire e la mettiamo in questa nostra ipotetica moto migliorata e personalizzata per il pilota»

«Perché non me l'hai detto prima, ti avrei dato una mano!»

«Marc forse perché non la volevo, una mano» dice, con l'espressione di chi è costretto a spiegare una cosa ovvia ad un bambino per la decima volta «non volevo neanche scegliere te, è stato il professore ad assegnarci i piloti»

«Sai credo tu non abbia ben chiaro il concetto di amicizia, gli amici si aiutano quando hanno bisogno. Posso farti parlare con chi vuoi del mio team, puoi parlarne con me, sapere da me cosa vorrei in più dalla mia moto»

«Non voglio vincere solo perché ti conosco, ma perché sono brava»

«Vincere? Cosa si vince?»

«Non te lo dico»

Faccio per controbattere, ma mi becco un quaderno in faccia che mi zittisce. Poi Reina accende la TV e preme play, facendo partire una gara di MotoGP che aveva lasciato in pausa. Riconosco le curve del Qatar, il mio duello con Pedrosa. È il Gran Premio dell'anno scorso, la mia prima gara, il mio esordio nella classe regina del motomondiale. Il Gp l'ha vinto Lorenzo, ma io sono arrivato terzo. Non male per un ragazzino di vent'anni alla sua prima esperienza.

«Perché non vedi quelle dove vinco?»

«Perché, a differenza tua, cerco di imparare dai tuoi errori»

Reina si mette a scarabocchiare qualche appunto sul foglio, sempre tenendo un occhio allo schermo, e decido di lasciarla stare. Le resto vicino però, finendo di vedere la gara con lei. Ripenso alle sue parole mentre come sempre fa un certo effetto vedermi dall'esterno, in TV, e mi rendo conto che non è che non voglia imparare dagli errori, è che in questo sport serve una buona dose di ignoranza. Ignoranza sportiva. La capacità di azzerare del tutto il cervello una volta in sella e semplicemente aggrapparsi alla manopola del gas finché il traguardo non è superato per l'ultima volta.

Per ragionare ed imparare dai miei errori ci sarà tempo, per ora però voglio limitarmi a fare il ragazzino. E da ragazzino orgoglioso mi prenderò anche questo mondiale, perché il primo è il biglietto da visita, il secondo è la conferma.

Ed io voglio che gli altri piloti sappiano che sono lì. Che sono una minaccia. Che voglio abbattere tutti i record. Voglio che lo sappiano loro, e voglio che lo sappia il mondo.

Sono pronto a combattere.

Sono pronto ad entrare nella storia.

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