L'ombrello rosso

By BreedGunes

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In una serata piovosa e tumultuosa, Cristina si trova a fare i conti con il potere delle parole e dei desider... More

L'ombrello rosso - il potere delle parole e dei desideri

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By BreedGunes

(di A. Giordano, alias Breed Gunes)

"ballerina danza su gamba fragile

orologio arresta il tempo che vola

soldatino rigido in attesa si inchina

lampadario di cristallo precipita

mare di schegge e scintillo di lacrime"

E sera e piove. Oltrepasso la soglia del negozio di calzature in cui lavoro, apro l'ombrello rosso, ed è come precipitare in un altro mondo. Dalla luce alle tenebre. Perché solo adesso mi rendo conto che è sera e buio per davvero. Prima l'avevo solo immaginata la sera, ora, invece, ci sono dentro. Mi osservo attorno, esitante. Alla ricerca di un frammento rassicurante di consuetudine capace di dissuadermi da una improvvisa angoscia che mi attanaglia. Forse è stato solo il rapido passaggio, dallo scintillio delle luci del negozio alla penombra della strada, a colpirmi di sorpresa e a farmi cambiare umore. Poiché non c'è ragione per cui debba sentirmi così. Guardo alle mie spalle: oltre la vetrina e il banco. Il mio collega non c'è. Sarà nel retro a mettere in ordine quei pacchi di scarpe giunti nel pomeriggio da Milano. Non importa, anzi, meglio così. Chissà cosa avrebbe mai fantasticato se m'avesse scoperta a seguirlo con gli occhi prima di allontanarmi. È un uomo attraente, ma non fa per me. Poi è già sposato e ha una figlia. Ed è troppo serio e innamorato della moglie per fare il farfallone con le altre.

Accantono i miei stupidi pensieri e mi avvio sul lungo marciapiedi. Gli altri negozi sono tutti chiusi a quest'ora, e la strada, pure a causa del maltempo, appare deserta. Passo accanto ad alcune serrande abbassate, ai lampioni e al pertugio di un piccolo portico, dove si è rifugiato un venditore ambulante. Rallento il passo, curiosa di osservarlo. È un uomo di colore, anziano. Di colore, ma in senso letterale: con un cappuccio verde, un giubbotto blu elettrico, pantaloni gialli e scarpe celesti. Ha la barba bianca, una sigaretta fra le labbra e sta seduto vicino alla sua bancarella, coperta con un telo per proteggerla dall'acqua. Mi chiedo cosa mai possa vendere: arcobaleni? Anche lui mi guarda, sorride bonario senza mostrare i denti e con le mani nelle tasche si stringe nel tepore del suo giubbotto. Lo supero. Un breve tratto di strada, svolto in una traversa e m'investe una luce, posta di traverso a mezz'aria, di un'insegna al neon. Raffigura il simbolo dell'infinito. Nel primo cerchio c'è scritto Roxy, nel secondo, Bar. Sorrido e mi allontano, canticchiando per poco il motivetto della canzone.

La pioggia inizia a battere più intensamente, invogliandomi a camminare veloce. Ecco! Lo vedo. Sta dall'altra parte della strada, sotto la pensilina dell'antro di un palazzo. Come di consueto, ogni giovedì sera. In effetti non si avvicina mai al negozio dove lavoro, e mai l'ho visto passare davanti alle vetrine, magari solo per fingere di occhieggiare qualcosa. Ma si mantiene sempre distante, appartato, silenzioso, come se si trovasse lì per caso. Aspetta sulla strada, dopo aver parcheggiato l'auto, sa, se non l'ho avvisato prima, che arriverò verso quest'ora. Fa un cenno con la mano, timoroso che non mi sia accorta di lui. Ora piove a dirotto. Così, tra le luci soffuse e il rumore del traffico, tutto scompare oltre la cortina di pioggia e il suo noioso picchiettio sul mio ombrello. E a quel punto mi pare sul serio di non vederlo più.

«Fammi un cenno! Dai! Fammi un cenno, non ti vedo!», dico, ma più tra me che verso di lui e con parole che mi escono dalle labbra come smozzicate fra i denti. Strizzo gli occhi, li riapro. Uno sguardo rapido alle macchine, prima a destra, a sinistra, e con uno slancio mi precipito dall'altra parte del marciapiedi. Intanto che attraverso la strada, un tacco della mia scarpa sfiora il limo fangoso sul bordo di una pozzanghera e quasi rischio di scivolare. Sono a pochi passi dal portone. Lui ha le mani nelle tasche, si volta un po' dall'altra parte col busto e sembra abbia fretta d'andarsene. Mi paralizzo. Resta fermo anche lui, poi gira la testa in avanti, mi guarda e io mi avvicino.

«Piove, stasera», dice, osservando alle mie spalle la pozzanghera dove poco fa sono passata.

«Sì, accidenti e pare non voler smettere! Non hai l'ombrello?», fa le spallucce. «Dove hai parcheggiato l'auto?»

«Più avanti.»

«Vieni sotto il mio ombrello», faccio sorridendo.

Si accosta, gli passo il manico dell'ombrello nelle mani e inforco il mio braccio sotto il suo.

«Bella serata questa!», fa lui.

Lo fisso con un punto di domanda stampato negli occhi: «Scherzi?» Replica con una risata. Vederlo ridere mi rende felice e ricambio con un sorriso.

«Stasera vado di fretta... e ho delle cose importanti da dirti», mi fa.

«Andiamo prima a prenderci un tè, ti va?», propongo.

«Ma solo cinque minuti.»

«C'è una caffetteria laggiù.»

«Bene.»

«Offro io però! Oggi è la mia serata.»

Entriamo nel locale, lui si sbarazza dell'ombrello in un vaso adiacente alla porta. Ordina e io gli indico un tavolo a due, vicino alla vetrata e sotto la dolcissima luce di un lampadario con frange di cristallo.

Arrivano i due tè. La cameriera appoggia goffamente il vassoio sul tavolo. Lui le fa un sorriso e lei si allontana. Sta per prepararselo, ma lo blocco con un segno, come per dire: "Aspetta! Lascia fare a me!" Si scusa parandosi il petto con le mani. Prendo il limone con una forchetta e lo metto sul fondo delle tazze. Rimuovo i filtri dalle bustine e li infilo nella teiera, facendoli danzare finché l'acqua calda si colora di rosso bruno, la sollevo e la porto sopra la sua tazza, riempiendola di liquido fumante.

«Pronto il tuo tè!»

Prima di versare il mio, indugio e guardo verso la vetrata. Adesso la pioggia viene giù sottile e lenta, e pare voglia smettere.

Io e Franco ci siamo conosciuti cinque anni fa a Capri. Io, diciassettenne timida e inesperta, ero in vacanza con i miei. Lui, uomo maturo e affascinante, con moglie e figlia al seguito, alloggiava all'Hotel Minerva; noi, invece, in una villa di amici di mio padre. Ci si incontrava di frequente, nella Piazzetta, nei Giardini di Augusto o durante le escursioni sull'isola. Perciò fu quasi spontaneo, in quell'atmosfera spensierata e vacanziera, il crearsi di una certa confidenza tra le nostre famiglie, con inviti reciproci: per un gelato, una cena, una pizza. E spesso io facevo da babysitter alla figlia, quando lui e la moglie erano occupati altrove. In alcune ore di quelle giornate, succedeva, quasi per caso, di rimanere insieme da soli. Con lui timido e sempre di una premura paterna verso di me. Poi, col tempo, il nostro modo di stare insieme e di conversare, da un iniziale approccio semplice e superficiale, si era evoluto, a dispetto delle diverse età, in qualcosa di più personale, intimo per certi versi. Fatto di brevi parole, inaspettate gentilezze, silenzi, imbarazzanti occhiate velate di allusioni. In particolare, ricordo quei momenti in cui il suo sguardo mi raggiungeva da lontano mentre, sulle ore d'un cielo infuocato di tramonto, nel mio bikini, quasi sempre bianco, sola ballavo sulla sabbia in riva al mare.

"Sei la mia delicata e preziosa ballerina d'un carillon di porcellana", mi sussurrò a un orecchio una sera, carezzandomi poi i capelli; e io arrossì fuggendo da lui.

Pensavo che quello fosse solo un dolce gioco tra noi. Ma in una notte di follia, ci siamo rifugiati a Marina Piccola e, tra l'ombre della notte, gli scogli, lo scintillio della luna riflesso sul mare e il brusio delle onde, abbiamo fatto l'amore: la mia prima volta. Da allora, in segreto, quella notte di passione estiva si è trasformata in una relazione clandestina che continua ancora oggi. Franco mi ha detto più volte che avremmo dovuto smettere, che il nostro rapporto non ha futuro, perché, nonostante l'amore tra lui e la moglie sia finito, è legato a lei da un forte senso di rispetto reciproco e non avrebbe mai il coraggio di lasciarla. Ma io ho insistito perché continuassimo.

Alza la tazza dal piattino e sorseggia il tè guardandomi apprensivo.

«Cosa hai?», gli chiedo, e i miei occhi di riflesso si fanno più turbati dei suoi.

«Cristina, che hai tu?», rimbecca lui.

Le nostre reciproche domande restano sospese in una bolla di silenzio. Capisco che vuole dirmi qualcosa e non ci riesce, poi appoggia i gomiti sul tavolino e raccoglie le mie mani tra le sue.

«Hai le mani fredde, perché?», mi dice.

«Già, è vero, ma non posso farci nulla. Pago i due tè? Poi andiamo fuori a cercare un posto migliore di questo?»

«No, non posso. Te l'ho detto pure prima che ho poco tempo. Mi piacerebbe... sul serio! Non te la prendere. È che le cose vanno così. Già è tardi per me. È tardi per entrambi, Cristina! La vedi quella macchina grigia fuori?»

«Sì, la vedo...»

«Sta lì ad attendermi. Ci trasferiamo in un'altra città io e la mia famiglia. Ma ho ancora il mio studio qui. Ti chiedo solo una pausa di qualche mese, per riflettere.»

«Quale città?»

«Lontano...», risponde soltanto e continua: «Ora devo andare. Però ti prometto che ci rivedremo ancora, ma voglio sia tu a chiamarmi. Io non potrò più. Giurami, lo farai?»

«Te lo giuro», gli rispondo d'istinto, anche se non capisco bene dove vuole andare a parare con quelle parole. Poi si alza, mi dà un bacio sulla guancia e rapidamente si avvia verso l'uscita. Continuo a seguire la sua immagine oltre i vetri del locale. Prima di attraversare la strada, fa un gesto a un'auto di rallentare, e sempre alla svelta entra nell'altra macchina, dal lato guidatore, ferma ad attenderlo.

Mi ha mollato di punto in bianco e sono rimasta interdetta. Appena riprendo lucidità, mi catapulto fuori anch'io. L'auto è già partita. Senza pensarci due volte, mi lancio in una folle corsa, nell'illusione di poterla raggiungere. Quando mi viene a mancare il respiro, mi fermo di colpo. Un'occhiata all'orologio: le lancette immobili. Che stupida! Sono sola a lato della carreggiata, china sul tronco, con le mani poggiate sulle ginocchia, non respiro più dall'affanno... e non so neppure che ora è! Era venuto per dirmi addio? Se n'è andato in quel modo per risparmiarmi lo strazio di un inutile commiato? Cinque anni della mia giovane vita buttati via per un amore che esisteva solo nella mia testa? No! Non può finire così! Sento che devo fare qualcosa. Una qualsiasi cosa. Devo prendere una decisione! Un fuoco ardente mi divora le viscere, una morsa di dolore mi stritola dentro e gli occhi mi bruciano di rabbia e di rancore. E tutto questo tormento, come un'onda, che non riesco a trattenere, mi trasale dal profondo, inspiro l'aria più che posso, e a pieni polmoni do sfogo, fiato e anima a un disumano urlo:

«Maledetto sia il giorno che ti ho incontrato! Che il diavolo ti porti!»

Dopo la mia invettiva, la sagoma della sua auto sta quasi per scomparire dalla mia vista. Ma, inaspettatamente, sbuca un pedone vestito come un arlecchino con un ombrello rosso che, incurante dello stop del semaforo, attraversa la strada, facendo sbandare la macchina di Franco, che a tutto gas va a schiantarsi contro il retro di un camion fermo della nettezza urbana. Subito un piccolo capannello si crea attorno al luogo dell'incidente. Piena di spavento, mi dirigo a passi rapidi per cercare di capire cosa sia successo.

Dal finestrino dell'auto, scorgo una faccia orribilmente schiacciata e sanguinante contro lo sterzo. Sul sedile affianco, una donna giace svenuta, e su quello posteriore, una ragazza pallida e immobile come un cadavere.

Il terrore mi paralizza e non riesco a distogliere lo sguardo da quella scena orripilante, finché una mano decisa di un agente delle forze dell'ordine mi afferra per un braccio, trascinandomi via.

Incredula, accanto a un uomo sconosciuto che avevo scambiato per un poliziotto o un vigile, e invece si rivela essere un giovane soldato, forse un bersagliere, come mi sembra di intuire dalla sua divisa e dal suo particolare cappuccio, fisso ancora la vettura dall'altra parte dell'isolato.

«Sembra sconvolta, che ha?», dice con disinvoltura il soldato, masticando con indifferenza un hot-dog. Un groppo in gola mi impedisce di rispondergli, e lui continua: «La vedo pallida, venga con me, signorina. Avrebbe bisogno di qualcosa di caldo per riprendersi. Magari di un tè, le va?» Mi gira la testa e ho difficoltà a stare in piedi. Lui mi fa un inchino, invitandomi a sorreggermi al suo braccio. «Si sarà spaventata per via dell'incidente. Ma sono cose che capitano, all'ordine del giorno!», esclama, pulendosi le labbra dal ketchup con un dito, poi mi guarda in faccia coi suoi occhi insinuosi e fa una specie di sorriso.

La mia attenzione subito dopo viene catturata da un ombrello rosso che lui porta con sé: identico al mio in ogni dettaglio. L'ha preso quando siamo usciti dal locale? Lo osservo disorientata mentre lui diventa sempre più vecchio. Ora ricordo, è il mendicante che ho visto quando sono uscita dal negozio. Sì, quello vestito come un pagliaccio. Ed è la stessa persona che ha fatto sbandare l'auto. Ma poi la sua voce e suoi lineamenti si mutano repentinamente in quelli di Franco.

Non riesco a raccapezzarmi. Che succede? È tutto così irreale. Sto solo sognando?

«Chi sei?», gli chiedo.

«Il destino», risponde secco.

«In che senso?», chiedo, sempre più frastornata.

«Sono quello che ti è venuto incontro quando hai maledetto Franco», dice, mentre la sua voce e la sua immagine si alterna con una celerità assurda a quella del mendicante, del soldatino e di Franco, per infine assumere le sembianze di un uomo a me del tutto ignoto. «Hai desiderato che il diavolo se lo portasse via, e quello che hai ottenuto è proprio quello che volevi.» Mi viene un brivido lungo la schiena. Non riesco a crederci.

«Ma sono rimasti feriti, vero?», sussurro con speranza.

«No, sono morti», risponde freddo e mi ripete e precisa scandendo la voce: «Lui e la sua famiglia sono morti nell'incidente. Tu hai desiderato la sua fine, e il destino ha deciso di assecondare il tuo desiderio. E in quanto alla moglie e alla figlia, danni collaterali.»

Le mie gambe cedono sotto il peso di quelle parole. Tutto questo è colpa mia? Ho realmente causato la morte di quelle persone?

«Pazzo! Vattene via!», gli dico disperata con un filo di voce.

«Non posso! Il destino mi ha portato da te, e adesso devo guidarti. Devi affrontarne le conseguenze, e questo è solo l'inizio.», mi risponde.

Mi guarda di nuovo. I suoi occhi mi catturano e non riesco a sfuggirgli. Solo un attimo dopo, il rombo di un tuono squarcia il cielo e ricomincia piovere forte. E l'uomo apre l'ombrello, che come i petali di un fiore vermiglio si schiude sopra di noi, proteggendoci dal diluvio che tutt'intorno addosso ci precipita.

N.d.A. "circostanziali e vere"

Nella notte, a poche ore di distanza, eventi inquietanti sconvolsero la città. La piccola ballerina del negozio di bomboniere, accanto a quello di Cristina, ruppe l'unica gamba che la sosteneva, ma continuò a danzare fra i frammenti di porcellana, come posseduta dalla musica. In una bella villa della stessa strada, la pendola della sala principale, che da anni scandiva il tempo con impeccabile precisione, si fermò all'improvviso. Le lancette congelate a mezzanotte. Un gatto nero che attraversava la strada, proprio sul lato della pozzanghera dove Cristina stava per scivolare, fu investito in pieno da un auto e rimase senza vita sull'asfalto bagnato. Io, sceso un attimo dal mio appartamento e per caso mi trovavo al Roxy Bar a comprare le sigarette, fui testimone di un frastuono assordante. Un lampadario era caduto dal soffitto sopra un tavolino vicino alla vetrina, fortunatamente vuoto. La commessa subito si affrettò a raccogliere i vetri con scopa e paletta, scusandosi con gli astanti: io, un vecchio barbone alcolizzato con un cappuccio verde e un soldatino seduto in un angolo appartato. L'unico, oltre a me, che si era drizzato in piedi, come se quel tonfo inatteso avesse annunciato un pericolo imminente. Mentre uscivo dal bar, una bomba d'acqua mi colse alla sprovvista. Non avendo l'ombrello, ne notai uno rosso in un vaso accanto alla porta. Lo presi senza pensarci molto. Aprendolo, accadde qualcosa di strano: dei fogli di carta ben ripiegati caddero a terra. Da animo curioso, li svolsi, credendo che potessero contenere soldi. Invece, trovai una storia scritta a mano. Questa storia che io, Antonio, di Nocera Inferiore e ozioso scrittore, ho cercato nel modo migliore di raccontarvi.

Non so se quello che ci ho trovato scritto in quei fogli sia vero, inventato, e poi come sia finita, visto che le ultime righe di quelle parole si erano sbiadite nell'acqua della pioggia e non erano leggibili. Ma una cosa è sicura e incontestabile: quella notte era successo sul serio qualcosa di terribile. Perché a una certa distanza, dal punto in cui mi trovavo io dopo essere uscito da quel bar, diverse autoambulanze, mezzi di soccorso stradale e due gazzelle dei Carabinieri erano ancora ai rilievi di un incidente. E la macchina coinvolta era grigia, proprio come quella descritta da Cristina nel suo racconto. Ho bruciato i fogli, ma l'ombrello è rimasto con me. Ho provato a regalarlo a diverse persone che mi stanno antipatiche, perché penso porti un po' jella, ma, o con una scusa o con un'altra, nessuno lo ha voluto. Sono persino andato nel negozio di scarpe dove lavorava Cristina per restituirglielo, inutile, mi hanno detto che si è licenziata e non hanno recapiti per rintracciarla.

Non mi restate che voi lettori. Quindi, se siete interessati a un ombrello rosso di ottima fattura: "Marca Pasotti, Linea U/D, motivo esterno UNITO ROSSO, Impugnatura PELLE TESTA DI MORO INTRECCIATA, finitura ACCIAIO", non esitate a scrivermi in privato. Ve lo regalo volentieri, pure se costa un botto, spese di spedizione incluse, ovvio!

Ma vi avverto: potrebbe portarvi jella o, per contrappasso, fortuna.


Grazie per aver letto il mio racconto!

Spero che ti sia piaciuto.

Se hai qualche commento o suggerimento, non esitare a scrivermi.

Sarebbe molto apprezzato.

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