Smoke Town

anxieteve tarafından

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I N R E V I S I O N E «Una volta entrati nella Città di Fumo, non c'è modo di andarsene». Scappare di cas... Daha Fazla

Smoke Town
Prima Parte: L'Agnello
1. Occhio alla tigre che va a caccia nella foresta
2. La peggior compagnia del mondo ce l'hai proprio sotto al naso
3. Dove ogni speranza va in fumo (pt. 1)
4. Non toccare la pistola che sta sotto il suo cuscino
5. Dove ogni speranza va in fumo (pt. 2)
6. Il clima del Paradiso, la compagnia dell'Inferno
7. Sangue sulle mani e sul petto, che il cuore s'è spezzato
8. Sia fatta la luce, e luce fu
9. Famiglia crepata, famiglia dannata (pt. 1)
10. Famiglia crepata, famiglia dannata (pt. 2)
11. Occhio per occhio così tutti diventano ciechi
12. Fare del male è peccato, ma fare del bene è tempo sprecato
13. Come una formica d'argento sahariana
14. La moda riflette i tempi in cui si vive
15. Qualche problemino con l'alcol ce l'hanno proprio tutti
16. Solo Cartesio potrebbe dire di avere un piano in mente
17. Una Tigre in abito da sera non si era mai vista
18. L'unione di natura ed arte più elegante che possa esistere
19. Questione di gravità
20. Fermati e origlia la loro conversazione senza farti ammazzare
21. Un giretto in macchina tanto per cambiare aria
22. Vai fino in città se vuoi trovare l'amore
23. Fumo di vecchie fiamme
24. Fortuiti legami di parentela che non vanno assolutamente traditi
25. Se non hai altra scelta
26. Questione di egoismo
27. Chiudi il finestrino, altrimenti ti becchi il raffreddore
28. Fra la realtà e la percezione c'è una differenza straordinaria
29. Fatti una doccia se tutto va a rotoli
30. Incomprensioni, presentazioni e mancate ribellioni
31. Questione di falene
32. Venerdì e sabato e domenica
33. La lista dei cinque
34. Robbie Butler ha metaforicamente ammazzato se stesso
35. Ci vediamo sul lato oscuro della Luna
36. Meglio un mostro vivo, che un uomo morto (pt. 1)
37. Meglio un mostro vivo, che un uomo morto (pt. 2)
39. Nero, grigio, bianco e rosso
40. Se chiedi aiuto, ti ammazzeranno
41. Vai al diavolo e portagli i miei saluti
42. I fuorilegge dei fuorilegge
Seconda Parte: La Tigre
43. Quando la testa si spegne e si mette a parlare il cuore
44. Brindiamo ad un nuovo inizio
45. Non fare mai nulla per nulla
46. Piano d'azione

38. L'importante è fare schifo con stile

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anxieteve tarafından

«Sel, Harry! Guardate cos'ho scritto!»

Era diventata la più fastidiosa routine del mondo, quella. Jane, Jane e ancora Jane, e francamente non ne potevo più di fingere stupore e meraviglia ai suoi disegni malformati e strambi. Mi stavano facendo diventare matto.

Sel ed io eravamo appena rientrati a casa, dopo l'ennesima giornata di lavoro per lei e l'ennesima di noia per me, solo per trovare la marmocchia e Dalia che leggevano un libro e coloravano fogli di carta: era diventata un'abitudine per loro. Ogni giorno, la donna le insegnava a leggere e a scrivere, la istruiva sulla storia, sulla geografia e sulla matematica come se fosse a scuola, poi alla sera, Sel le raccontava una fiaba mentre io stavo a guardarle, sorprendendomi di quante cose Selena effettivamente conoscesse. Tu le chiedevi una curiosità, lei te ne diceva dieci in più senza neanche rendersene conto.

L'avevo sempre detto che la mia ragazza era intelligente. Me lo faceva venire duro solo parlandomi dei viaggi sulla Luna, o dell'assassinio di Kennedy e fratello, o di quella volta che due aerei si schiantarono dritti dritti nelle Torri Gemelle a New York – non così lontano da qui, dopotutto. E quando raccontava a Jane queste cose, allacciandole alle classiche fiabe per bambini, alzava gli occhi su di me, come a chiedermi conferma di quanto stesse dicendo: io annuivo e basta. Come avrei fatto a contraddirla, anche se avessi voluto? Ero stregato da tutto ciò che la riguardasse. Facevo finta di sapere quelle cose, ma in realtà ne conoscevo una su dieci – non ero appassionato come Selena: lei, cazzo, lei ci metteva l'anima. Si tuffava di testa in quel fiume di inchiostro e carta, e ne riemergeva sempre con qualcosa di nuovo. Io, dal canto mio, non facevo altro che amarla sempre di più, e così me ne stavo seduto sulla sponda del fiume, a guardarla imparare e basta.

Erano volate in questo modo, le settimane successive a Natale: non era accaduto molto, né in città, né con James, né in casa. Verso la metà di gennaio, quando le mie costole erano praticamente guarite, avevo ricominciato ad uscire da Smoke Town per conto di James, accompagnato a volte da Lee, altre da Daniel, ma era affare nella norma. L'unica cosa diversa, era, per l'appunto, Jane, quella marmocchia fastidiosa che ogni sera mi impediva di fare esperienza extrasensoriale con Sel, intrufolandosi fra di noi e stringendosi a me, al posto della mia ragazza.

Non potete capire che nervoso.

«Vi piace il mio disegno?» esclamò la marmocchia, saltando giù dalla sedia e correndoci incontro con un foglio che sventolava come una bandiera bianca.

Sel si inginocchiò e prese il pezzo di carta in mano. «Harry, Sel e Jane,» lesse ad alta voce, poi mi mostrò il disegno. Tre figure stilizzate si tenevano per mano, quella nel mezzo più piccola rispetto alle altre due, mentre un cuore rosso era stato dipinto in alto.

Oh, Cristo. Mi sembrava di vedere Egon Schiele, quel pittore del cazzo. Quanto non lo sopportavo. Ormai, la mia casa era cosparsa di disegni simili a quello: il frigo in cucina, le pareti, ogni mobile abbastanza basso per cui lei riuscisse ad arrivarci, la testiera del mio letto, e pure la tavoletta del cesso – quella volta che ero andato a cagare e mi ero ritrovato davanti la mia stessa faccia, disegnata tipo Egon Schiele, quasi diventavo stitico.

«È molto bello,» mentii di nuovo. Non facevo altro che mentirle per non ferire i suoi sentimenti. Aveva avuto già abbastanza merda da suo padre. «Ti va se questo me lo tengo io? Lo piego e lo metto nel portafogli, okay?»
Sapevo l'avrei buttato alla prima occasione buona.

Jane annuì, contenta: «Te ne faccio un altro!»

«No, no, Jane, me ne basta-» ma era già corsa via a prendere un secondo foglio. «-uno,» finii la frase sbuffando come un caprone rimbambito e vecchio, lasciando perdere. Tanto, avrei buttato pure quello.

Dalia, vedendo la mia espressione sconfortata, rise sommessamente. «Com'è andata oggi?» chiese però a Sel.

«Bene. Al solito. Noioso,» replicò. «Smoke non si vede quasi più, ha sempre un mucchio di lavoro d'ufficio da sbrigare, e se capita d'incrociarlo, è al telefono con qualcuno di importante».

La donna si alzò da tavola. «È un bene, giusto?» Non cercò di nascondere il suo sorriso, quando aggiunse: «Avete programmi per stasera?»

«No, perché?» le domandai.

«Perché è San Valentino. La festa degli Innamorati. Non la porti a fare un giro?»

Della nostra relazione, lo sapevano anche lei e Joe, ormai. Non era un problema così grave per lui, ma Dalia!, oh, Dalia sapeva essere teatrale. L'amore impossibile e pericoloso fra Selena e me era una bella storia, a parer suo. Il punto? Non volevo diventasse una storia. Volevo tenermi i fatti miei per me, così da tenermi pure la mia ragazza tutta intera, viva e vegeta. Le storie facevano circolare troppe voci, e le voci rovinavano sempre tutto.

«Non credo sarebbe tanto saggio,» risposi.

«Oh, andiamo!» Dalia, con le sue mani rugose ma morbide, mi prese le guance fra le dita, stringendole come faceva quando ero un ragazzino. «Goditi un po' la gioventù, Harry. O quando diventerai vecchio come me, ti guarderai indietro e ti chiederai se davvero sei mai stato giovane».

«Non ci arriverò vecchio come te, se mi godo la gioventù,» obiettai, sottraendomi al suo fastidioso gesto d'affetto. «Ma grazie del consiglio».

«Se state attenti e siete indiscreti, non vedo perché non potreste uscire di casa insieme, per una volta,» continuò lei.

«Perché ogni volta che siamo soli in città, succede un disastro dopo l'altro,» Sel mi precedette. «E ci finiamo sempre in mezzo».

«È solo perché non siete abbastanza prudenti,» alzò gli occhi al cielo lei, scuotendo la testa. Poi guardò l'orario, constatando che era tardi e che doveva iniziare a preparare la cena a Joe, e ci salutò entrambi. «Se per caso cambiaste idea, sono più che disposta a leggere la storia della buonanotte a Jane, al posto vostro,» aggiunse, sulla soglia, prima di chiudersi la porta alle spalle.

Selena aveva iniziato a sistemare il disordine causato dai ritagli di carta di Jane, che stava lavorando concentratissima al prossimo capolavoro, caduti sul pavimento. Mi avvicinai a lei, fermando le sue mani fredde, prendendole nelle mie, attirando pure la sua completa attenzione. «Tigre,» ne portai una alle mie labbra, baciandone il dorso. «Buon San Valentino,» mormorai.

«Anche a te, Bucky,» replicò.

«Ricordami di prestarti i miei guanti, per domani. Hai la pelle tutta screpolata,» osservai, guardandole le mani. Le sue nocche arrossate erano pure spaccate, in alcuni punti, e si vedeva il cremisi del sangue che s'era bloccato lì, in superficie, coagulato.

«Non serve,» disse. «Guarda. Siamo uguali, così,» mi fece notare anche le mie, di nocche, che non erano messe proprio meglio.

«Le mie sono così perché prendo a pugni la faccia di certa gente, me le vado a cercare,» sbuffai. «Le tue, invece... mi fa rabbia che il freddo ti faccia del male. Capisci?»

«A me fa rabbia che tu debba fare cose che non vuoi fare, tipo prendere a pugni la faccia di certa gente. Che è peggio».

«Ecco, fa rabbia anche a me, quello,» annuii. «Che schifo. È tutto uno schifo, Sel. Non posso neanche portarti fuori a cena in un locale francese costoso, da quanto schifo fa questo posto. Magari non francese, perché fa schifo anche quello, ma per lo meno a mangiare la pizza, una sera. Solo io e te, senza gli altri,» sbuffai. «Che schifo, Smoke Town, cazzo».

Fece spallucce, districando le sue mani dalle mie. «Fa schifo, sì. Ma lo dici come se fosse colpa tua, e questo fa ancor più schifo, perché non è colpa tua per niente. Guarda il lato positivo: Smoke Town farà anche schifo, ma devi ammettere che fa schifo con gran stile».

Non riuscii ad impedirmi di sorridere, tirandole un buffetto sulla spalla. In effetti, un po' di ragione l'aveva anche lei – facevamo schifo, ma avevamo stile. La notizia era piuttosto confortante, nella sua semplicità.

Non avevo mai pensato di avere stile. Sì, i miei gusti musicali erano meravigliosi, così come lo erano le mie magliette nere, ma quello non era lo stile a cui si riferiva Selena. Noi avevamo stile perché avevamo una personalità, una grinta tale da permetterci di alzarci ogni stramaledetta mattina in questo schifo di posto, e dire: «Ieri è stato un giorno di merda, così come lo sarà oggi, ma non me ne frega niente – baciatemi il culo!» e per farlo, ci voleva coraggio. Ci voleva stile. Quante persone vivevano con una pistola carica sotto il cuscino, una nella cintura dei pantaloni e una sul tavolo della cucina? Quante persone uscivano di casa a fare la spesa con il pensiero che forse, a casa, non ci sarebbero più tornate?

La gente normale non aveva stile. Noi di Smoke Town, invece, cazzo se ce l'avevamo. Eravamo tutti dei duri. Dal primo all'ultimo. Fanculo. Avevamo stile.

«Sai che ti dico?» mi voltai improvvisamente verso Selena, che stava già mettendo a scaldare l'acqua per la pasta della cena. «Usciamo. Noi due. Stasera».

«Cosa?» rise. «Ma Harry-»

«Ma sì, Sel!» la raggiunsi. «Possiamo benissimo gestire la cosa, per un paio d'ore. Siamo o non siamo dei duri, uhm? Lo siamo. Quindi possiamo uscire. Basta stare attenti».

«E la cena?»

«Aspettiamo che ritornino gli altri».

Guardammo entrambi l'orologio: erano le sei. Nel giro di trenta minuti sarebbero stati tutti qua. «Okay, ho tempo per una doccia,» disse lei. Non mi diede neanche tempo di replicare, che sfrecciò via dalla cucina, diretta in bagno, lasciandomi solo con Jane.

Era ancora zitta zitta che disegnava, lì al tavolo. Colori sparsi ovunque, colla, forbici, matite, residui di gomma da cancellare – un uragano avrebbe fatto meno disordine. «Hey, mostriciattolo,» iniziai, scompigliandole i capelli scuri. «È ora di mettere via. Fra poco sarà pronta la cena-»

«Mi aiuti?» alzò lo sguardo su di me. «Come si disegna una pistola?»

«Una pistola?» ripetei, aggrottando le sopracciglia, sedendomi vicino a lei.

«Sì,» annuì. «Per sparare. Una pistola».

Quando i miei occhi si posarono sul foglio sotto le sue mani, mi si mozzò il fiato in gola. «Jane...» mormorai, sollevandolo, portandolo all'altezza del mio viso.

Era raccapricciante, e non raccapricciante tipo Egon Schiele. Raccapricciante come lo era un mostro-tarantola con otto zampe pelose e sanguinolente, che aveva appena afferrato una piccola creatura fra le zanne, e la stava per divorare. Non poteva averlo fatto lei. Le sue mani avevano disegnato tre omini stilizzati solo venti minuti prima, quindi com'era possibile che adesso avesse ritratto quella... cosa?

«A... a cosa serve la pistola?» deglutii.

«Per uccidere papà,» indicò il mostro-tarantola. «Altrimenti lui ucciderà me».

«Non so come si disegni una pistola».

«Posso vedere la tua? Per ritrarla».

Esitai un attimo, come in stato di trance, poi mi riscossi e afferrai l'arma dalla cintura, scaricandola prima di darla a lei. «Non è un giocattol-»

«Lo so. Papà ha colpito la mamma con questa. Proprio qui,» il dito con cui aveva puntato il ragno, lo premette sul mio polmone destro, facendomi trasalire. «Non respirava più. E poi è morta».

Pressai le labbra assieme. «Non devi pensare a queste cose, Jane. È passato».

«Se è passato, perché lo vedo ogni notte?» domandò, con quei suoi occhi così penetranti da farmi scordare come respirare. «Il ragno va ucciso».

«La vendetta non serve a nulla. Non ti ridarà la tua mamma, lo sai, vero?»

Ma non rispose. Riprese a disegnare e non parlò più.

. . .

Uscimmo solo quando arrivarono Niall, Liam e Zayn, con quindici minuti di ritardo. Selena ed io avevamo già mangiato, quindi fu solo una questione di salutare i tre e spiegare loro brevemente i nostri piani, per poi sfrecciare fuori dall'appartamento così da evitare che essi fossero distrutti prima ancora che cominciassero.

Tolsi il telo alla mia auto, aprii la portiera a Selena e la lasciai salire per prima, poi presi posto dietro al volante e accesi il motore. «Fra un po' dovrebbe scaldarsi,» la assicurai, vedendo come si strofinava le mani l'una contro l'altra, soffiandoci in mezzo col suo fiato caldo.

Il peso dei due disegni di Jane, nella tasca della mia giacca, mi costrinse a tirarli fuori entrambi, posandoli sul cruscotto: quello stilizzato e quello troppo realisticamente mostruoso. Il secondo non l'aveva visto nessuno, neanche Sel – Jane l'aveva finito poco prima che lei avesse terminato la doccia, e io l'avevo nascosto immediatamente – ed era meglio così.

Quando il motore si fu scaldato quel tanto da non morire, portai la macchina in strada. Il brutto di guidare per Smoke Town d'inverno, era che oltre ad essere Smoke Town, era pure inverno. La combinazione non era delle migliori.

«Allora, dov'è che andiamo?» ruppe il silenzio lei, dopo una decina di minuti, allungando una mano verso lo scompartimento sotto il cruscotto e incominciando a frugare fra i miei CD.

La guardai, rivolgendole un piccolo sorriso sghembo, e «si chiama Darkstar,» dissi. «Ti piacerà». In realtà non sapevo se le sarebbe piaciuto o meno, ma ci speravo davvero. «Vedilo come il nostro primo appuntamento,» aggiunsi.

«È tipo un locale di spogliarelliste, o...?» rise lei. «Darkstar. Mi sa di pazzia».

«È molto meglio di un locale di spogliarelliste, mia cara Selena Parker,» ammiccai. «Sì, il Darkstar è una pazzia».

«Che genere di pazzia?» indagò.

«Una di quelle che quando la fai, sei fottuto. O ti va bene, o te la fai andare bene. Ma ne vale la pena, te lo garantisco».

Alzò gli occhi al cielo, lasciando cadere il discorso. «Ascolti i Dire Straits?» chiese, estraendo Making Movies dal cassetto del cruscotto.

Annuii. «Ti piacciono?»

«Alcune canzoni, sì,» rispose. «E ascolti pure i Depeche Mode?»

«E Bowie,» dissi, accendendo la musica. «David Bowie ti piace?»

«Molto,» sorrise. «Le sue canzoni sono mille volte meglio di quelle dei tuoi Pink Floyd».

«Tanto te li farò piacere, Sel, a forza di farteli ascoltare,» ammiccai. «Poi, ammetti che è stata una genialità unica, la mia».

«Quale genialità, fra le tante?» rise, un po' sarcastica, un po' divertita.

«Dichiararti il mio folle amore e devozione in un cimitero di fortuna con i Pink Floyd di sottofondo, ovviamente».

«Avrei preferito Michael Jackson, con Thriller. Avrebbe fatto molto più effetto, sai, gli zombie e tutto...»

Scossi la testa, ridacchiando sotto i baffi. Ascoltammo in silenzio Making Movies, o meglio, solo la prima canzone, che durò tanto quanto il nostro viaggetto fino al Darkstar. Otto minuti. Parcheggiai l'auto sul ciglio della strada, spegnendo il motore; non mi fidavo della periferia tanto da lasciare la mia Rover incustodita, in una zona così popolata, ma decisi di correre il rischio. Teoricamente, i teppistelli della zona sapevano che quella era la mia macchina, e se avevano un po' di buon senso in quelle teste del cazzo, l'avrebbero lasciata stare.

«Darkstar Ink,» Sel lesse ad alta voce l'insegna al neon del locale, quando uscimmo dall'abitacolo caldo e appoggiammo i piedi sull'asfalto bucato della strada. «Non dirmi che è-»

«Un negozio di tatuaggi, esatto,» ammiccai. «Vieni,» la tirai pei il polso, aprendole la porta per farla passare.

Dentro, era tutto illuminato da luci cremisi, le pareti rosse che creavano un contrasto con il pavimento nero rendevano tutto più suggestivo. Era da un po' che non ci venivo, e la familiarità del luogo mi fece sorridere fra me e me. Non c'era molta gente, anzi, quasi nessuno: un motociclista biondo e tarchiato stava seduto in un angolo, da solo, a sfogliare un giornale, mentre dall'altra parte stava una donna ricoperta di inchiostro dalla testa ai piedi, vestita da prostituta – e probabilmente lo era. I motociclisti, le prostitute e i figli della droga erano gli unici a frequentare il Darkstar, escludendo Zayn, Liam, Louis ed io, e la cosa mi era sempre andata bene.

«Misericordia! Guarda chi si rivede!» la voce familiare del proprietario mi giunse alle orecchie, e mi girai di scatto per vederlo entrare nella stanza. «Che mi caschi un occhio se quello non è Harry Styles».

Il motociclista e la prostituta alzarono gli occhi su Selena e me, quando un uomo dai capelli lunghi e neri, raccolti in una coda, ci venne incontro.

«Tom,» lo salutai, dandogli una pacca giocosa sulla spalla. «Come vanno le cose?»

«Potrebbero andare meglio, ma non mi lamento. Quel coglione di Johnny aveva spacciato la roba fuori orario, quelli di Smoke l'hanno sgamato in pieno giorno e mi hanno fatto chiudere per tre settimane perché apparentemente Johnny aveva scaricato il barile su di me».

Aggrottai le sopracciglia. «Sei fortunato che non ti abbiano ammazzato».

«Nah,» soffiò lui. «È stata quella mezzasega di Carter a farmi chiudere. Figurati se c'ha le palle di ammazzare un vecchio come me».

«Poteva succedere benissimo, lo sai anche tu. Se non fosse stato Carter, s'intende,» un'altra voce a me familiare mi fece trasalire leggermente. Che cazzo faceva qui? «Harry Styles, ciao,» disse Sarah Bailes, quella punk. Di nuovo, porca puttana.

«Ciao, Sarah,» bofonchiai.

«E lei sarebbe?» domandò la ragazza, riferendosi all'altra ragazza, quella mia.

«Selena,» disse Sel, facendo un passo avanti. «Piacere».

«Non ti ho mai vista prima,» osservò Tom, sorridendole calorosamente e stringendole la mano.

«E io non avevo mai visto te,» replicò Sel.

Tom scoppiò in una risata piuttosto fragorosa, anche se io non c'avevo trovato nulla di divertente. Poi, il fatto che Sarah continuasse a spostare gli occhi da me alla mia ragazza, come il braccio di un pendolo, avanti e indietro, destra e sinistra, mi metteva addosso una discreta quantità di ansia e preoccupazione. Già non sapevo mentire, e poi lei era una donna: le donne erano mille volte più perspicaci degli uomini, cazzo!, e se avesse capito che c'era qualcosa fra me e lei, sicuramente l'avrebbe spifferato a tutto il mondo.

«Dimmi un po', cosa fai qua?» le chiesi, schiarendomi la gola, cercando di sembrare disinvolto.

Il suo sguardo scattò su di me, lasciando stare Selena. «Lavoro, Harry. Aiuto Tom coi tatuaggi e tutto».

«E li fai, pure?» domandò Sel.

«No. Li disegno e basta, perché gli aghi mi fanno impressione».

«Pure a me,» annuì Selena.

«Davvero?» sorpreso, alzai un sopracciglio, la guardai e «quindi tu non vuoi marchiarti a vita, oggi?»

«Se mi avessi detto che il Darkstar era un negozio di tatuaggi, ti avrei detto di cambiare posto,» scosse la testa.

«Sei passato solo per sapere come stavo, o hai intenzione di farti qualcosina, Harry?» s'intromise Tom.

«Se avessi voluto sapere come stavi, ti avrei telefonato,» sbuffai.

«Beh, visto che Harry vuole aggiungere qualcosa alla sua collezione, tu puoi stare a guardare con me, che ne dici?» Sarah stava fissando Selena un po' troppo intensamente per i miei gusti. Sapevo che era bisessuale, ma le tipe come Sel non potevano piacerle, giusto? E poi, non era la pseudo-ragazza di Zayn, o qualcosa del genere? La sua scopamica, in teoria. Insomma, era uguale: fidanzata eventuale, scopamica... che differenza c'era?

«Va bene,» annuì Selena, e Sarah la prese sottobraccio, tirandola verso il retro del negozio, dov'era venuto Tom poco prima.

«Uhm... Harry?» prima che potessi muovere un passo per seguirle, l'omone mi richiamò, posando una mano sulla mia spalla.

«Tom?»

«Siete tipo... fidanzati?»

Mi strozzai con la mia stessa saliva. «Abbassa la voce!» bisbigliai, controllando che il motociclista e la prostituta non avessero sentito. «E no. Non siamo fidanzati. Ma ti pare...»

«Parlo di Selena, non di Sarah-»

«Sì, l'avevo capito che parlavi di Selena,» scattai. «E ti sbagli».

«Boh, sarà stata solo una mia impressione...» si grattò la nuca. «È bella, però. Non trovi?»

«È fastidiosa. Le dovevo un favore, quindi l'ho portata qui perché credevo le piacessero i tatuaggi, e invece no! È tanto, tanto fastidiosa, Tom, credimi. Non vedo l'ora di liberarmene».

Con quella frase, parve convincersi della mia bugia. Chissà, forse stavo migliorando un po'.

. . .

Selena

Sarah mi guidò sul retro; le luci rosse della sala d'attesa divennero semplici luci al neon bianche, tanto che i colori ritornarono ad essere normali. Mi accorsi che lei era molto più pallida del previsto, persino più di me, e il trucco profondo degli occhi le dava un'aria quasi spettrale. Era molto bella, però, particolare. Vestita interamente di nero, era una di quelle ragazze che noti non appena la vedi, anche da distante. Una di quelle ragazze che fanno impazzire i genitori – e i ragazzi.

La stanza in cui venivano fatti i tatuaggi veri e propri, dove c'erano un tavolino con una sedia di legno e una specie di branda in pelle nera, era tappezzata di immagini di clienti precedenti con le loro opere d'arte corporali.

«Quelli non sono Zayn e Louis?» domandai, indicando una coppia sorridente in un mare di visi ossuti, duri e seducenti.

«Già. Venivano qui spesso,» rispose Sarah, iniziando a preparare l'attrezzatura e l'inchiostro.

«Ora non più?» indagai.

«No. Non viene più molta gente, qui. Almeno, non da quando ci lavoro io. I tempi stanno cambiando, non so se te ne sei accorta».

«Stanno cambiando? In che senso?»

«Beh,» ridacchiò lei. «Quante prostitute vedi, in giro?»

«Non molte, in effetti, ma-»

«Qualche tempo fa, la periferia brulicava di puttane. E di drogati a piede libero, che ti ammazzavano per strada. Ora, sei fortunato se incontri un cane».

«È un bene, no?»

«Un bene?» rise. «C'è qualcosa che non va, Selena. Non lo senti? È un cambiamento nell'aria, e non è poi così positivo. Smoke sta tirando le redini, la gente sparisce e non ce ne accorgiamo nemmeno. Non ti chiedi dove diamine siano finiti tutti, hmm?»

Si zittì non appena Harry e Tom varcarono la soglia, e tornò ad armeggiare con i suoi strumenti come se non avessimo mai parlato. Dal canto mio, sentii il ragazzo fermarsi alle mie spalle, sfiorare con un dito il mio fianco destro, e «tutto okay?» mormorò.

In verità, non stavo proprio così bene. Le parole di Sarah mi avevano turbata: io non c'avevo pensato affatto, e aveva ragione lei; la gente spariva, e noi lo scambiavamo per un bene. Dov'erano finite le prostitute? I drogati? Si rintanavano tutti al riparo? Perché? O erano semplicemente morti?

Nonostante il mio dissidio, annuii e confermai: «Tutto okay».

«Allora, Harry,» Tom si girò verso di noi, strofinandosi le mani. «Cosa vorresti?»

«Stavo pensando ad una tigre-».

«Sei matto,» borbottai.

«Zitta,» replicò, piano, pizzicandomi la vita.

«Una tigre? Realistica?» indagò Tom. Non aveva sentito il mio commento, né la risposta di Harry.

«Sì. Con i denti affilati, pronti ad uccidere».

«Che schifo, dai,» dissi, ad alta voce questa volta. «Harry, sembra il tatuaggio che si farebbe uno di quei tipi nerboruti dal cervello piccolo e le braccia grosse che guidano motociclette e si spaccano bottiglie di rum sulla nuca».

«La ragazza non ha tutti i torti,» Tom prese le mie parti, facendomi un cenno.

Harry, però, non si diede per vinto: «Beh, che cazzo volete, oh, è la mia pelle, posso tatuarmi ciò che più mi piace».

«Sì, come quella volta che mi hai costretto a tatuarti la N di quella troia di merda che ti piaceva, e quando vi siete mollati hai preso un coltello e te la sei tagliata via,» alzò gli occhi al cielo Tom. «Natalie, vero?»

«Smettila di rinfacciarmelo. Ero giovane e stupido, okay? Ora sono vecchio e saggio, e voglio una tigre con le zanne bianche, pronta ad uccidere, sul bicipite».

«Ma ciucciamelo,» grugnì Tom. «Sei più stupido di una merda, Harry. Dai retta a chi fa questo lavoro da tutta la vita, non ascoltare la tua testolina vuota. Sai quanto tempo ci vuole e quanta preparazione serve, per farti quella tigre del cazzo?»

«Beh, se fai questo lavoro da tutta la vita, non dovrebbe essere un problema per te,» fece spallucce, andando a sedersi sul lettino nero. Si sfilò la giacca e la pistola dalla cintura dei pantaloni, poggiandole da parte.

«Avrei un'idea migliore,» tossicchiai. «Cioè, da una parte, l'idea della tigre mi piace, però dall'altra, Tom ha ragione».

Harry si passò una mano fra i capelli. «Senti, a me basta ci sia una tigre, o qualcosa che c'entri con una tigre. Fammi quel cazzo che vuoi, Tom, ma con una tigre».

«Perfetto,» sorrisi. «Sarà una sorpresa».

Mi avvicinai a Tom e a Sarah, presi un foglietto di carta da un block notes lì vicino, una penna nera, e diedi vita ai miei pensieri, scarabocchiando velocemente.

«Non capisco cosa c'entri con la tigre che vuole lui,» bisbigliò Sarah, per non farsi sentire da Harry, riferendosi al mio piccolo schizzo.

«C'entra, fidati,» risposi. «Lo capirà».

«Hm, okay,» Tom annuì, pensieroso, grattandosi il mento. «Ovviamente lo devo migliorare un po'».

«Credo gli starebbe bene qui, non trovate?» mi spostai verso il soggetto, indicando la zona poco sotto l'ascella, sul costato della parte sinistra del suo corpo. «Togli la maglia, un secondo».

Harry ubbidì senza proferire parola, mantenendo gli occhi fissi su di me, e Tom fece l'ennesimo cenno affermativo col capo. «Sì, può andare. Mi piace. Anche se, come ha detto Sarah, non vedo cosa c'entri con la tigre».

«Fidatevi che c'entra,» li rassicurai ancora.

Come tatuaggio non era molto grande né elaborato, anzi, era forse uno dei più piccoli e semplici che Harry avesse. Ci stava giusto giusto fra una costola e l'altra, e Tom non ci mise molto a farlo – venti minuti più tardi, infatti, aveva già finito.

«Ecco fatto. Spero ti vada bene,» disse lui ad Harry, pulendo l'inchiostro in eccesso dalla pelle, passandogli poi uno specchio per poterlo guardare.

Non riuscii ad evitare di mordermi il labbro, mentre osservavo i lineamenti di Harry, contratti, i suoi occhi verdi che esaminavano la nuova opera d'arte comparsa sulla sua pelle. «Burning bright,» lesse poi le due parole, alzando lo sguardo su di me.

«Divampante fulgore: quello che sei,» mormorai.

«Tyger! Tyger! Burning bright,» recitò. «Cazzo quanto ti amo, Tigre».

Si rese conto di ciò che aveva detto solo per via della mia espressione sgomenta, e del mezzo urlo da parte di Tom, che esclamò: «Lo sapevo, merda!»

«Uh-uh,» ridacchiò Sarah. «Harry Styles è innamorato. Cos'è, le piacciono i Pink Floyd?»

«In realtà non molto,» bofonchiai, più a me stessa che a lei, abbassando il viso.

«Questa cosa deve rimanere fra noi,» ringhiò Harry. «Guai a voi se ne fate parola con qualcuno. Se Smoke dovesse venire a saperlo-»

«Lo sappiamo, lo sappiamo,» lo precedette lei. «Non verrà a saperlo. Fra ragazze ci si aiuta,» mi fece l'occhiolino. «E fra amici pure».

«Bene,» disse Harry, duro. «Non ho problemi a venire a cercarvi, se lo spifferaste in giro».

Tom scosse la testa: «Mio caro ragazzo. Ti ho praticamente visto crescere. Ti ho fatto il primo tatuaggio a dodici anni, ricordi? E non l'ho mai detto né a tuo padre, né a tua madre. Credi io non sappia mantenere un tale segreto?»

Harry parve rilassarsi di colpo, e riuscii a farlo pure io, tanto che tirai un sospiro di sollievo. «Grazie».

«E di cosa?» fece Sarah. «Non ho sentito nulla perché Harry non ha detto nulla. Giusto?»

«Giusto,» mi affrettai a dire.

Vidi che Harry stava per aggiungere qualcos'altro, quando il mio cellulare prese a squillare: lo estrassi velocemente, controllando il nome sul display prima di rispondere. «È Niall,» la mia affermazione suonò più come una domanda. Poi, «sì, dimmi,» feci, quando risposi alla chiamata, portandomi il telefono all'orecchio.

«Selena,» sussurrò Niall, dall'altra parte. «D-dove siete?»

La sua voce tremava. Era seria, triste, quasi come se avesse pianto. Ma Niall era troppo allegro per piangere, no? «Cos'è successo?» mi allarmai subito – come non farlo?

«Tornate subito,» tagliò corto lui. Poi riagganciò.

«Cos'è successo?» non appena riposi il telefono nella tasca dei pantaloni, Harry mi pose la stessa domanda che io avevo fatto al biondo, e come me, neanche lui ottenne una risposta. «Cosa voleva?»

«Non... non lo so. Ha detto di tornare subito a casa-»

«Cazzo,» imprecò Harry. S'infilò la maglia in una mossa fulminea, seguita dal giubbotto, e mi lanciò la pistola che presi al volo. «Tieni il resto, Tom,» disse, posando una banconota da cento dollari sul tavolino. «Dobbiamo andare».

Non gli lasciò né il tempo di ringraziarlo, né il tempo di salutarci o aggiungere qualsiasi cosa, perché mi afferrò per il polso e mi trascinò fuori dalla stanza dei tatuaggi, oltre il corridoio, dentro e poi fuori la sala d'attesa rossa. Aprì l'auto e ci catapultammo al suo interno, e Harry partì senza neanche mettersi la cintura.

Era successo qualcosa, a casa, sicuro come la morte, e noi non eravamo stati lì per impedirlo.


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