Wicked Game

By _shadowhunters_96

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Quattro fratelli. Due coppie di gemelli. Quattro ladri e portatori di guai. Una piccola cittadina, al confin... More

Cast
00. Regole
Prologo
01. Sei una divinità
02. Sono allergico ai gatti
04. Sei il mio incubo
05. Sei completamente matta
06. Un fantastico partner in crime
07. Raven Parker è sempre stata un problema
08. Soltanto per cinque secondi
09. Guess who's back?
10. Sei nuda, Raven
11. Azriel cosa ne pensa?
12. Mi hai davvero scattato una foto?

03. Sfidarmi ti costerà caro

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By _shadowhunters_96

The All-American Rejects - Hope it gives you hell

01:18 ──────── -03:35

       Ⅱ      

VOLUME: ▂▃▅▆▇ 100%


Attraverso Madison Street con la divisa stretta sotto il braccio ed entro rapidamente in una caffetteria. Infilo la mano nella borsa e prendo il portafoglio. Poso una banconota sul bancone e attendo il mio caffè doppio da portare via. Visto quello che andrò a fare tra poco, mi sembra quasi ridicolo pagare come tutti gli altri esseri civili, ringraziare e andare via - non prima di aver augurato a tutti una buona giornata.

Mentre stringo il bicchiere caldo tra le mani, mi pare quasi di sentire la filippica di Azriel; riesco persino ad immaginare i movimenti impacciati delle sue mani mentre gesticola e cerca di spiegarmi perché non dovrei bere così tanto caffè durante la giornata.

Lo so che ha ragione, e il tremore alle mani ne è la conferma.

Il liquido caldo si riversa nella mia gola e mi lecco le labbra. È esattamente come piace a me: denso e cremoso, lievemente dolce con un retrogusto di mandorla. Perfetto.

Passo davanti ad un’edicola; una signora bionda litiga con un signore. Stringe il chihuahua al petto, poi afferra un giornale, lo arrotola e colpisce l’uomo sul braccio. Dunque, c’è chi si sveglia non solo con la luna storta ma anche con il sole e tutte le altre stelle.

Continuo a camminare a passo spedito, trangugiando la mia bevanda, adesso tiepida.

Conosco benissimo questa via e, oserei dire, anche la casa.

Caroline, la nonna di Elias, mi conosce bene. Be’, forse bene è un eufemismo, però mi ha visto crescere insieme a suo nipote, quindi più o meno credo si ricordi la mia faccia.

Questa donna mi batteva il cinque ad ogni scherzo ben riuscito. Credo che in fondo abbia sempre tifato per me.

Purtroppo, ho dovuto sopportare la faccia di Elias sia all’asilo e sia alle elementari. Poi, fortunatamente, le nostre strade si sono divise per diverse ragioni o per volere degli dei. Sono convinta che qualche divinità nel mondo si sia stancata di vederci battibeccare.

Ricordo perfettamente quel periodo buio, in cui bastava incrociare il suo sguardo per sentirmi sopraffatta da una rabbia accecante.

Il suo nome era una specie di maledizione per me. Una punizione divina. Un tormento perpetuo. Un’inesorabile agonia.

Quando gli insegnanti dovevano formare le coppie o i gruppetti per qualche dannato  progetto, il mio nome era sempre accanto a quello di Elias. Ogni. Maledetta. Volta.

Quando dovevamo fare qualche gioco durante l’ora di educazione fisica, lui era sempre il mio avversario e io il suo bersaglio.

Quando mi mettevano in punizione, lui condivideva l’angolino della vergogna insieme a me. Lo chiamavamo così, ma io non mi vergognavo affatto delle mie azioni avventate e nemmeno dei miei insulti, che ogni giorno diventavano sempre più fantasiosi e parecchio descrittivi. Verme bavoso, era uno tra questi.

Persino nell’angolino della vergogna finivamo per punzecchiarci e la nostra punizione diventava infinita.

A volte tornavo a casa con i capelli annodati, perché per colpa della disposizione pessima dei banchi, lui sedeva precisamente dietro di me e durante le lezioni si divertiva a darmi il tormento.

Altre volte, invece, mi lanciava aeroplanini di carta e buttava giù frasi sgrammaticate e senza senso sulle alette già stropicciate.

Una volta scrisse: Adoro i corvi. Sono così inquietanti. È vero che mangiano i resti dei cadaveri?

Poi su un altro aeroplanino di carta scrisse: Tu e il tuo gemello siete come La morte e la sua Falce. Inseparabili, brutti e inquietanti.

Per quel commento indesiderato si è beccato un pugno in faccia da parte di mio fratello.

Ma il mio preferito era l’aeroplanino azzurro che aveva lasciato nel mio porta merende: Ho notato che sorridi ogni volta che ti arriva uno dei miei aeroplanini. Smettila, sfigata.

In realtà sorridevo perché trovavo una quantità spropositata di errori e mi sentivo superiore a lui.

Ancora oggi mi chiedo come abbia fatto ad entrare alla Hawthorne Academy. Immagino abbia un po’ di sale in zucca, dopotutto.

Lancio il bicchiere di carta nel cestino, poi attraverso il selciato e sorrido quando vedo la vecchia altalena di Elias. L’eco del suo pianto mi solletica di nuovo le orecchie mentre le immagini sfilano davanti ai miei occhi, rapide e nitide, facendomi vedere un piccolo Elias che vola via dall’altalena grazie a me, si rompe il braccio e si sloga un caviglia. Che ricordi!

Be’, gli è andata comunque bene.

Mi fermo sul portico e suono il campanello.

Sento i passi strascicati di Caroline accompagnati da un lamento e sorrido a trentadue denti quando apre la porta.

«Salve, Caroline! Ho aderito al progetto di volontariato dell’associazione Regala un sorriso anche tu, quindi eccomi qui!», dico aprendo le braccia con eccessivo entusiasmo. Lei mi guarda e inizia lentamente ad assottigliare lo sguardo. Mi fissa come se fossi matta da legare.

«Oh! Bene, bene», dice spostandosi di lato per farmi entrare.

«Potrei usare due secondi il bagno? Dovrei indossare questa stupida divisa, ma non ho fatto in tempo a cambiarmi», le dico non appena chiude la porta alle nostre spalle.

«Perché mi parli come se mi conoscessi?», chiede e mi blocco.

Quando ero piccola mi diceva che la mia faccia era il connubio perfetto di luce e tenebre. Secondo lei avevo gli occhi troppo luminosi, ma lo sguardo cupo. Mi chiedo se lo pensi ancora.

«Sono Raven Parker. Io e suo nipote...», lascio la frase in sospeso, lei si gira verso di me. Nominare suo nipote è sempre il tasto giusto da toccare.

«Volpina?», chiede, gli occhi brillano come due stelle e il suo sorriso si allarga.

Dio, no. È lo stupido nomignolo che mi ha dato suo nipote. Avevamo otto anni. Ad Halloween mi ero travestita da volpe.

La volpe a nove code di Naruto, se vogliamo essere precisi.  A volte però il nomignolo oscillava tra “Hai lo sguardo da volpe” e “È per via di quella scuola, vero? Sei ossessionata”, dunque non credo c’entri soltanto il mio travestimento di Halloween. Per qualche scherzo del destino, l’emblema di quella scuola è caratterizzato da tre elementi: un corvo, una volpe e il nome. Mi chiamo Raven, dunque è bastato veramente poco per convincermi che quella scuola fosse destinata a me.

«Già, proprio io», dico con una risata imbarazzata.

«Elias morirebbe se ti vedesse adesso», continua a ridacchiare, gli occhi vivaci sono circondati da rughe che si intensificano a mano a mano che la sua risata diventa sempre più fragorosa, e mi avvolge in un abbraccio caldo e familiare.

«Sì, certo, per mano mia», lancio la battuta, sforzandomi di apparire divertita. In realtà è più probabile che sia lui a fare fuori me.

Elias non si limita a serbare rancore. No. Il suo è odio allo stato puro. Un odio che con gli anni non ha fatto altro che aumentare a dismisura. E la cosa terribile è che questa volta ha davvero un buon motivo per disprezzarmi.

Gli ho distrutto la macchina.

Un gioiellino nero splendente, un regalo da parte dei suoi. Aveva conseguito da poco la patente, e dopo soltanto due miseri giorni, mi sono assicurata che di quella macchina ne restasse soltanto lo scheletro.

Forse se la sua ragazza non si fosse comportata da idiota e avesse lanciato il suo milkshake in faccia a Peter, e forse se lui non avesse filmato tutto e l’avesse messo su Instagram pensando che non avrei fatto nulla a riguardo, non sarebbe successo niente di tutto ciò.

Ma le cose mi sono sfuggite leggermente di mano. La mia idea di vendetta si limitava a rompergli gli specchietti, far strisciare la chiave sulla carrozzeria della sua auto e godermi lo spettacolo. Non avevo molto tempo a disposizione e non volevo rischiare di essere beccata. Rico, un altro uomo disgustoso che a breve spero sparisca dalla mia vita, aveva affidato al suo uomo il compito di tenermi d’occhio e aiutarmi in caso di bisogno. Siccome loro sono molto bravi a commettere crimini del genere e farli sembrare degli inspiegabili incidenti, al suo uomo di fiducia era sembrato saggio fare esplodere la macchina e farla finita in fretta.

E be’, per qualche strano motivo Elias è convinto che sia stata io a fare tutto ciò.

I suoi non gli regalarono più un’altra auto fino al compimento del suo diciannovesimo compleanno. Per lui è stata un’enorme tragedia. O forse un trauma.

«Sei bellissima, ragazza mia! Dimmi un po’, cos’è successo in tutti questi anni? Tu e mio nipote siete diventati finalmente amici? È da tanto che non ti vedo», appoggia una mano sulla mia schiena mentre mi guida lungo il corridoio. Io e lui amici? Per carità!

«No, non so neanche che fine abbia fatto e, senza offesa, ma non mi importa molto. Vado a cambiarmi, così posso mettermi subito all’opera!», le dico e lei annuisce, cogliendo la mia supplica velata. Non ho voglia di parlare di me e di suo nipote.

Mi cambio e vado in cucina. Caroline indossa un grembiule e inizia a trafficare da una parte all’altra a passo incerto e lento.

«Cosa hai bisogno che faccia?», le domando con gentilezza.

«Ho delle commissioni da sbrigare, ma non riesco ad andare in giro come una volta. Due mesi fa sono caduta e il dolore al ginocchio e la mia pressione bassa mi impediscono di muovermi con facilità», indica una pila di bollette e una lista sul bancone. «E dovrei fare la spesa. Ce la fai da sola? Sei a piedi? Sai guidare? Posso prestarti la mia macchina. Ormai non la uso da secoli. Di solito la prendeva Elias.»

Ti prego, non nominarlo più.

«No, va bene così. Ce la farò. Tornerò presto», le dico e mentre esco dalla cucina do un’occhiata veloce agli oggetti in giro, cercando di adocchiare qualcosa di piccolo ma valoroso.

Niente sensi di colpa, mi ripeto. Sta bene economicamente, neanche noterà la mancanza di qualche minuscolo oggetto. Magari un anello o un bracciale.

Ho due ore a disposizione. Non ho intenzione di fare sconti alla nonnina di Elias, per quanto io la adori. Ho bisogno di soldi. E neanche un maledetto lavoro normale riuscirebbe a saldare il debito di mia madre. Quella maledetta stronza ha lasciato papà nella merda e papà ha lasciato nella merda noi.

Devo pensare ai miei fratelli. Non posso concedermi di avere paura o di provare pena.

Mi dispiace, Caroline, ma la vita non è stata gentile con me.



Ho già svolto tutte le commissioni e ho due borse in tela stracolme che pendono dalle braccia e un sacchetto di carta che stringo al petto. Credo si sia bloccata persino la circolazione del sangue. Non mi sento più gli arti.

Caroline per poco non sbianca in viso quando mi vede arrivare. Metto la roba sul bancone e guardo i segni arrossati sulla mia pelle. Sono sudata, questa salopette mi sta stretta sul sedere e ad ogni mio dannato passo il materiale si conficca sempre di più tra le chiappe. Eppure, credo di aver fornito la taglia giusta a Gwen.

«Scappo un attimo in bagno», le dico. «Hai bisogno di me?», le chiedo con il mio solito sorriso gentile.

«No, cara, vai pure. Sembri sfinita. Oh cielo, come mi sento in colpa!», si prende il viso tra le mani, ma io procedo a tranquillizzarla: «Non dire assurdità, Caroline! L’ho fatto con piacere!», le do una pacca sulla schiena e poi filo al piano di sopra.

Lancio un’occhiata furtiva verso le scale e poi mi avvicino alla sua stanza e apro piano la porta.

Caroline è uguale a tanti altri anziani che ho visitato; le collane le lascia in bella vista, nel portagioie che tiene sul cassettone. Ecco perché rubare in casa dei vecchietti è semplice.

Apro il portagioie e afferro un paio di orecchini d’oro, quelli che mi sembrano più pesanti e valorosi. Li infilo nel reggiseno sportivo, chiudo la porta e mi sposto verso il bagno.
Mi tampono le guance con un po’ d’acqua fresca e mi godo il mio minuto di silenzio. Mi guardo allo specchio e per una frazione di secondo mi sento una sporca ladruncola.

I sensi di colpa riaffiorano di nuovo. Mi aggrappo al lavandino e cerco di scacciarli via. Non posso fare finta di niente, Caroline è sempre stata gentile con me.

«Avanti, non c’è spazio per emozioni simili nella tua vita», mormoro guardando il mio riflesso un’ultima volta.

Esco dal bagno e scendo rapidamente le scale, Caroline mi aspetta con un sorriso dolce e una fetta di torta al cocco e nutella tra le mani. È la torta che preparava ogni volta che io e Elias dovevamo svolgere qualche compito insieme. Sua madre era troppo impegnata per badare a suo figlio e io mi rifiutavo di portarlo a casa mia, dunque la maggior parte delle volte ci incontravamo qui.

Io prendevo sempre la fetta più grande e a lui lasciavo quella più piccola.

Guardo le fette cercando di individuare quella più spessa, ma una voce roca e mascolina mi riempie le orecchie: «Certe cose non cambiano mai.»

Caroline mi sorride furba e mi guarda con una strana espressione. È stata lei.

Non ho il coraggio di guardarlo. Mi sento tra l’incudine e il martello. Da una parte Caroline mi incita a girarmi verso di lui e dall’altra parte so che Elias non mi farà andare via senza avermi prima minacciata di morte. Prevedibile.

Faccio un bel respiro e mi giro verso di lui. È appoggiato allo stipite della porta che dà sulla veranda e fa un sorrisetto sghembo non appena i nostri sguardi si incrociano.

Solleva il piatto che ha in mano e dice: «La fetta più grande ce l’ho io, questa volta.»

Nella sua voce sento quella nota familiare di derisione.

Dio, sembra siano passati secoli dall’ultima volta che ci siamo visti.

Aveva un ridicolo taglio di capelli simile a quello di Justin Bieber ai tempi di Baby e lo prendevo in giro anche per questo. Indossava magliette più grandi di almeno due taglie per nascondere la sua magrezza e i pantaloni gli calavano sul sedere perché probabilmente le cinture gli facevano schifo. Aveva perennemente un’aria da sfigato. Agli occhi degli altri lui era un figo, ai miei occhi sembrava semplicemente un povero idiota. Ma alla sua ragazza piaceva così.

Adesso le cose sono due: o ha cambiato ragazza o ha cambiato gusto in fatto di vestiti, perché adesso è ridicolmente attraente. Indossa una maglietta bianca larga e sopra un gilet lavorato a maglia nero. Un paio di pantaloni neri larghi e un paio di anfibi ai piedi. Chissà, magari alla Hawthorne Academy insegnano anche come vestirsi con stile.

«Puoi tenerti la fetta più grande, io ho tutta la torta», rispondo cercando di schiodare gli occhi dalla sua faccia arrogante, ma ha un non so che di magnetico che mi costringe a fissarlo come una maniaca.

Lui fa un sorrisetto forzato. So che vorrebbe dare di matto, ma sua nonna ha sempre fatto da arbitro tra di noi.

Si passa la mano tra i capelli castano scuro e con mia sorpresa ammiro il suo nuovo taglio di capelli: più corti sulla nuca e ciocche più lunghe ai lati della testa.

No. Non sembra più Justin Bieber.

I suoi occhi marroni non sono più vispi, ma sono freddi e taglienti. China di poco la testa e mi fissa a sua volta, affilando lo sguardo.

Sfrega il pollice sulla guancia incavata e percorro con gli occhi la linea decisa della sua mascella.

«Che ingorda», commenta.

All'improvviso mi sento ridicola conciata in questo modo e so che lo pensa anche lui. Lo capisco dal modo in cui le sue labbra carnose si increspano ogni volta che il suo sguardo scivola sul mio corpo.

«E tu sei il solito coglione», mi lascio sfuggire a voce alta e Caroline si schiarisce la gola dietro di me.

«Bambini», ci rimprovera.

Alzo gli occhi al cielo e poi afferro una fetta di torta, dando le spalle ad Elias.

«Grazie, Caroline. Sei un tesoro, come sempre», le dico.

«Cara, mi potresti prendere lo zucchero a velo?», mi chiede aprendo uno degli sportelli. «Lassù.»

«Certo», rispondo e mi sollevo sulle punte allungando il braccio verso l’alto, ma non ci arrivo. Alzo una gamba per appoggiarla sul bancone e provo a darmi una spinta all’insù. Quando sto per afferrare la bustina azzurra, un braccio più lungo scivola accanto alla mia testa.

«Una volta mi prendevi in giro per la mia altezza, ricordi?», sussurra al mio orecchio. «Io ricordo tutto. Tutto, Raven.»

Rabbrividisco. So a cosa si riferisce.

«Tieni, nonna», le passa lo zucchero, ma Caroline lancia la bustina sul bancone con fare scocciato. Anzi, sta guardando suo nipote come se volesse rimproverarlo.

«Io ora dovrei andare», la informo.

«Aiutala a scendere», ordina sua nonna.

«Se mi tocchi ti faccio fuori», sibilo lanciandogli uno sguardo omicida.

Salto giù dal bancone e vado a prendere la mia borsa.

«Su, Elias, accompagnala alla porta.»

«Conosco la strada», dico con un sorriso.

Elias però esegue l’ordine. Cammina disinvolto dietro di me e io aumento il passo.

Apro la porta, ma Elias infila il dito sotto la spallina della salopette, fermandomi bruscamente. Per poco non vado a sbattere contro il suo petto.

«Non pensare che io mi sia dimenticato di quello che hai fatto, Raven. “Se intralci un’altra volta il mio cammino, ti rovinerò”»,  cita le sue stesse parole pronunciate qualche anno fa. «E tu hai addirittura la faccia tosta di presentarti qui?»

«Speravo di incontrarti». Bugia. Bugia. Bugia.

«Ah, ma davvero?», fa un passo verso di me e io indietreggio. «Ti sei nascosta per tutti questi anni assicurandoti di non incontrarmi neanche per sbaglio e adesso eccoti qui», incrocia le braccia al petto e mi guarda dall’alto come se fossi un misero scarafaggio. «Quanto mi divertirò, Raven», scuote il capo con aria quasi sognante.

«Dillo. Dillo e giuro che ti ricorderò con chi cazzo hai a che fare», gli dico con un ghigno.

«Ti rovinerò. Lo farò lentamente e mi gusterò ogni secondo», si china verso di me e alzo automaticamente il braccio per impedirgli di avvicinarsi ulteriormente.

«Sfidarmi ti costerà caro, Elias.»

«Fammi vedere fin dove sei disposta a spingerti», risponde e mi acciglio. «Credi che sarai in grado di sfuggirmi anche questa volta, volpina?», ride divertito. Il palmo della mia mano adesso preme sul suo petto.

«Credo di essere in grado di fare tante cose.»

«Ah, sì?»

«Sono riuscita a farti venire qui di corsa, quindi sì, credo di essere perfino capace di metterti Dio contro.»

«Non vedo l’ora di vederti strisciare», dice in tono cantilenante. Abbassa lo sguardo sulla mia mano. Lo sto ancora toccando.

«Dimmi, Elias, quando fallirai miseramente, correrai dalla mammina?», ribatto, stringendo il pugno lungo il fianco. Tra poco lo scaglierò sulla sua bocca.

Mi abbassa il braccio e fa finta di pulirsi il gilet con una mano, nell’esatto punto in cui l’ho toccato poco fa. Che spocchioso.

«Lo farai anche tu?», sogghigna. Sa che mia madre se n’è andata. «Oppure correrai dal papino? Oh, forse lo troverai in qualche vicolo. Ha iniziato a bucarsi?»

Premo le labbra una contro l’altra e conto fino a dieci.

Pazienza, oggi non sono in vena di seguire i consigli degli psicologi.

Sollevo il pugno per colpirlo, ma lui mi blocca il polso.

«Bel tentativo», arriccia le labbra in una smorfia. «Ci tengo alla mia faccia, Raven.»

«Sei un bastardo», mi libero dalla sua presa e gli do una spinta violenta.

«E tu sei una dannata criminale, ma eccoti ancora qui, libera di girare indisturbata e combinare chissà quanti altri casini», spalanca le braccia. «Adesso fai volontariato? Cerchi per caso di redimerti?»

Ho rubato in casa di tua nonna, coglione.

«Attento, Elias. Un criminale a volte lo è per sempre», ghigno e lui assottiglia lo sguardo.

«Ti sbatterò in carcere, un giorno.»

«Non vedo l’ora di vederti provare», rispondo, sollevando il mento in segno di sfida.

«Dico davvero. Voglio vederti sguazzare nella merda», pronuncia alle mie spalle mentre mi allontano.

«Mettiti in fila», rispondo a bassa a voce, alzando il dito medio.

Primo incontro: andato benissimo ✓  i prossimi andranno ancora meglio😏🤭
Se vi è piaciuto, lasciatemi una stellina⭐ ci vediamo al prossimo aggiornamento!

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