Per arrivare a Lei | ๐‘ฉ๐’๐’š๐’™...

By CharlotteNeko

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COMPLETATA (Capitoli: 38/38) || BOYXBOY - R18 || Dal capitolo 14: Ero stregato. Stavo baciando un principe... More

1. Sei un eroe!
2. Alzati, Lancillotto abbronzato!
4. Come beccarsi una freccia in gola e non restarci secchi
5. Una serie di sfortunati incendi
6. L'acqua รจ stupenda, se non fosse...
7. Cervello fra i capelli
8. Cappelli rossi
9. Niente donne per il mercenario
10. La prima regola รจ: non uccidere
11. I pugni sono ammessi?
12. Bruciato morto
13. Quando mai qualcosa va?
14. Morire al vostro fianco
15. Fiocchi di cenere
16. Baci alla camomilla
17. Non sono arrabbiato
18. Scambi inopportuni
19. Possiamo parlare di birra?
20. Nuda veritร , letteralmente
21. Ad occhi chiusi
22. Tragรฉdie d'amour
23. Bruciante desiderio
24. Fulmini e saette
25. Fidarsi รจ bene ma non fidarsi รจ meglio
26. Incubo di una notte di mezza estate
27. La notte piรน buia e la luce piรน strana
28. Il dolce gusto dell'espiazione
29. Superpoteri sparsi a caso
30. Vita appesa ad un filo
31. Correte!
32. Just the two of us
33. Il tuo peggior nemico รจ la Paura
34. Giรน le maschere
35. Tutti per uno
36. Uno per tutti
37. La ballata del Cavalier Idiota e del Cavalier Cuor di Pietra
38. Siamo noi gli artefici della nostra Storia [FINE]

3. Sulla tranquillitร  mi sbagliavo

961 71 52
By CharlotteNeko


André


Una candela accesa. Una candela spenta. Una candela accesa. Una candela...

«Smettila.» Era la mia voce. No, non era la mia voce. Era un sussurro rauco, un mormorio reso graffiante e sottile dalle urla. Era un sibilo più animale, che umano. Perché era quello che ero. In fondo, non dicono che tutti gli uomini sono animali? Io lo ero. Un animale vicino alla soppressione, una piccola bestia sottomessa, gonfiata dalle carezze del suo padrone, schizzata del suo stesso sangue. «Ti prego.»

Passò il coltello sulla candela accesa. Premette la lama sulla fiammella, spense la candela. La riaccese. Mi posò una mano sulla gamba, una carezza appena accennata.

Sfiorò il mio braccio con il coltello, dove la vena violacea spuntava alla luce tiepida della candela. La lama affondò nella carne, come una forchetta che sprofonda in un morbido pezzo di torta. Il ripieno di crema scivolò via. Il sangue iniziò a fuoriuscire dal taglio senza fermarsi, il ticchettio delle gocce sul pavimento sudicio. Un carico color cremisi macchiò la brandina su ero stato gettato. 

«Lo sai che se svieni, mi arrabbierò.» Mi sforzai di guardare il soffitto, le volte alte e annerite dal buio della notte. Il mondo iniziò a sfocarsi e a roteare. Mi morsi l'interno della guancia, un sapore metallico mi riempì la bocca. La vista si fece appena più chiara. Presi un grosso respiro, mentre sentivo la ragione scivolarmi via.

Resta sveglio.

Mi scostò i capelli dal viso. Aveva un tocco leggero, dolce, buono. A volte mi sembrava di volergli bene, quando faceva così. Ma non gli volevo bene. Lo odiavo.

Resta sveglio. Resta sveglio. Resta sveglio.

Sentii la lama trapassarmi la carne, sbattere contro il ferro dei braccioli. L'arma rimase conficcata nel braccio.

«Bravo.» disse e sorrise. Mi strinse più forte i lacci intorno ai polsi e alle caviglie. «Ora viene la parte migliore.» prese un lungo coltellaccio. Era più grande, più affilato, sopra c'erano i residui del sangue secco e rappreso di qualcun altro. Lo stomaco ebbe una contrazione, la bile mi salì alla gola. Ingoiai. «Vedrai...» posò il coltello sul petto. «Non farà male.»


Gridai a squarcia gola.

Mentre avvertivo la gola ululare in segno di protesta al mio urlo, mi accorsi che quello era un sogno. Era solo un sogno. O meglio, un ricordo.

Mi tirai le coperte sulle spalle e poi fino alla testa, cercando di sprofondare nel letto che cigolava al suono dei miei movimenti. Passandomi le mani sul viso, mi stropicciai gli occhi sfregandomi la pelle nel tentativo di scacciare quelle immagini dalla testa. Perle di sudore mi rigavano la schiena lentamente, molto lentamente, come la disgustosa sensazione del sangue caldo che scende dalle ferite. 

Dopo, mi tolsi le lenzuola di dosso e saltai giù dal mio giaciglio di vecchi cuscini impolverati, col materasso che emetteva un cigolio fastidioso. Alzai il braccio sinistro e osservai, fra una serie di tagli e solchi rosati, uno in particolare: uno strato profondo di tessuto cicatriziale, la mezzaluna di un coltello arroventato.

Abbassai il braccio e camminai silenziosamente verso il bagno, le piante dei piedi che producevano un silenzioso scalpiccio contro la pietra gelida. Mi fermai davanti al vaso da notte in ceramica, immacolato, e rimasi lì a fissarlo come in trance. Poi mi chinai a terra, con le ginocchia nude che toccavano il pavimento, e afferrando il bordo vomitai, anche se non avevo nulla nello stomaco. Erano tutte reazioni normalissime, cose che capitavano quando, nelle notti peggiori, ricordavo.

Quando qualche minuto dopo mi rialzai, mi massaggiai i muscoli indolenziti delle spalle e mi recai verso la tinozza piena d'acqua pulita. Ci immersi le mani dentro, cercando di sentire su ogni centimetro di pelle l'impronta fredda dell'acqua, per poi passarmela abbondantemente sul viso e sorseggiandone un poco. Insoddisfatto, affondai completamente il capo nel liquido gelato, estraniandomi dal resto della stanza, come se il corpo fosse in un luogo e la testa in un altro. Ma aggrappavo ad ogni sensazione possibile, pur di ricordarmi che ero vivo.

A corto di fiato, rialzai la testa e fissai il riflesso della mia immagine nello specchio crepato su un angolo. Due pallidi occhi verdi, simili al colore delle mele acerbe, ricambiavano lo sguardo, tanto impassibili da risultare derisori. "Guarda come ti sei ridotto" dicevano. Quanto avevano ragione.

Mi arrotolai una ciocca bagnata intorno al dito, come se il fatto che fosse bianca non mi sfiorasse minimamente, poi la lasciai ricadere fra i lisci capelli biondo pallido, tendenti più al grigiastro che al giallo. No, non ero vecchio, rasentavo i venticinque anni d'età. Ma doveva essere tutto il veleno che mi circolava nel sangue a far morire le cellule del mio corpo, una ad una, fra cui anche quelle dei miei capelli. Ogni tanto una ciocca bianca faceva la sua comparsa, ricordandomi quanto era prezioso il tempo che avevo a disposizione.

Presi un respiro profondo e ritornai in camera da letto. Aprii la finestra, lasciai che il profumo della primavera spirasse nella stanza e mi entrasse nei polmoni, ripulendomi dalle prime sensazioni sgradevoli del mattino. L'odore dei germogli freschi che crescevano nel giardino reale, il cinguettio sommesso degli uccellini fra gli alberi, il clangore delle spade... spade.

Quel rumore mi ricordò che nella zona allenamenti del castello era in corso una gara. Chiunque avesse vinto sarebbe stato il mio compagno di viaggio. Avevo faticato tanto per convincere il re a mandarmi con il principe di Gilerines, Francis Levou, nella missione di salvataggio per la principessa. Dopo lunghi momenti di incertezza, il sovrano di Akra aveva capito che anche io ero fondamentale in una missione del genere. 

Avevano bisogno di qualcuno che fosse in grado di medicare le ferite o prevenire malarie... Insomma, era necessario qualcuno come me. In quanto erborista, conoscevo le giuste piante mediche, sapevo come sopravvivere nei boschi anche con radici come unico nutrimento, potevo indicare quali tipi di frutti fossero velenosi, creare impacchi per recuperare le forze e... E dovevo viaggiare per salvare la principessa. Dovevo. E non perché volessi davvero ritrovare quella ragazza. Non che non me ne importasse niente, mi dispiaceva, certo. Ma avevo un obiettivo da seguire, qualcosa di vitale importanza: trovare la Lingua di Drago.

Dopo essermi infilato un paio di pantaloni e una leggera camiciola bianca, mi spostai nella mia stanza da lavoro, ignorando impassibile gli schiamazzi degli spettatori e il rumore delle spade che cozzavano l'una contro l'altra. I capelli sgocciolavano ancora, ma presto si sarebbero asciugati. 

Non appena entrai nella mia bottega, inforcai un paio di occhiali piccoli e rotondi, simili a tappi di bottiglia, e rimasi per qualche minuto a fissare alcuni fasci penzolanti dal soffitto basso. Mucchi di erbe secche, fresche, verdi o colorate, scendevano dalle travi di legno, legate a dello spago spesso. Alzai un braccio e sfiorai con le dita tutti i mucchietti, sentendo sotto i polpastrelli il tocco liscio e l'aroma intenso di ogni pianta.

Poi raggiunsi il tavolo da lavoro, gettai un rapido sguardo alla pergamena su cui avevo appuntato tutte le lozioni che dovevo ultimare e quelle che dovevo ancora creare. Mi ero portato appositamente avanti col lavoro, ben sapendo che mi sarei allontanato dal palazzo per chissà quanto tempo; anche col rischio di non tornare. E la mia diligenza nel lavoro non mi permetteva di lasciare tutto incompiuto: lessi di un unguento per le ferite, una compressa per la gola e una pozione d'amore. Chiaramente io non avevo nessun potere. 

Ma sapevo creare le composizioni giuste per una pozione. Infondere la magia dentro di esse non era di mia competenza. Ecco perché quando concludevo i miei lavori, i composti venivano assegnati al mago di corte, che infondeva i giusti incantesimi, creando delle pozioni complete. Il mago di corte.

Lavorava da circa due anni nel castello del re di Akra, più tempo di me. E i suoi appartamenti, come quelli di molti altri lavoratori del castello, si trovavano sul mio stesso piano. Anzi, erano proprio accanto ai miei. Nonostante questo, non lo avevo mai incontrato, in nessuna circostanza, in nessuna festività, in nessun banchetto. Mai.

I miei lavori venivano consegnati ad un servitore, che li avrebbe poi fatti recapitare al misterioso mago. Giravano strane leggende intorno a lui: alcuni della servitù dicevano che, diverse volte nei suoi cesti della biancheria sporca, ci avevano trovato vestiti sporchi di sangue. Non si sapeva nulla di lui, ma era escluso che fosse una donna. Non si conosceva il suo aspetto, non era mai uscito dalle sue stanze ed infatti parte pochi servitori personali, nessuno l'aveva mai visto. Il mago era un punto interrogativo.

Con un sospiro, gettai qualche seme di borragine in un mortaio ed iniziai a premere il pestello con forza, cercando di ricavarne un olio profumato. E mentre io lavoravo in silenzio, fuori dalla finestra sentivo la folla gridare, esultare, incitare i cavalieri a dare il loro meglio. Se fossi stato nelle spettacolari stanze per gli ospiti, di sicuro non avrei sentito tutto quel frastuono. Ma apprezzavo i miei appartamenti, perché seppur vecchi ed estremamente essenziali, racchiudevano tutta l'attrezzatura necessaria a consentirmi di mandare avanti al meglio il mio lavoro, permettendomi di condurre con tranquillità gli studi della botanica.

Dopo qualche minuto, presi una manciata di semi di lino, cercando di capire come creare una connessione con i semi di borragine. Mi raddrizzai gli occhiali sul naso, gesto istintivo che ripetevo spesso quando dovevo riflettere, e fui sul punto di giungere alla risposta. Ma all'improvviso, un rumore fragoroso mi fece sobbalzare. Mobili spostati, vetri infranti, tonfi sordi: tutto proveniva dalla stanza oltre il muro. All'inizio pensai di ignorare la faccenda ma, quando i rumori continuarono, decisi di catapultarmi fuori dai miei appartamenti per recarmi verso la fonte di quell'inaspettato fracasso: la stanza del mago.

Su una cosa, adesso, ero certo: sulla tranquillità mi sbagliavo.

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