Rêverie di Mezzanotte - 𝘽𝙇�...

By blackhairblackdress

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(Questa storia contiene scene, temi e un linguaggio per un pubblico di adulti. Leggere a discrezione) ❝Sei l... More

Chapter 0 : Il fuoco di Prometeo.
Chapter 1: Il canto solitario dei Selkies
Chapter 2: Il romanticismo di Lord Byron
Chapter 3: La vendetta di Seth
Chapter 4: L'angelo caduto di Cabanel
Chapter 5: I Lego
Chapter 6: Imperativo categorico
Chapter 8: Le feste di Gatsby (Parte I)
Chapter 9: Le feste di Gatsby (Parte II)
Chapter 10: Il principe di mamma
Chapter 11: I Tre Moschettieri
Chapter 12: Icaro e il sole
Chapter 13: Il linguaggio delle rose
Chapter 14: Re e Regina di cuori
Chapter 15: Basium, osculum, savium
Chapter 16: I sussurri di Eros
Chapter 17: Il lupo gentiluomo e il coniglietto testardo
Chapter 18: L'uomo è un lupo per l'uomo
Chapter 19: La Nefertiti di Theodore Lancaster
Chapter 20 Extra: Porthos & Athos
Chapter 21: La spilla
Chapter 22: Ninna nanna per bambini tristi
Chapter 23: I fiocchetti di Adele.
Chapter 24: Le affinità con l'ariete
Chapter 25: Metodi per essere incendiato.
Chapter 26: La mia Nefertiti
Chapter 27: Fatto soltanto di spine
Chapter 28: L'Être et le Néant
Chapter 29: La maledizione delle due rose
Chapter 30: I riccioli degli Spencer
Chapter 31: Venti minuti alla mezzanotte
Chapter 32: La caccia
Chapter 33: La stanza di Sobek

Chapter 7: La costellazione del Capricorno (Extra)

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By blackhairblackdress

[La Llorona di Chavela Vargas nei media]

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Chapter 7: La costellazione del capricorno

Russell.

Vorrei parlarvi del cielo.

L'anima, come una stella, trova la sua luce più fulgente quando è guidata da un padrone. È un legame che fornisce direzione e scopo, permettendo all'essenza di brillare nel buio dell'esistenza. Senza questa guida, l'anima rischia di perdersi nello spazio infinito, senza un destino definito.

Guardiamo alle stelle nel cielo notturno, ognuna di esse segue una traiettoria precisa, danzando nel firmamento come ballerini celesti. Ma dietro a quel magnifico spettacolo c'è un ordine, una regia invisibile che coordina ogni movimento. Così anche l'anima, quando trova il suo padrone, trova una direzione e un senso nel suo viaggio attraverso l'esistenza, senza quel controllo, l'anima finisce per vagare nello spazio senza meta, come una foglia nell'acqua, alla mercé della corrente. Immaginate di osservare una stella che attraversa le fasi della sua esistenza, cresce e si sviluppa nel buio silenzioso dell'infinito. Nel momento in cui questa supernova scoppia, quella luce di cui poeti e sognatori si nutrono si trasforma in una nebulosa, rilasciando una quantità incredibile di energia e materia nello spazio circostante. Gli elementi più pesanti come l'idrogeno, l'elio, il carbonio, l'ossigeno, il ferro e molti altri si disperdono nell'immensità dell'universo. La stella stessa, una volta lucente e maestosa, diventa solamente un ammasso di elementi, praticamente cibo per lo spazio. E alla fine, quello che rimane di quella stella è soltanto un ricordo lontano. Nessuno si ricorderà più della sua luce passata, è come se fosse caduta nell'oblio cosmico. Questo è quello che è successo alla mia stella e il buio che ha causato nella mia vita.

La mia ossessione per il cielo, vi chiederete il perché di questi riferimenti astronomici, beh, tutto ebbe inizio quando ero solo un bambino, e vorrei raccontarvi un piccolo aneddoto che potrebbe aiutarvi a capire meglio questa mia insaziabile affinità con l'universo. Ero appena un ragazzino di otto anni quando mia madre decise di farmi un regalo di compleanno davvero speciale. Era una donna studiosa, costantemente immersa nell'osservazione del cielo, delle costellazioni e delle galassie remote. In fondo, sospettavo che avesse acquistato quel telescopio più per sé stessa che per me, ma all'epoca, non mi importava affatto. Per me, era soltanto un regalo, una macchina strana con cui potevo osservare le stelle esattamente come faceva lei.

Ricordo ancora il mio entusiasmo quando lo scartai. Era un telescopio di legno, con una vernice scura e lucida che sembrava riflettere l'infinità del cosmo e trascritto sopra 'princeps caeli'. Mia madre trascorreva le serate a spiegarmi come usarlo, a insegnarmi a puntare e a fissare lo sguardo sulle stelle. Era come se mi stesse passando il testimone. Un'umida serata d'autunno, mentre il cielo era dipinto di mille stelle scintillanti, mi arrampicai sul tetto con il mio prezioso telescopio. Mia madre, con gli occhi brillanti di entusiasmo, si unì a me.

«Guarda lassù, Russell» disse mia madre, indicando una costellazione con il dito. «È il Capricorno, la capra di mare. È una delle costellazioni più antiche e affascinanti»

Intrigato, alzai il telescopio verso quella direzione e mi misi a cercare «Cosa rappresenta, mamma?»

«Si dice che il Capricorno fosse la forma che il dio Pan assunse per scappare dal terribile mostro Typhon» spiegò mia madre, con voce avvolta in un misto di entusiasmo e reverenza «È una creatura simbolica, caro. Rappresenta la forza e la saggezza necessarie per superare i momenti più difficili»

«Mi piace tanto mamma, questo capricorno» le risposi, abbracciandola e facendomi cullare dal suo profumo dolce e familiare.

Poi, la sua morte arrivò nella mia vita come una freccia in pieno petto. La malattia la divorò dall'interno, e non ci fu abbastanza spazio per la sua lotta. Mia madre fu strappata via dal mio mondo, dal cosmo, e io rimasi solo; accompagnato soltanto dalla fredda indifferenza del cielo notturno, unico ricordo tangibile di lei. Crescendo, l'ossessione per le stelle divenne la mia unica fede. Ogni notte scrutavo il cielo, leggevo libri, cercando inutilmente di trovare qualche traccia di lei tra le stelle, ma la mia ricerca fu solo un amaro promemoria della sua assenza.

Continuai a immergermi nelle cose per cui avevo un certo talento, o meglio, in quelle che sapevo potessero farmi fare soldi. Mi feci strada nel mondo degli affari solo per dare un senso di orgoglio a un nome che ormai era solo un suono vuoto. E così andai avanti, un passo dopo l'altro, mentre diavoli mi facevano da compagni di viaggio, insieme a un cinismo che non avevo mai immaginato potesse prendere così profondo radicamento in me. Cosa altro c'era da fare, dopotutto? Quella era la mia realtà, e ogni illusione di trovare qualcosa di più era ormai un ricordo sbiadito.

A ventidue anni, confesso che incappai in una donna che sembrava la luce che avevo cercato instancabilmente tra le ombre. Fu a Parigi, in una salle de spectacle sconosciuta, mentre sorseggiavo gin freddo e lasciavo vagare il fumo di una delle mie Opus X. Ero seduto da solo, i gomiti appoggiati al tavolino di legno, desideroso di compagnia quella sera, o almeno di sentire qualcosa: note di musica, voci indistinte, volti estranei, qualsiasi cosa che potesse staccarmi da quella paranoia. Eppure, a un tratto, sembrò che lei fosse scesa dal cielo solo per me, per me e per nessun altro lì dentro. Era come se il mondo intero si fosse dissolto, lasciando spazio solo a noi due, sospesi in una sorta di incantesimo.

«Excusez-moi...» dissi a un uomo seduto accanto a me «Può dirmi il nome di quella donna?»

«Oh, Je ne sais pas, signore» rispose «Lei balla qui abitualmente...»

La osservai danzare per ore, come se il tempo si fosse fermato e lei, instancabile, muovesse i piedi sul parquet con la stessa leggerezza di un folletto che danza tra i tulipani primaverili. Le braccia sottili, simili a rami d'autunno, sembravano dipingere nel vuoto, tracciando arabeschi incantevoli che imprigionavo il mio sguardo al suo corpo e io seguivo il loro percorso assorto da una luce che sembrava risplendere solo per me. I suoi capelli, della tonalità più profonda del cioccolato, si spiegavano sotto il seno tondo e perfetto, mentre il suo corpo sinuoso mi chiamava, richiedeva il mio contatto, e io sentivo quel desiderio vibrare in ogni cellula del mio essere mentre la voglia di possederla, di farla mia e soltanto mia, cresceva in me in maniera inarrestabile.

La volevo,
la desideravo.
Volevo farla mia a tutti i costi.

Avete mai visto un cane randagio, un bastardo come me, fidarsi e trovare il suo rifugio in una sola notte? Sciogliersi come un gelato sotto l'ardente sole di agosto, mentre la bramosia gli stringe il ventre dalla fame come un'ape attratta dal nettare di un fiore? Quella donna avrebbe potuto facilmente incarnare Mefistofele stesso, non me ne sarebbe importato. Immaginatela porgermi un candido foglio di carta, la sua richiesta muta ma inequivocabile: l'anima. In quel momento, non avrei esitato nemmeno per un battito di ciglia a cedere la mia essenza, in cambio di un attimo di luce in quel buio eterno.

Sorprendentemente, scoprii che lavorava lì, in quel luogo infestato da maiali, come se un angelo fosse caduto tra i porci, o forse, come se dal paradiso stesso fosse scesa per illuminare quel buio angolo del mondo. Quando i nostri sguardi si incrociarono, non mostrò fastidio, anzi, mi accolse con un sorriso che tingeva di rossore le sue guance, rendendola ancora più incantevole e dolce, come una fragola matura. Decisi di sfruttare la situazione a mio vantaggio, certo che una creatura fragile come lei non avesse mai incrociato lo sguardo di un uomo come me. Sapevo che le anime come la sua sono come pagine bianche pronte a essere scritte, e io vedevo in me l'autore perfetto per riempirle di parole degne di una dea, parole d'amore e di promesse, un porto sicuro dove fuggire dalla cattiveria del mondo, così che non se ne sarebbe più andata dal mio abbraccio.

«Comment tu t'appelles?» le chiesi, offrendole una sigaretta.

«Léa» rispose con voce flebile e timida, Léa, Léa, Léa...persino il suo nome danzava nelle mie orecchie e aveva il sapore dolce del miele.

Mi donò il suo corpo quella stessa sera, nell'albergo che avevo scelto vicino a Saint-Germain-des-Prés. Mi sentii un animale quando mi resi conto che non era mai stata con nessun uomo prima di me, conscio di essere colui che aveva varcato il suo confine, che l'aveva condotta fuori dal regno della sua innocenza, strappandola dalla veste della purezza. I suoi gemiti erano soffocati, sospiri nascosti, timidi sotto il mio tocco esperto, quasi come se non volesse che li sentissi. Non voleva farmi sentire il suo piacere, ma io ero deciso a strapparglielo dalle labbra, e intensificavo di proposito la pressione, desideroso di farli emergere, perché mai avevo sentito suono più dolce di quello e potei giurare che non avevo mai fatto l'amore con nessuna prima di allora. In Francia, mi spiegò più avanti lei con quel suo accento delicato, "si dice Coup de cœur", che vuol dire letteralmente colpo al cuore. È l'immagine dell'arco di Cupido scoccato con precisione millimetrica che si fionda con violenza contro il cuore e che trasforma due estranei in amanti. È l'estasi e la dannazione, il fuoco e subito dopo un getto gelido d'acqua. È il dolce tormento che ci spinge a gettarci nell'abisso dell'amore, sapendo che le fiamme dell'ardore ci consumeranno fino all'ultimo respiro. Ecco, Lèa è stata il mio Coup de coeur.

«Tra tutte le tue stelle, mon amour, quale sono io?»

«Stelle?» la guardai, spostandole una ciocca di capelli dal viso «Le stelle sarebbero invidiose di te, Lèa. Tu brilli con la stessa violenza del Sole»

Rimasi due mesi a Parigi, poi, come un ladro nella notte, la portai via con me in Inghilterra. Léa, la ballerina dai movimenti eterei, abbandonò la sua passione per me. Lasciò la sua bella città, la sua famiglia, il palco dove aveva danzato per tutta la vita, e decise di diventare mia moglie. Léa mise da parte il suo passato, per un futuro con me. E io, invece? Io non lasciai nulla dietro di me, né in Francia, né in Inghilterra. Non offrii sacrifici o rinunce, né la promessa di un amore eterno. Il contrario. Prendevo, strappavo, senza alcuna remora. La sua vita divenne la mia, e tutto ciò che le apparteneva fu offerto sull'altare del mio egoismo. E così il destino si compì, uno che offriva tutto, l'altro che non lasciava nulla.

«Facciamo un figlio» le dissi, come un pazzo incosciente, mentre il fumo di una sigaretta si contorceva nell'aria come un serpente «Anzi, non uno, facciamone tanti... Io voglio tanti figli da te, Lèa» mormorai, ma non era un capriccio, non era una velleità passeggera. Io lo volevo davvero, con una passione che divorava ogni ragione.

Desideravo Léa come mai avevo desiderato niente prima. Volevo che fosse la madre dei miei figli, la donna che portasse in grembo il frutto del nostro amore, che li crescesse con la stessa cura e dedizione che aveva messo nella sua danza. Sognavo di vedere la sua bellezza e la sua grazia tramandarsi attraverso di loro, come una eredità che portassero avanti in un mondo che spesso dimentica il significato vero dell'amore. Mi perdevo immaginando una dimora piena di bambini che corrono tra le camelie di un lussureggiante giardino inglese, e io e lei che facciamo l'amore davanti a un camino la notte di Natale. Tuttavia, sapevo che queste erano fantasie irrealizzabili, perché io ero il cacciatore di cuori, l'incantatore di anime vagabonde, e la stabilità di una vita familiare non era il mio destino; non faceva per me. Nonostante ciò, mentre pronunciavo quelle parole, sentivo un brivido di desiderio scorrere lungo la mia spina dorsale, ci credevo davvero.

Léa mi guardò con occhi increduli e le labbra leggermente socchiuse «Fai sul serio?» chiese, incerta, ma i suoi occhi scintillavano di un'emozione che non riusciva a nascondermi.

«Sì, Signora Lancaster» la chiamai con un titolo che conteneva tutto il peso dei miei desideri e delle mie incertezze «Sono serissimo, non ho mai desiderato nulla di più in vita mia. Voglio te, voglio noi, voglio tutto»

Ho sempre voluto tutto.

Dopo un'effimera stagione, giunse la nostra prima figlia: Olimpia. Aveva quei capelli ondulati castani come seta, lo stesso colore della chioma di sua madre, ma i suoi occhi, ah, i suoi occhi erano i miei, un azzurro freddo e profondo come il cielo d'inverno. Fin dai suoi primi passi, dimostrò ostinazione e fermezza, come se avesse ereditato la forza dei Lancaster. Non esisteva sfida capace di intimorirla, nessun ostacolo che potesse fermarla. Era un piccolo uragano, capace di abbattere tutto ciò che le si frapponesse.

Ci vollero altri cinque anni, un tempo segnato da una crescente inquietudine che Léa nutriva all'interno delle sontuose mura della nostra dimora. Per riempirle il cuore, avevo fatto allestire una sala riservata alla sua danza, uno spazio concepito appositamente per lei, con uno specchio che abbracciava l'intera parete e un pavimento di legno scuro levigato. Passavo le serate a osservarla, cullando tra le dita un calice di vino, e lasciando che la sinuosa melodia del tango si insinuasse nella mia anima per far sparire ogni mio problema. Ma, pian piano, iniziai a cogliere nell'aria un disagio crescente. Léa non si sentiva la regina di quel castello, fatto su misura per lei, per noi, per la nostra famiglia. No, piuttosto si sentiva prigioniera, e io? Ero diventato l'imperatore dispotico di questo bel regno. La mia bellissima farfalla era rinchiusa in una gabbia d'oro, la dama di corte di un desiderio di libertà che la spingeva verso spazi aperti, dove potesse danzare con il vento e abbandonarsi all'infinito. Non era solo una questione di spazio fisico, ma di spazio per respirare, di spazio per essere sé stessa. L'avevo elevata a signora, ma forse non era adatta a quella vita ma anzi; la disprezzava.

Un giorno, mentre la osservavo danzare al suono malinconico della canzone 'La Llorona', le chiesi con voce sommessa: «Ma chérie, ti senti prigioniera in questa sontuosa dimora? Questo castello è casa tua, il tuo regno, e tu sei la mia regina»

Si interruppe nei suoi passi. Gli occhi verdi, con bagliori dorati che scintillavano come campi di grano al sole, si spostarono dallo specchio a me. Il suo corpo esile, leggermente perlato di sudore, avvolto in un delicato vestitino borgogna, era ancora oggetto dei miei desideri, e l'ammiravo come si farebbe con un capolavoro, mentre desideravo di possedere il talento di Degas per catturare tutta quella bellezza su una tela. Ma io non avevo alcun talento, avevo solo gli occhi, e quegli occhi erano solo per lei, per Lèa, e per nessun'altra.

«C'est devenu une prison, mon amour» mi confidò con un sorriso triste.

L'arrivo tumultuoso di Theodore portò in lei una trasformazione profonda, rendendola una madre più tenera e premurosa. Pur amando già Olimpia con tutto il cuore, il legame tra Léa e Theo era diverso, più intenso, come una connessione speciale, sia nell'aspetto fisico che nel carattere. E il destino volle che Theo venisse alla luce sotto l'incanto di quelle stelle fatidiche: la costellazione del Capricorno. Incarnava una fusione letale tra me e Léa: possedeva un'intelligenza fuori dal comune e una curiosità quasi ossessiva, simile alla mia. Tuttavia, come sua madre, era dotato di una sensibilità straordinaria. Si prendeva cura di ogni essere vivente che incrociava, spesso lo scoprivo nascosto nel giardino mentre nutriva i gatti randagi. Quando lo rimproverai per non avermi informato delle sue attività, mio figlio non abbassò lo sguardo, ma mi fissò con gli stessi occhi di sua madre, gli stessi che sembravano sempre sussurrarmi: "Non potrai mai cambiarci".

Léa gli insegnò anche il francese quindi capitava che, quando mi vedeva, parlava con la madre nella loro lingua, come se fosse il loro linguaggio segreto, escludendomi. Evitava di stare con me, e devo ammettere che anch'io cercavo di evitare lui. Lo so, sembra assurdo ma mi metteva disagio stare da solo con mio figlio. Un bambino di dieci anni era in grado di farmi rabbrividire e mi faceva sentire giudicato, colpevole di aver reso infelice la sua amata madre. Questa cosa mi faceva incazzare, mi faceva venire voglia di punirlo, perché lui era diventato la vera ancora di salvezza di mia moglie, me l'aveva strappata via. Lo amavo per essere così simile a lei, ma allo stesso tempo non era facile da gestire.

Un giorno, mia moglie, venne nel mio ufficio con gli occhi colmi di rabbia, non l'avevo mai vista così «Russell!» mi urlò in tono accusatorio «Hai buttato via i Lego di Theo? Perché lo hai fatto?!»

Io presi una boccata dal mio sigaro e la fissai con fermezza «Perché mi ha messo in imbarazzo davanti a Cedric Spencer, blaterando degli affari che succedono dentro le mura di questa casa»

«E' solo un bambino Russell! Un bambino!» esclamò, esausta. Theo era il suo Petit Prince e io l'avevo ferito togliendogli ciò che amava di più.

«E' un Lancaster!» le urlai, alzandomi dalla scrivania e sentendo il sangue ribollirmi dentro le vene «Sua sorella non è mai stata così! Deve imparare ad essere un uomo, Lèa! Non il tuo giocattolino o il tuo cazzo di figlio protetto»

Léa alzò le mani in segno di difesa, ma il suo sguardo rimase fermo, deciso, ma sempre con delle sfumature di affetto, era lo sguardo di cui ero follemente innamorato «Theo ha solo dieci anni, Russell. È ancora un bambino, eppure cerchi di costringerlo a diventare qualcosa che non è. Non dovresti scaricare su di lui tutte le tue aspettative e frustrazioni!»

«Non sto cercando di cambiarlo, sto cercando di insegnargli cosa significhi portare il nome dei Lancaster, ma tu sei testarda e non lo capisci. Beh, mi dispiace se adesso il tuo figlioletto sta piangendo perché sai Léa; è anche mio figlio»

«Ma a che prezzo, Russell? A che prezzo?» La sua voce era fredda, carica di disprezzo, non mi aveva mai trattato in questo modo. Per un attimo, un solo attimo, mi sentii l'uomo più solo al mondo.

«A nessun prezzo, Léa. Solo così potrà competere in questo mondo, solo così potrà proteggere quello che è nostro. Diventare forte, resiliente, colmo di perseveranza, come suo padre»

La tensione tra noi era palpabile, un conflitto che minava le fondamenta della nostra unione. Entrambi volevamo il meglio per Theo, ma le nostre visioni erano così distanti che sembrava impossibile trovare un compromesso.

«Non so quanto ancora possa tollerare tutto ciò, Russell. Non so se posso sopportare di vedere nostro figlio soffrire per soddisfare i tuoi desideri di potere e prestigio. Non voglio che cresca a tua immagine e somiglianza, non voglio che suo padre gli rovini l'infanzia» la sua voce tremava appena e le sue parole pesarono su di me come macigni, e avvertii un'improvvisa stretta nel petto. Desideravo spegnere il sigaro tra le mie dita, punirmi per averla portata a pronunciare tali parole colme di rimpianti.

«Stai dicendo che non mi ami?» domandai, con una nota di amarezza nella voce «Che non mi hai mai amato? Io sono Russell Lancaster, Léa, e questo tu lo hai sempre saputo. Questo sono io

Léa sospirò e scosse la testa, le guance arrossate di lacrime non versate «Sto dicendo che amo nostro figlio più di quanto possa amarti in questo momento, Russell» la sua dolce voce era colma di tristezza «Amo l'uomo che ho conosciuto a Parigi, con i sogni leggeri come aquiloni e la volontà di cambiare il mondo. Ma ora sei un uomo diverso, non so più chi sei diventato Russell, e questa è la verità»

Le sue parole mi colpirono come una lama affilata. Era lei, la sola donna che avessi mai amato, oltre mia madre, a guardarmi come se fossi un mostro. Le mie labbra si serrarono in una linea dura «Si fa' come dico io in casa mia. Ora vattene, per favore, ho del lavoro da fare»

Durante i miei viaggi di lavoro, cercai con ogni mezzo di avvicinarmi di più a nostro figlio, di guadagnare il suo rispetto. Riuscii a modificarne un po' i tratti, a influenzare il suo carattere e vedere i risultati mi dava una strana soddisfazione. Theo sembrava pian piano diventare più docile e remissivo, più conforme ai miei desideri. Ma non ero così ingenuo da credere che quel biondino lo facesse per me. No, quel suo non ribellarsi alle mie parole era una sorta di protezione, un atto di difesa nei confronti di sua madre. Non voleva vederla soffrire, e questa sua sottomissione era la sua maniera di proteggerla da me, dal mostro che ero diventato, dandomi quello che volevo senza esitazioni e capricci. Lo faceva per lei, non per me, ma per la sua maman.

«Suo figlio ha un alto potenziale cognitivo, signor Lancaster, il suo QI è pari a 130» mi spiegò il suo insegnante privato, un pomeriggio, dopo le sue lezioni extra «E' ciò che noi chiamiamo Gifted. Spesso sbaglia di proposito le risposte dei test, devo costringerlo a toccare i libri, il suo cervello cerca di funzionare praticamente a memoria. Ha un'elevata sensibilità, preferisce la compagnia degli adulti, non vuole stare insieme ai suoi stessi compagni... ha bisogno di essere integrato, signor Lancaster. È fondamentale che lavoriamo insieme per aiutarlo a sviluppare appieno il suo potenziale, altrimenti la sua introversione potrebbe diventare un problema in futuro»

«Quindi mi sta dicendo che mio figlio non studia perché trova tutto troppo facile e si annoia?» sbuffai, quel bambino stava mettendo a dura prova la mia pazienza ma sarei ipocrita a dire che non lo amavo.

Decisi di regalargli un cucciolo, un amico che potesse tenergli compagnia e aiutarlo a superare la solitudine che lo circondava, considerando quanto fosse affettuoso con gli animali. Fu lì, per la prima volta nella sua vita, che mi sorrise in modo sincero, e in quel sorriso trovai una piccola scintilla di speranza. Lavorammo duramente con lui, cercando di aiutarlo a superare le sue difficoltà e ad aprirsi emotivamente. In questo processo, riuscii persino a ritrovare un po' di pace con Lèa, anche se il nostro rapporto non fu mai più come prima. I voti di Theodore cominciarono a salire in modo significativo, ma restava comunque distante emotivamente da me.

Spesso, mentre tornavo a casa dopo il lavoro, sentivo la musica provenire dalla sala da ballo. Mi avvicinavo silenziosamente e li trovavo entrambi lì: mia moglie che danzava e Theodore seduto sul pavimento. La guardava con occhi scintillanti di ammirazione, sorrideva di cuore e batteva le mani al ritmo della musica. Era un vero spettacolo vederlo così felice mentre osservava sua madre danzare, era diverso, sembrava davvero un bambino in quei rari momenti. Ma quando si accorgeva della mia presenza, si alzava frettolosamente, come se avesse visto un mostro, dava un bacio sulla guancia a sua madre e le sussurrava un veloce «J'y vais, maman» mentre lei gli rispondeva «Ok, ma petit prince».

Dopo due anni, Lèa si ammalò gravemente, e la sua condizione richiese cure specializzate in una clinica dedicata alla sua malattia. Theodore si chiuse ancor di più in sé stesso, come se si fosse rinchiuso in un guscio per proteggersi dal dolore che lo avvolgeva. Ora, aveva solo me e sua sorella come punto di riferimento, senza possibilità di sfuggire. Doveva affrontarmi e imparare a vedermi come la sua guida protettrice, che lo volesse o no. In quei giorni bui, mi sentii anch'io smarrire insieme a lui, senza la mia stella, e mi ritrovai a percorrere strade di cui ancora mi pento e che nascondevo abilmente. Ma Theodore, lui vedeva e sapeva sempre tutto, come fosse un oracolo. Era inutile cercare di nascondergli le cose, non c'era segreto che potesse sfuggirgli, faceva solo finta di nulla.

Gli anni passarono, e Theodore completò il liceo per poi iniziare l'università. Si immerse completamente nei suoi studi, come se cercasse rifugio tra i libri e l'istruzione, come se volesse trovare conforto nell'accumulare conoscenza. Era evidente che stesse cercando un senso, un significato che gli sfuggiva in un mondo che sembrava averlo tradito e voltato le spalle. Mi ricordava me da bambino, quando persi mia madre, ma non glielo avrei mai confessato. Mi limitavo ad osservare da spettatore la sua ribellione crescere, insinuarsi dentro di lui come veleno ed addormentare tutte le sue parti più vulnerabili. Ero consapevole delle sue incursioni: droga, sesso, sperperare denaro in frivolezze lussuose. Mi giungevano voci su quello che accadeva al Wicked, un club che mi apparteneva ma che gestiva per metà lui, sapevo che lo aveva fatto diventare una sorta di bordello e che lui ne era diventato il principale artefice.

Nonostante tutto ciò, dimostrava impegno anche nel lavoro, affiancandomi nell'attività e creando associazioni no profit a favore di bambini e animali. Quest'ultime forse gli servivano a non far morire del tutto la sua parte innocente, o vorrei dire la parte che Lèa aveva sempre protetto. Non ne parlava con nessuno, e sinceramente, a me stava bene così, non era qualcosa di cui mi sarebbe piaciuto vantarmi. Inoltre, continuava a visitare regolarmente la clinica dove sua madre era ricoverata, dimostrando un attaccamento e una dedizione che, purtroppo, non avrebbe mai avuto nei miei confronti.

Ma pensate che parlerò solo del mio amato figlio? Oh no, non voglio nemmeno dargli colpe per essersi trasformato in un Lancaster doc perché lo so che, in parte, è colpa mia. E se mi odia, beh, lo capisco. Tornerò di nuovo indietro nel tempo, non di tantissimo, sempre nel periodo in cui Lèa si ammalò e Theo aveva soltanto dodici anni.

La nostra casa era spesso invasa da una folla di eminenti personaggi londinesi, in un susseguirsi inesorabile di feste e cene. Questa consuetudine si fece particolarmente frequente dopo la prolungata assenza di Lèa. Sembrava quasi che cercassimo di colmare il vuoto lasciato dal silenzio penetrante che aveva iniziato a permeare le stanze della dimora che un tempo ospitava la mia famiglia perfetta. Organizzavo tali incontri per svariati motivi: il primo per soddisfare il mio desiderio di guadagno personale e come secondo per cercare di sopraffare, con il frastuono, quell'atmosfera di vuoto.

Tra gli ospiti più assidui spiccavano gli Spencer, una famiglia influente con cui avevo legami fin dai tempi dell'università. Ricordo bene quegli anni, e forse posso anche confessare che, al secondo anno, avevo avuto una breve relazione con la moglie di Cedric Spencer. Adesso però condividendo bambini della stessa età, ed avevamo già organizzato serate nella nostra casa quando Léa faceva ancora parte delle nostre vite. Durante queste occasioni, chiacchieravamo e lasciavamo i bambini giocare felicemente in giardino. Tuttavia, già allora avevo notato che Imogen Spencer sembrava avere un interesse particolare nei miei confronti. C'erano sguardi maliziosi, parole cariche di doppi sensi e tentativi di avvicinamento in momenti di relativa privacy, approfittando di ogni mia temporanea assenza, anche solo per affiancarmi e portare un bicchiere in cucina o prendere un po' d'aria fuori. Il passato era ormai passato, ma quelle nuove avances non erano sfuggite alla mia attenzione. Pareva nutrire un'inclinazione persistente, come se stesse cercando qualcosa di più.

«Tua moglie è diventata fredda, non è così?» I capelli ramati di Imogen fluttuavano mentre mi parlava. Mi aveva seguito con la scusa del "vado anch'io a fumare una sigaretta". Era una bella donna, ma una bellezza diversa da quella di mia moglie: più provocante, maliziosa, decisamente pericolosa «Lo vedo che non ti guarda come meriteresti di essere guardato»

«Perché, come merito di essere guardato, Imogen?» le risposi con tono annoiato quella sera, stanco di tutte le sue continue provocazioni.

«Tu meriti di essere guardato come se si ha di fronte un Dio» mi ripose, facendo uscire quelle parole di devozione da delle labbra carnose e tinte di rosso fragola.

«Il tuo sguardo mi scruta già con l'attenzione che merito, e forse anche di più» La mia voce assunse un tono più profondo, un sussurro carico di desiderio, mentre mi avvicinavo a lei. Le dita scorrevano con delicatezza sulla sua pelle morbida, seguendo ogni curva e solco del suo viso. Era evidente quanto bramasse il mio contatto, quanto desiderasse essere avvolta dal mio calore. Con l'altra mano, le sfioravo i capelli, spingendola leggermente a sollevare il mento verso di me. «Dovresti aver più paura di me in questo momento, Imogen» aggiunsi con un sorriso.

È una cosa pericolosa quando un'anima affamata di amore e attenzioni si trova a ricevere un rifiuto. Si scatena una metamorfosi interiore, una trasformazione primordiale che ribalta l'equilibrio dell'essere. L'ingiustizia di non essere più amati sprigiona una forza antica, una fame insaziabile di affetto e accettazione che mai potrà essere appagata da chi non può o non vuole comprendere, ma soltanto dal vero oggetto di desiderio. In quel turbinio di emozioni e bisogni, gli altri diventano solo gusci vuoti, incapaci di colmare quel vuoto profondo. Si alimenta così un circolo vizioso di tentativi infruttuosi, di attese deluse, che rendono l'anima ancor più vulnerabile. Se non potevo avere più l'affetto di mia moglie, avrei cercato altro, avrei spinto il cazzo dentro il corpo appetitoso di Imogen e mi sarei lasciando andare per qualche fottuto secondo. Ma mai e poi mai avrei voluto amore dalla donna che adesso avevo di fronte, non me ne importava. No, avrei preso altro da lei. La sua devozione, forse, oppure avere il controllo su di lei, qualcosa che mi era sempre sfuggito con Lèa. Mentre mia moglie aveva cercato instancabilmente l'uomo, Imogen desiderava la bestia e io gliel'avrei data.

«Paura?» domandò, con gli occhi scintillanti di curiosità e pericolo, una luce che sembrava accarezzare un filo di eccitazione. «Perché proprio la paura?»

«La paura è un'emozione potente, e io voglio vederla nei tuoi occhi. Perché quando la provi, il tuo pensiero poi diventa tutto per me» sussurrai con voce sommessa, avvicinando le labbra al lato della sua guancia, vicino al lobo del suo orecchio adornato da un delicato diamante «E sai perché? Quando percepisci un pericolo, il tuo cervello manda un segnale alle ghiandole surrenali. E sai cosa fanno loro? Rilasciano adrenalina nel tuo corpo, un'ondata di energia che ti prepara a reagire, a lottare o a scappare. La tua frequenza cardiaca accelera, la pressione sanguigna aumenta, e i tuoi sensi si affinano...»

Vidi il suo corpo irrigidirsi, tremare leggermente dall'eccitazione. Se glielo avessi chiesto si sarebbe spogliata e si sarebbe fatta prendere lì, sopra la fontana del mio giardino, mentre suo marito chiacchierava in salotto di politica «Russell..»

«Desidero che tu sia così spaventata, al punto da tremare in mia presenza. Che, ogni volta che pensi a me, il respiro ti si blocchi in gola e il cuore ti batta così forte da minacciare di sfondarti il petto...credi di poterlo fare per me?»

Quella proposta si rivelò essere l'origine di un effetto farfalla che avrebbe influenzato gli anni a venire. Tuttavia, proprio in quell'istante, con la coda dell'occhio, notai lo sguardo freddo di mio figlio rivolto verso di me, appena nascosto dietro una finestra. Era uno sguardo che sembrava giudicarmi, disprezzarmi, proprio come faceva da bambino. Era come se lui, a sua volta, fosse diventato il giudice delle mie azioni. E io glielo avrei lasciato fare, gli avrei impartito un'altra lezione su ciò che avrebbe significato lasciarsi sopraffare dall'amore incondizionato per una donna, a non diventare padrone di una stella e permettere che lei brilli finché non esplode e oscura tutto.

Theo, il mio Pan e io il suo Typhon.

-

Dopo un sacco di tempo sono riuscita a scegliere il presta volto di Russell ed è Nikolaj Coster-Waldau. 🖤

Inoltre, vi ricordo che Rêverie ha una playlist su Spotify. La trovate sotto il suo stesso nome o cercandomi direttamente nell'app come @blackhairblackdress.

È stato un capitolo difficile e lungo, per questo mi sono trascinata alcuni giorni in più. Lo so che vi aspettavate il continuo del capitolo precedente ma questa storia ha vari collegamenti fin dal passato quindi è essenziale 👀

- Martina🖤

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