The Art of Happiness

___gaimaninthetardis tarafından

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Léo, studentessa di storia dell'arte alla Sorbona, sembra avere una vita perfetta. Tanti amici, feste e bei v... Daha Fazla

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Epilogo.

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___gaimaninthetardis tarafından

«Manuel», esalai lasciandomi cadere sul divanetto che c'era nel magazzino. Un divanetto vecchissimo, polveroso e senza più le molle, che i miei colleghi avevano potuto tenere solo perché non c'era una saletta per le pause. «Giuro che se Sophie mi fa di nuovo fare il turno nel reparto lavatrici mi sparo in fronte».

Lui tirò una boccata al drum – ma lo sapevamo tutti, che c'era qualcos'altro oltre il tabacco lì dentro – e si grattò la fronte. «Io sono stato tutta la mattina a scaricare televisori dal camion», biascicò. «Lamentati ancora e sarò io, a spararti in fronte».

Mi accesi una sigaretta. In realtà non sarebbe stato permesso fumare, nel magazzino, ed il cartello che ce lo impediva era appeso al muro proprio sopra la nostra testa, ma non c'era nessuno. E poi avevamo i nostri metodi: Manuel si era organizzato per fumare la sua roba in benedetta pace, raggiungere quel divano senza far rumore era praticamente impossibile vista la quantità di oggetti che lasciava sul pavimento "casualmente". Se qualcuno dei nostri superiori si fosse avvicinato lo avremmo sentito con largo anticipo.

C'era anche una ragazza che fumava con noi ogni tanto, ma capitava solamente se Sophie la strigliava troppo. Allora veniva a piagnucolare sul divano e di solito per consolarsi si attaccava ad una delle mie Marlboro e ci provava con Manuel. Si chiamava Bette, o almeno questo diceva il suo cartellino, ma non credo fosse il suo nome vero.

Il fatto è che quel posto era talmente grande che era dura conoscersi tutti, Manuel era lì da tre anni e ancora non sapeva chi fossero certi membri del personale.

Comunque Bette non c'era.

«Per carità, non farei a cambio», concessi. «Mi avessero almeno messa nel reparto musica. Mi piace stare lì, di solito quelli che ci vanno si atteggiano ad esperti e rifiutano qualsiasi consiglio da parte mia, così sto tranquilla».

Ridacchiando, Manuel scivolò di più contro lo schienale. «Il mese scorso mi hanno messo nei forni elettrici», raccontò. «Non sai quante casalinghe incazzate. Una di loro ha perfino cercato di rimettermi a posto i pantaloni».

«Non avrebbe avuto tutti i torti, se fossi Jacques mi schiferei a vederti vestito così, sembri uno scappato di casa».

«Sono un felicissimo scappato di casa».

Mi passai la mano sul viso, ripromettendomi che più tardi avrei dato uno sguardo al suo armadio. Manuel viveva con noi, dopotutto, e non sarebbe stato difficile approfittare dei momenti in cui lui e Jacques facevano sesso per entrare in camera sua e buttare via qualcosa di quel disastro.

«A proposito di casa», si illuminò dopo qualche momento, «sei proprio sicura che Cerbiattino non voglia rimanere con noi?».

Scossi il capo. Marie alla fine aveva battuto la suocera al gioco delle coppie e Jeannot aveva piantato casa sua per finire in un brutto appartamento con la sua principessa. Se non è amore questo io proprio non so cosa possa esserlo. Il fatto è che sembrava che a loro due le cose sarebbero andate sempre bene, erano così felici da farmi tornare un po' di fiducia nell'umanità.

«Ha già impacchettato le sue cose, lei e Jeannot vanno a stare per conto loro. Consolati», aggiunsi, «stanno solo nell'appartamento di fronte».

«Possono anche stare a Città del Capo, fatto sta che adesso aumenterà l'affitto, se lei se ne va».

Premetti il mozzicone sul pavimento di cemento e lo spinsi sotto al divano per nasconderlo, lì sotto ci sarebbe stato un sacco di lavoro per uno speleologo. «Qualcosa ci inventeremo».

«Per forza, o ci buttano fuori», ridacchiò Manuel. «Al bastardo non piacciono i froci, lo dice ogni volta che mi vede».

Il nostro padrone di casa, Pierre Soulac du Champ, era un po' di vedute ristrette, così ristrette che un paraocchi per cavalli ha una vista migliore. Non gli piacevano i gay, non gli piacevano gli immigrati, non gli piaceva che una donna come me fumasse e nemmeno che abitassi con due uomini, anche se omosessuali. Da questo punto di vista non vedevo l'ora di abbandonare la nave come aveva fatto Marie.

Mi passai la mano sulla fronte, perché non ci credevo davvero che avremmo trovato una soluzione, e rimasi sorpresa nell'avvertire l'assenza della frangia. Ormai erano mesi che non andavo più a tagliarmi i capelli, l'ultima volta era stato ad Urbino, in luglio, insieme a mia madre, il giorno prima che tornassi a Parigi. Dio, quanto aveva pianto.

Non aveva mai realmente creduto che sarei tornata in Francia, dentro di sé credo fosse convinta del fatto che, una volta laureata, sarei tornata a casa. Ma non volevo rimanere a casa, la mia vita ormai era a Parigi o in qualsiasi altro posto, ma non ad Urbino, non più. A Parigi avevo i miei amici, a Parigi avevo la mia ispirazione e sempre a Parigi avevo i miei sogni. E un rimpianto, solo uno, e basta.

Comunque la mia frangia era diventata troppo lunga e avevo iniziato a dividerla a metà, poi a tirarmela indietro e infine a vederla come normalissimi capelli castani sulle mie spalle.

C'era stato un momento, quando i soldi erano sembrati davvero troppo pochi, verso la fine di ottobre, in cui avevo cercato di smettere di fumare. Il risultato era stato l'esatto opposto, ero così nervosa che avevo rincarato la dose.

Avevamo trovato il nostro modo di fare economia: la colazione la facevamo da Marie, che aveva iniziato a lavorare in un bar e ci passava sottobanco un caffè e una brioche alla mattina. Jacques studiava ancora e la sua parte la pagavano i suoi, per fortuna, mentre Manuel aveva uno stipendio che per esperienza personale posso dire che faceva un po' schifo; io contribuivo con la mia mensilità, la mia energia e la mia spiccata benevolenza verso il prossimo. Chissà perché, ma quando dico così nessuno mi crede.

«Ho in mente un nuovo quadro», annunciai sovrappensiero.

Manuel aveva smesso di ascoltarmi mentre pensavo alla mia frangia. «Eh? Che dici, Sandwich?».

Aveva smesso di chiamarmi "Frangetta", proprio perché non l'avevo più, e per qualche tempo era entrato in una fase di crisi profonda perché non sapeva più come apostrofarmi, durante una nottata particolarmente fumata aveva anche detto che avevo perduto la mia identità e che ero diventata uno di quei robot senza personalità. Poi, un giorno, mi aveva vista addentare un panino con mortadella e squacquerone. Non avete la minima idea di quanto sia difficile trovare dello squacquerone in Francia – anzi, trovarlo ovunque tranne che in Romagna e nelle Marche – e quando lo avevo visto in un supermercato ero andata fuori di testa.

A Manuel era piaciuto il modo in cui avevo mangiato il mio sandwich, come se stessi sgrufolando un profitterol. Ecco perché da qualche mese ero "Sandwich". Delle due preferivo Frangetta.

«Dico che ho in mente un soggetto per un quadro nuovo», ripetei.

«Fico!», esclamò con un bel sorriso. «Contenta?».

Sollevai le spalle. «Beh, sì, direi proprio di sì».

«Se tu sei felice, io sono felice».

Avevo stretto una bella amicizia con Manuel. Non lavoravamo quasi mai nello stesso reparto, era capitato una volta sola ed avevamo rischiato il licenziamento perché avevamo riso e scherzato tutto il tempo, però avevamo legato moltissimo. Jacques non lo avrebbe mai ammesso, ma si vedeva che era contento. Credo che nel suo intimo avesse nutrito il timore che il suo ragazzo non ci piacesse.

Mi accoccolai contro di lui, sbuffando. «Ho mal di testa. Non ci torno là dentro, ok? Proprio non ci torno».

Lui annuì, facendo ondeggiare i suoi dread. «Brava, bello questo tuo modo di fare, fuck the system, sorella».

«Vorrei fosse così facile, fratello», risposi ridacchiando e chiudendo gli occhi. Il respiro regolare della pancia di Manuel sotto la mia testa, il suo oscillare su e giù, era un toccasana per il mio cervello fuori controllo. Mi piace dire, quando ho mal di testa, che è la troppa intelligenza che preme contro la scatola cranica. Comunque l'odore dell'erba e l'attività respiratoria del mio materasso umano costrinsero la mia mente ad annebbiarsi e ad assopirsi, fino all'oblio di un sonno senza sogni.

Venni svegliata dalla mano di Manuel che mi scrollava la spalla, non so quanto tempo dopo. Ero da sola sul divano e a giudicare dall'indolenzimento delle mie membra dovevo essere rimasta su quel giaciglio sgangherato anche troppo.

«Alza le chiappe, Gentilini, stiamo chiudendo», sentii dire da qualcuno alle spalle di Manuel. Strizzai gli occhi per mettere a fuoco il bel sorriso di Bette, che tuttavia non guardava me, ma il culetto gay del mio amico.

«Cazzo», mormorai. «Chi ha coperto il mio turno?».

«Io», trillò lei.

Praticamente le balzai in braccio per la riconoscenza. «Mi hai salvato la vita, io ti amo e ti sposerò», le promisi.

Lei rise. «Spero di no, le tue tette sono troppo piccole».

***

Per non peccare di ingratitudine invitai Bette a casa nostra, quella sera. Avevamo organizzato una serata tranquilla con Marie e Jeannot. In parte ammetto che le chiesi di venire per egoismo: non volevo reggere la candela alle due coppiette in totale solitudine. In parte lo feci perché non mi ero mai data pena per conoscerla meglio e lei mi aveva comunque coperta con Sophie. Mi sentivo in debito.

Due parole su Bette: era più grande di tutti noi, doveva avere almeno trentacinque anni ed aveva alle spalle una serie di brutte esperienze. Era stata bulimica, da adolescente, mentre ora era così in sovrappeso da rasentare l'obesità. Ecco ciò che sapevo su di lei. Due parole, come promesso.

Forse fu per questo, perché su di lei sapevo così poco, che rimasi più che sorpresa quando vidi la sua espressione.

«Davvero posso venire?», mi domandò incredula. «Insomma, mi volete sul serio?».

Sorrisi mentre mi infilavo il cappotto sopra la divisa. «Beh, quella è anche casa mia e posso invitare chi mi pare».

Lo sguardo che mi lanciò, Dio mio, non lo dimenticherò mai. Per un momento temetti che si sarebbe messa a piangere. Mi fissò con quei suoi occhioni bruni, entusiasti sul volto paffuto, e con un sorriso indescrivibile, lo stesso sorriso che avrebbe un bambino dopo che gli viene finalmente regalato ciò che ha chiesto a Natale. Avrei dovuto essere felice, invece mi fece impressione.

Da quanto tempo Bette non usciva con qualcuno? Una vita, a quanto pareva. Scambiai uno sguardo con Manuel, che nonostante quello che si potrebbe pensare non era mai così fumato da non capire quando c'era bisogno di aiuto.

Bette non smise di parlare nemmeno per un secondo, in metro, così eccitata da blaterare in continuazione. Non facevamo in tempo ad aprire la bocca per rispondere che lei attaccava di nuovo. Non era mai stata così, al lavoro era una persona mediamente ciarliera, per quanto poco la conoscessimo.

«Hey, Bette», le dissi mentre ci pressavamo come sardine nell'ascensore. Abitavamo al sesto piano, non sarebbe mai stata in grado di arrivare in cima a piedi. Non lo dico per cattiveria, ma perché è la verità, lei stessa lo ammise fissando la tromba dei gradini con sgomento. «Ne approfitto ora che Manuel ha preso le scale».

Lei annuì, l'entusiasmo che schizzava da tutti i pori. «Cosa c'è?».

«In casa con noi c'è un ragazzo, Jacques», le spiegai. «È il mio migliore amico, è lui che mi ha presentato Manuel».

«Ok», fece lei.

«No, intendo dire... Jacques...».

«...è gay?», domandò. «Lo so, Manuel me lo ha detto».

Non ero sicura se facesse orecchie da mercante o se la felicità le avesse otturato gli ingranaggi della psiche. «Bette, loro due stanno insieme», dissi decisa – non aveva senso fare dei giri di parole. «Volevo dirtelo perché so che lui ti interessa».

«Oh, grazie», rispose con un sorriso. «Ma non fa niente, lo capisco».

Esitai, fissandola. Era molto più alta di me e, con il collo piegato a guardarla, mi parve ancora più strana. «Sei sicura?», domandai. «Hai incassato il colpo singolarmente bene».

«Certo, perché no? Se è impegnato, buon per lui, ora smetterò di provarci».

L'ascensore, che in realtà era un vecchio montacarichi di quelli bruttissimi montati negli anni '60 o giù di lì, si arrestò sobbalzando. «O hai un modo di vedere la vita molto zen», commentai cercando di uscire, «oppure sei una specie di killer che dopo questa scoperta li ammazzerà entrambi. Quale delle due?».

Riuscii ad emergere e tirai un sospiro di sollievo. Lei scese dall'ascensore fresca come una rosa. «Nessuna delle due, sono solo realista. Lo capisco da sola quando non c'è storia e non sono stupida, non serve impazzire per un uomo che è già impegnato o non ti vuole».

Con un fischio di ammirazione le strinsi la mano. «Complimenti, Bette del reparto assistenza computer, sono ammirata».

Notai che le porte di entrambi gli appartamenti erano spalancate. Capitava spesso, da quando Marie e Jeannot erano diventati i nostri dirimpettai, che a furia di passare da una casa all'altra ci ritrovassimo a fare serata in corridoio.

Intercettai Jeannot che usciva da casa sua con una teglia di sformato di patate. «Senti, perché anche se abitate per conto vostro continuate ad usare il nostro forno?», domandai.

«Perché il nostro forno... Ah, già, perché non abbiamo un forno», sibilò lui. «Mi piaceva di più quando Marie stava da voi ed io vivevo con i miei, almeno funzionava tutto».

Preferii ignorarlo, perché quando partiva a lamentarsi della casa non finiva più di parlare. «Lei è Bette», dissi indicando la mia collega. «Lavora con me e Manuel».

«Ciao!», esclamò lei.

«Jeannot, piacere. Ti stringerei la mano, ma se non inforno questa roba subito rotoleranno delle teste».

Come a voler confermare, dal loro appartamento emerse la voce di Marie. «Amore, dove hai messo le mie pillole?».

Jeannot svicolò prima di dover rispondere, così feci cenno a Bette di seguirmi in casa loro. Trovammo Marie intenta a rovistare in tutti i pensili della cucina, il suo broncio trasformato in un'espressione di puro orrore. «Léo! Sei qui, meno male, l'ho persa!».

«Hai perso cosa?».

«La scatola delle pillole, devo prendere quella di oggi e se non lo faccio subito sarà un disastro».

Marie era rimasta così impressionata, quando aveva creduto di essere incinta, che da quel momento lei e Jeannot usavano il preservativo, la pillola e la spirale. Tutto insieme. A volte mi domandavo se sentissero qualcosa mentre lo facevano, con tutta quella roba.

«Eccola!», strillò con una vocetta stridula e felice. «L'ho trovata! Oh, merdaccia, sarei sicuramente rimasta incinta».

«Non credo», commentai con onestà. «Ti presento Bette, una collega. Bette, giuro che di solito Marie è a posto con la testa».

Non so cosa abbia divertito di più Bette, se cenare con noi, giocare a Cluedo o aver conosciuto nuove persone. Il fatto è che non avevo mai visto una persona così felice.

Non era quel genere di gioia che si prova con il proprio partner o quella che si sente quando ci si sdraia nel letto dopo una lunga giornata di lavoro. Non era nemmeno data dalla serata in sé, ne avevamo organizzate di molto più divertenti di quella. Era qualcos'altro. Era come se Bette stesse nutrendosi delle nostre risate, come se volesse prenderle e dar loro una forma corporea e tangibile per conservarle. Sembrava voler intrappolare in una bolla di vetro l'intero appartamento, così com'era, in disordine e pieno di gente, perché non cambiasse mai.

Mi sentii prendere dall'angoscia. Che razza di momentaccio stava passando quella donna per sentirsi così? Cosa si prova, arrivate oltre i trenta e senza uno straccio di calore umano, cosa si prova nel tornare in una casa vuota – perché immaginavo lo fosse, visto che non aveva avvisato nessuno per dire che avrebbe cenato fuori – dopo un turno di otto ore in un posto di merda come il Gitem Euronics?

Non stavo saltando a conclusioni affrettate, lo vedevo dalla sua faccia. Bette era disperatamente sola, Bette era un cartellino con un nome sopra in un negozio di elettronica. Nessuno si sarebbe ricordato di lei se le fosse capitato qualcosa e questo doveva saperlo benissimo, doveva sentirlo, perché non c'era altro modo per spiegare la sua gioia esagerata.

Okumaya devam et

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