RESILIENT

By AmelieQbooks

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Qual era il vostro sogno da bambini? Amelia Reed ha dedicato tutta la sua vita al pattinaggio artistico, con... More

⭑𝓓𝓮𝓭𝓲𝓬𝓪⭑
info +⚠️TW⚠️
Protagonisti- in aggiornamento
🦋Prologo🦋
1- 𝙊𝙗𝙨𝙘𝙪𝙧𝙖- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
2- 𝙍𝙖𝙞𝙣, 𝙞𝙣 𝙮𝙤𝙪𝙧 ᵇˡᵘᵉ 𝙚𝙮𝙚𝙨- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
3- 𝙏𝙝𝙪𝙣𝙙𝙚𝙧𝙨 𝙖𝙣𝙙 𝙡𝙞𝙜𝙝𝙩𝙣𝙞𝙣𝙜𝙨 - 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
5- 𝙊𝙣𝙚 𝙬𝙧𝙤𝙣𝙜 𝙢𝙤𝙫𝙚- 𝘑𝘰𝘳𝘥𝘢𝘯
6- 𝙍𝙪𝙣 𝙗𝙤𝙮 𝙧𝙪𝙣 - 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
7- 𝙒𝙚 𝙗𝙪𝙞𝙡𝙩 𝙤𝙪𝙧 𝙤𝙬𝙣 𝙬𝙤𝙧𝙡𝙙 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
8- 𝙎𝙘𝙚𝙣𝙩 𝙤𝙛 𝙮𝙤𝙪 - 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
9- 𝘽𝙪𝙩𝙩𝙚𝙧𝙛𝙡𝙮- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
10- 𝙊𝙣 𝙩𝙝𝙚 𝙣𝙖𝙩𝙪𝙧𝙚 𝙤𝙛 𝙙𝙖𝙮𝙡𝙞𝙜𝙝𝙩- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
11- 𝘼𝙛𝙛𝙞𝙣𝙞𝙩à 𝙚𝙡𝙚𝙩𝙩𝙞𝙫𝙚 - 𝘑𝘰𝘳𝘥𝘢𝘯
12- 𝙀𝙨𝙘𝙖𝙥𝙚 𝙛𝙧𝙤𝙢 ᶠᵃⁱʳʷⁱⁿᵈˢ - 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
13- 𝙍𝙝𝙮𝙩𝙝𝙢 𝙤𝙛 𝙝𝙪𝙢𝙖𝙣 𝙚𝙣𝙚𝙧𝙜𝙮- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
14- 𝙏𝙝𝙚 𝙛𝙞𝙧𝙚 𝙬𝙞𝙩𝙝𝙞𝙣-𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
15- 𝙒𝙖𝙫𝙚𝙨 𝙖𝙣𝙙 𝙝𝙤𝙥𝙚 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
16- (𝘿𝙤 𝙣𝙤𝙩) 𝙎𝙪𝙢𝙢𝙤𝙣 𝙩𝙝𝙚 𝙙𝙚𝙫𝙞𝙡 -𝘑𝘰𝘳𝘥𝘢𝘯
17- 𝙑𝙤𝙞𝙡à, 𝙦𝙪𝙞 𝙟𝙚 𝙨𝙪𝙞𝙨 - 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
18- 𝙇𝙚 𝙛𝙖𝙗𝙪𝙡𝙚𝙪𝙭 𝙙𝙚𝙨𝙩𝙞𝙣 𝙙'𝘼𝙢é𝙡𝙞𝙚 - 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
19- 𝘽𝙤𝙩𝙝 𝙨𝙞𝙙𝙚𝙨 𝙨𝙘𝙝𝙚𝙢𝙚- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
20- 𝙏𝙞𝙘𝙠 𝙩𝙤𝙘𝙠- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
21- 𝙏𝙖𝙡𝙚𝙨 𝙛𝙧𝙤𝙢 𝙩𝙝𝙚 𝙡𝙤𝙤𝙥- 𝘑𝘰𝘳𝘥𝘢𝘯
22- 𝘽𝙞𝙜 𝙘𝙞𝙩𝙮 𝙢𝙖𝙯𝙚 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
23- 𝙄𝙣 𝙩𝙝𝙞𝙨 𝙨𝙝𝙞𝙧𝙩 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
24- 𝙏𝙝𝙚 𝙙𝙚𝙥𝙖𝙧𝙩𝙪𝙧𝙚 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
25- 𝙏𝙝𝙚 𝙗𝙧𝙚𝙖𝙠𝙞𝙣𝙜 𝙤𝙛 𝙩𝙝𝙚 𝙨𝙞𝙡𝙚𝙣𝙘𝙚 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
26- 𝙏𝙤𝙩𝙖𝙡 𝙫𝙞𝙚𝙬 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
27- 𝙀𝙭𝙞𝙩, 𝙍𝙪𝙣 44- 𝘑𝘰𝘳𝘥𝘢𝘯
28- 𝙏𝙝𝙚𝙨𝙚 𝙢𝙤𝙢𝙚𝙣𝙩𝙨 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
29- 𝙄𝙣𝙘𝙪𝙗𝙪𝙨 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
30- 𝙍𝙚𝙫𝙤𝙡𝙪𝙩𝙞𝙤𝙣- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
31- 𝙒𝙞𝙨𝙝 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
32- ʸᵒᵘ 𝙥𝙪𝙩 𝙖 𝙨𝙥𝙚𝙡𝙡 𝙤𝙣 ᵐᵉ -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
33- 𝙎𝙤𝙢𝙚𝙩𝙝𝙞𝙣𝙜 𝙩𝙤 𝙗𝙚𝙡𝙞𝙚𝙫𝙚 𝙞𝙣- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
34- 𝘼𝙧𝙞𝙖 𝙨𝙪𝙡𝙡𝙖 𝙦𝙪𝙖𝙧𝙩𝙖 𝙘𝙤𝙧𝙙𝙖 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
35- 𝙇𝙚𝙩 𝙞𝙩 𝙜𝙤 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢

4- 𝙎𝙬𝙚𝙚𝙩 𝙖𝙣𝙙 𝙗𝙞𝙩𝙩𝙚𝙧 - 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢

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By AmelieQbooks

Scattai sull'attenti e mi voltai asciugandomi le lacrime, per dare un volto a quella voce, così gentile e festosa. Mi ricomposi, vedendo una ragazza di una bellezza assurda: due profondi occhi castani messi in risalto da folte sopracciglia, un sorriso pulito e sincero. Un volto dai lineamenti fini il suo, appesantito da un tubicino di plastica trasparente che dalla narice andava a perdersi tra le onde castane dei suoi capelli, poggiato dietro l'orecchio. 

Andai incontro a quel corpo longilineo per stringerle la mano esile e presentarmi. Ero imbarazzata nel conoscere, per la prima volta, una persona con il mio stesso disturbo; nella mia timidezza e scarsa capacità di socializzare, in quel momento non seppi se fosse meglio ignorare il fatto che ci stessimo conoscendo in una struttura protetta o se affrontare la situazione di petto. Come ci si comporta in queste situazioni assurde? Le pazienti accettano la malattia, parlandone liberamente? Quanto sarei risultata impicciona, se avessi chiesto a cosa serviva quel tubicino? Ellison sembrò accorgersi della mia espressione interrogativa. Ricominciò subito a parlare, dissolvendo qualsiasi tensione ci fosse nell'aria.

«Siamo state tutte spaesate, all'inizio, non ti preoccupare. E' un grosso cambiamento, essere entrati ufficialmente qui.» Disse con quell'espressione amichevole provando a farmi sentire a mio agio. «Sarò la tua compagna di stanza fino alle dimissioni di una di noi. Vorrei parlarti di un sacco di cose ma prima il dovere: devo farti un discorsone sulle regole di questo posto. Mettiti comoda e dimmi quando sei pronta, che inizio!» Ci sedettimo sul mio letto, io in testa e lei ai piedi, così da ritrovarci l' una di fronte all'altra, e ricominciò: «Al Fairwinds i telefoni vengono custoditi in infermeria tutto il giorno, ci vengono consegnati qualche ora la sera, dopo cena. Le sedute di gruppo sono obbligatorie, tre volte a settimana: due con la psicologa, una con il dietista. I bagni sono di uso comune, e sono in tutto tre. Sono sempre chiusi a chiave, li aprono mezz'ora prima dei pasti ed a distanza di un'ora dalla cena, per le docce.»

Sgranai gli occhi, incredula. Niente telefoni, bagni a orario. Dov'ero finita? «Sapevo che avresti fatto quella faccia!» disse sghignazzando. «La fanno tutte, quando vengono spiegate le regole del lager! Tante ragazze fanno fatica a rinunciare alle abitudini prese dopo i pasti, se capisci cosa intendo. Siamo tutte esperte nel nascondere i fatti, motivo per cui è stata stabilita la regola dei bagni chiusi.» 

Ero allibita, ma sapere che eravamo tutte nella stessa barca, spazzò via una piccola parte della solitudine dell'ultimo periodo. 

«Siamo in dieci al momento. Più tardi le conoscerai.» riprese Ellison. «Le regole più importanti sono queste. Non voglio assillarti oltre, ma prometto che ti starò vicino!»

Era di una dolcezza unica, sembrava davvero essere una di quelle persone la cui bontà si percepiva sulla pelle. Parlava a raffica, talmente a suo agio nello spiegarmi le regole che sembrava lo avesse fatto un'infinità di volte, ad un'infinità di compagne di stanza. Mi chiesi da quanto tempo fosse qui.

«Sono entrata per la prima volta quando avevo undici anni. Ora ne ho diciotto.»

Cazzo.

L'avevo chiesto ad alta voce. «Scusami, non volevo sembrarti impicciona. Solo che non sembra la prima volta che accogli una nuova ragazza.» Dissi sommersa dal mio senso di colpa.

«Non devi farti problemi a chiedermi le cose. Il tempo libero qui è così tanto che ficcanasiamo spesso nelle vite delle altre. Non sono sempre stata qui comunque, ma è da quando ho quell'età che la mia vita è un costante dentro e fuori dalle cliniche di riabilitazione. Sono stata anche in altre, più distanti, ma il Fairwinds mi ha sempre dato i periodi a casa più lunghi, prima delle ricadute.»

«Mi dispiace.»

«Non devi dispiacerti. Tornando a noi, tu sarai la mia ultima accoglienza! Questo sarà il mio ultimo ricovero, me lo sento. Lunedì finalmente toglierò il sondino nasogastrico, ed un po' alla volta, mi farò una vita fuori dagli ospedali!» Disse orgogliosa.

Sondino nasogastrico. Ecco cos'era quel tubicino trasparente. «Come funziona?» chiesi picchiettando l'indice sulla mia narice, guardando la sua. Dopo la mia uscita di poco prima, tanto valeva continuare a dare sfogo alla mia curiosità.

«Questo me l'ha ficcato il dietista su per il naso qualche mese fa. Passa per la faringe e l'esofago, arrivando alla bocca dello stomaco. Tre volte al giorno, Florence o Lorelai aprono questa estremità e inseriscono il bolo, sembra una pappetta per neonati a prima vista, in realtà è un concentrato calorico. Appena arrivata qui ero di nuovo troppo sotto peso, avevo digiunato per così tanto tempo da non riuscire a completare un pasto normale. Così inizialmente mi hanno dato cibo vero in meno quantità, completando il tutto con questa meraviglia.» Disse, giocherellando con l'estremità del tubicino. «Ancora domani, poi è lunedì, e adios, sondino! Vieni, ti porto a conoscere le altre, è ora della tua prima cena!» Era così abituata a vivere in quella che era la sua normalità che mi prese per mano e mi trascinò con sè. Non mi diede nemmeno il tempo di rispondere. Un tornado. Ecco cos'era Ellison.

Percorremmo a passo spedito il corridoio, fino ad arrivare a quella che Flores aveva detto essere la sala comune. Era un enorme salotto, con un divano beige a ferro di cavallo rivolto verso la tv più grande che io avessi mai visto. Dietro, un lungo tavolo e una parete attrezzata con un sacco di giochi in scatola e libri, tantissimi libri organizzati negli scaffali in scala cromatica. Non eravamo sole. C'era chi leggeva, chi giocava con qualche gioco in scatola e chi guardava la tv, ma nel preciso istante in cui entrai con Ellison, otto paia di occhi saettarono su di me, lasciando improvvisamente qualsiasi attività stessero facendo.

Sentii le guance tingersi di rosso, mentre venivo letteralmente assalita dalle ragazze. Ero abituata ad avere gli occhi di tutti addosso, ma solo sotto strati di trucco, body brillantinati e pattini ai piedi. Al di fuori della pista tutta quella sicurezza magicamente svaniva, lasciando spazio alla vergogna. Profonda vergogna. Timorosa del giudizio altrui, sentivo di non avere  niente per cui meritassi ulteriori sguardi, una volta uscita dalla pista.

Si presentarono, a turno, accogliendomi con fare festoso e del tutto non invadente. Feci così conoscenza con tutte le mie compagne di avventura, o di "carcere", come disse Lisa, una ragazza qualche anno più grande di me.

«Ma tu sei Amelia, la pattinatrice! Ti ho vista in tv alle nazionali, qualche mese fa!» Esclamò Julie. «Mio Dio, sei davvero brava, resto incantata ogni volta che Kevin ti solleva...io avrei le vertigini!» Al solo nominare Kevin, gli occhi delle ragazze passarono da un'espressione curiosa ad una sognante. Se solo lo conosceste, oltre ai suoi #workhard e #staystrong, pensai.

«Potevi dirmelo, che eri una pattinatrice. Anche mio fratello lo è!» disse Ellison, come se avesse scoperto l'acqua calda.  Incuriosita oltre i limiti del normale, stavo per chiederle notizie in più su chi fosse suo fratello, quando Florence sbucò dalla porta accanto alla libreria per invitarci a cena, e qualsiasi domanda avessi sulla punta della lingua, sparì. 

Il mio desiderio di sapere di più sul fratello di Ellison venne spazzato via, di prepotenza, dall'agitazione. Non avendo preparato e pesato io stessa il pasto, e privata del mio taccuino, non avevo idea di quello che avrei trovato sul piatto una volta seduta a tavola. L'istinto fu quello di tornare a casa.

Mi accodai alle ragazze, ed entrai per ultima nella sala pasti: una stanza enorme, con le pareti tinteggiate di un azzurro pastello ed uno schieramento di quadri con farfalle colorate di ogni tipo, dipinte con l'utilizzo di varie tecniche. Al centro della sala, un enorme tavolo preparato senza particolari fronzoli. Una tovaglia color panna, dieci bottigliette d'acqua, dieci piatti in ceramica bianca e dieci servizi di posateria. Avvicinandomi al tavolo, notai che accanto ad ogni posto apparecchiato vi era una targhetta con riportati i nomi di ognuna di noi.

«I posti a tavola vengono cambiati quotidianamente secondo un'ordine che decide il dottor Greg.» Disse Jodie. «Sei vicino a me oggi!» Concluse gentilmente, spostando quella che sarebbe stata la mia sedia, per farmi accomodare. Seduta davanti a me, Ellison mi strizzò l'occhiolino. «Stasera è il turno di Reputation, ragazze!» e premette il tasto play sul telecomandino sbucato da chissà dove. Le note di Taylor Swift ruppero il silenzio nella stanza, mentre le ragazze chiaccheravano tra loro. Scoprii che, ad ogni pasto, veniva scelta una playlist diversa, creando un sottofondo musicale per evitare silenzi protratti.

Dalla porta entrò, spingendo un carrellino fumante, una inserviente, che, un piatto alla volta, diede ad ognuna di noi del petto di pollo grigliato e delle verdure cotte. Mi sentii un po' sollevata, perchè erano pietanze che avrei mangiato senza problemi. Finchè accanto al cartellino con su scritto il mio nome, appoggiò un panino dal profumo inebriante e un aspetto delizioso. Ma io, non mangiavo carboidrati la sera. Mai.

Mi sentii nuovamente avvampare, ma non alzai gli occhi. Quelli rimasero fissi sul piatto. Avevo paura che, se li avessi alzati, sarebbero stati sorpresi nuovamente lucidi, e questi avrebbero sicuramente rivelato due cose: fobia e disagio. Fobia, per i carboidrati che la sera avevo deciso di non assumere, e disagio, perchè ero sì consapevole del contesto in cui mi trovavo, ma non sapevo quali fossero le abitudini delle altre. Anche loro, come me, non mangiavano carboidrati la sera? Sentii tintinnare le posate, segno che le altre avessero dato il via alla cena, e iniziai a mangiare anche io. Forse codarda, preferii per quel pasto isolarmi in una bolla di silenzio, senza guardarmi intorno nemmeno una volta. Quando tutte finimmo, potemmo alzarci per andare nel grande salotto. Nessuno disse niente, rispettarono tutte il mio silenzio a tavola e la mia scelta di non toccare, per nessun motivo al mondo, quel panino. Nemmeno Florence.

Capii che la sera, dopo cena, era il momento degli smartphone, perchè tutte ricevettero il proprio, e per una buona mezz'ora, nella clinica regnò il brusio delle ragazze che, al telefono con le loro famiglie, si ragguagliavano sulla giornata trascorsa. Chiamai velocemente mia madre, che era ancora nel viaggio di ritorno verso Daytona, e riconsegnai il cellulare in infermeria a Florence. Non me la sentivo ancora di far sapere al gruppo di allenamento del Daytona Skating Club dove fossi finita.

«Stancante oggi, Amelia?» chiese cordiale.

«Non sai quanto, Florence.»

«Sono un bel gruppo, molto unito, le ragazze presenti in questo periodo. Sono sicura che ti faranno sentire presto a casa.» Si alzò, posandomi una mano sulla spalla, e mi guidò lungo il corridoio, fermandosi davanti ad una porta. Infilò la chiave nella serratura, dandole tre giri. «Ti ho aperto il bagno, se vuoi farti una doccia calda per sciogliere la tensione di oggi. Non puoi chiuderti dentro, ma puoi appendere questo cartellino alla porta, così le altre sapranno che è occupato.» Mi porse un cartellino che riportava le parole vai pure!, su sfondo verde. Lo girai, trovando scritto ma anche no! su sfondo rosso. Sorrisi, perchè ebbi l'impressione che li dentro ogni cosa, per quanto piccola, fosse fatta con il preciso intento di tenere alto il morale. Ringraziai Florence, presi le mie cose e mi arresi ad una doccia calda, per filare poi dritta sotto le coperte.

Ero sempre stata schiva con le persone, tendevo ad isolarmi per paura che venisse tradita la mia fiducia. Me ne stavo raggomitolata sotto il mio scudo, a proteggermi da colpi che spesso nemmeno arrivavano. Più avanti, nel tempo, avrei capito che i colpi peggiori erano quelli auto-inflitti, ma in quel periodo ero troppo occupata a reggere lo scudo dalla parte sbagliata per accorgermene. 

Delle volte, nella vita, siamo talmente focalizzati nel raggiungimento di un obiettivo da eclissare qualsiasi altra cosa importante possa esserci. Mi resi conto quella sera di aver sacrificato tutto: rapporti familiari, amicizie, interessi, sonno. Per un solo obiettivo. Quel giorno, in mezzo a delle sconosciute, mi ero resa conto che, troppo abituata a stare da sola, non ero più in grado di essere. Non ero stata capace di interloquire con delle coetanee, e non per timidezza: mi sentivo vuota, senza i pattini. Sapevo essere persona, atleta, partner sulle rotelle, ma non sapevo essere un individuo con cui conversare con delle scarpe ai piedi. Che apporto avrei potuto dare ad una semplice conversazione, quando altro non sapevo che nozioni tecniche del mio sport?

Avrei dovuto rimettere tutta la mia vita in gioco. L'obiettivo restava sempre lo stesso, ma tutto ciò che vi aleggiava intorno, andava rivalutato. Ero rimasta impressionata dalla capacità che avevano avuto le mie compagne nell'accogliere me, la nuova. Si erano dimostrate amichevoli, entusiaste, ed estremamente discrete a tavola. Non ce ne fu una, nemmeno una, a riservarmi un atteggiamento diffidente. Quell'una, con ogni probabilità, fui proprio io. 

Erano così unite e disponibili tra loro, da volermi nel gruppo senza remore. Eravamo un esercito di dieci ragazze, armate solo della propria forza di volontà, a lottare con ferocia contro il mostro che perseguitava l'animo di ognuna di noi. 

Dopo la doccia, mi addormentai esausta nel nuovo letto, in un sonno finalmente senza incubi.

«Amelia. Amelia. Devi alzarti, è ora!» Ellison cercò di svegliarmi scuotendomi piano la spalla. «E' domenica, ci sono le visite oggi!» Aprii gli occhi e trovai di fronte a me gli occhi vispi di Ellison. Erano le 7.30. Come diavolo faceva ad essere così attiva a quell'ora, senza aver bevuto il caffè? «Arrivo.» Un ultimo sbadiglio e mi alzai, seguendo una Ellison saltellante con un passo degno di uno zombie. Entrai nella sala pasti dietro la mia compagna di stanza, salutando le ragazze, e la loro divisione in due gruppi fu lampante: sveglie e non sveglie. Le prime, avevano i capelli già pettinati, uno sguardo attivo e chiaccheravano tra loro. Le altre, erano sedute a tavola spettinate, ancora in pigiama, in un silenzio tombale.

 A colazione, probabilmente, era possibile sedersi a piacimento, non c'era nessun cartellino segnaposto. Apprezzai come, non conoscendomi, mi avessero riservato un posto in centro tavola, in modo da essere vicina sia alle sveglie che alle assonnate. Fu chiaro a tutte da che parte stessi, con il mio pigiamone e la mia crocchia disordinata. Mi sedetti tra Ellison e Lisa, e ci vennero portati caffè, the e biscotti monoporzione. Senza indugio versai nella mia tazza una generosa quantità di caffè, ma al primo sorso mi bloccai schifata, resistendo all'impulso di sputare il liquido in modo teatrale.

«Che è sta roba?» Le ragazze scoppiarono a ridere di gusto. Probabilmente, erano già in attesa che assaggiassi quella brutta copia di un caffè. 

«Non c'è il caffè qui, è orzo!» mi disse Lisa, divertita.

«E' uno scherzo di benvenuto?» chiesi impallidita. Le ragazze si sganasciarono dalle risate.

«Alcune delle pazienti spesso prendono degli psicofarmaci, la caffeina interferirebbe con il loro scopo. Quindi, non esiste il caffè qui dentro, per nessuno!» Iniziò Julie, seduta davanti a me. Notai Ellison farsi silenziosa, abbassando il capo.

«Ma dal lunedì al venerdì abbiamo il dottor Greg a tenerci sveglie!» Disse Monique, suscitando le risate delle altre.

«Domani capirai perchè ieri ho paragonato questo posto a un lagher, cara Amelia! Ti farò scuola già dal mattino!» Mi rassicurò Ellison con una piccola gomitata. Era tornata in sè.

«Ragazze, non spaventatela al primo giorno!» disse entrando una signora di circa quarant'anni. «Ciao Amelia, io sono Lorelai, un'altra infermiera. Non dare ascolto a queste streghette, il dottor Greg è molto severo, ma sapete tutte quanto tenga alle sue pazienti.»

Mi domandai quali fossero i requisiti di assunzione delle infermiere. Ne avevo conosciute tre in due giorni, e tutte erano state rasserenanti ed estremamente gentili. Ricordavo tutt'altri discorsi a riguardo, quando era il nonno a stare male ed ascoltavo i miei genitori aggiornarsi la sera.

Claire, Florence e Lorelai mi avevano dato l'impressione di avere una dose di pazienza infinita. Proprio Lorelai sostituì il mio orzo con una tazza di tè fumante, decisamente più buono. Mi spiegò che le scelte per la colazione ricadevano sempre su tè ed orzo, e non conoscendo ancora le mie preferenze, me li aveva presentati entrambi, nonostante nessuno bevesse l'altra brodaglia scura.

Durante la colazione, le ragazze parlarono delle visite che avrebbero ricevuto nel pomeriggio. Chi i nonni, chi i genitori, chi gli zii con il cane appresso, erano tutte elettrizzate. I familiari sarebbero venuti a trovarci ogni domenica, e spesso portavano un sacco di cose: giochi in scatola, libri, dvd, giochi per l'x-box. Ecco come si era riempita la parete del salotto. Chi era più avanti nel percorso di recupero, aveva il permesso di uscire dalla clinica per qualche ora di normalità. Chissà tra quanto tempo sarebbe capitato a me, che la normalità non l'avevo vissuta nemmeno prima di entrare lì.

Finita la colazione e sistemate le nostre camere, la soleggiata Florida ci regalò un temporale settembrino. L'idea di fare una passeggiata insieme, nei giardini esternì, andò scemando, e ci rintanammo tutte nel grande salotto. «Sai giocare a scacchi?» Mi chiese Lisa. Tra tutte, mi era sembrata la più schiva. Aveva un viso particolare, lo sguardo allungato, dei lineamenti addolciti da un nasino all'insù e labbra carnose.  Sembrava una modella. «Mi ha insegnato mio padre a giocarci, tanti anni fa. Non gioco da una vita, ma posso riprovarci.» Risposi, e la seguii in capo al grande tavolo dietro al divano. Disponemmo i pezzi sulla scacchiera in legno, e mi lasciò usare i bianchi, per avere l'iniziativa di gioco. Occupa il centro, sviluppa i pezzi, prepara un attacco per lo scacco matto. Queste, erano le tre nozioni che mio padre mi insegnò all'epoca. Le misi tutte in pratica, perdendo clamorosamente una partita dietro l'altra. 

«Sei fenomenale, Lisa!» le dissi estasiata all'ennesimo scacco matto. Con lei, pensavi ad un piano di attacco e in due mosse lo ribaltava, rendendolo non solo inutile, ma addirittura sfavorevole. «Ho iniziato perchè dovevo battere mio fratello, faceva tanti tornei, da piccolo. Quando ci sono riuscita, ha smesso di giocare con me, e ho continuato online.» Aveva lo sguardo basso ed un sorriso nostalgico, ma riuscii a darle il suo spazio e a non indagare oltre. 

Le nostre partite durarono fino all'ora di pranzo, e continuarono anche dopo. Ci stavamo divertendo, mi dimostrai brava nel reggere con dignità quella sequenza infinita di sconfitte.

«Ragazze del mio cuore, sono arrivate le visite della domenica!» Esordì cantilenando Lorelai.

Ci alzammo tutte in piedi, e vidi ogni ragazza raggiungere i propri visitatori, man mano che entravano. Abituate al rito domenicale, ognuna andò in un angolo diverso: chi in camera, chi sul divano e chi nelle aule studio, ognuna si ritagliò il proprio angolo di privacy. 

Rimasta sola, mi incamminai verso la mia camera, pensando che non sarebbe venuto nessuno, perchè erano davvero in pochi a sapere dove mi trovassi. Ero quasi arrivata alla porta cinque, quando alle mie spalle, sentii una voce che di certo non mi sarei aspettata di sentire così presto:

«Dove pensi di andare tu?» Catherine. Mia madre, dopo aver guidato tutto il sabato, aveva ben pensato di mettersi alla guida anche la domenica.

«Non pensavo ti saresti fatta otto ore di auto anche oggi, mamma.» Dissi sorpresa.

«Ieri l'infermiera Florence mi ha detto che durante la settimana farete attività di acqua dolce in piscina. Non hai messo in valigia le cose adatte, così te le ho portate insieme a qualche altra tuta.» Non sapevo nemmeno che ci fosse una piscina, nei cortili del Fairwinds, ma come sempre, lei era un passo avanti. Andammo in camera mia, e quando aprii il borsone per riordinare le cose nell'armadio ci trovai dentro anche uno Swiffer. Non ci credetti, lo aveva fatto sul serio. Mi voltai con aria interrogativa. «Sei allergica alla polvere Amelia, non so ogni quanto puliscano qui, anche se è tutto così profumato!» disse respirando l'aroma del pour pourrì che monopolizzava l'aria nella clinica.

Mi avvisò subito che quella domenica non avrebbe potuto fermarsi molto tempo, perchè aveva dato conferma da tempo per una cena con le colleghe di lavoro. La cosa non mi dispiacque, perchè avevo bisogno di ambientarmi nella mia nuova casa, così passai l'ora successiva a raccontarle nel dettaglio quanto successo dal mio arrivo li, soffermandomi particolarmente su quanto le ragazze fossero state tutte cordiali con me. Quell'ora, inaspettatamente, volò e riaccompagnandola all'uscita esternai quello che tenni sulla punta della lingua per tutta la durata della visita:

«Grazie mamma. Ho trovato i calzini.»

«Sono sicura porteranno fortuna anche questa volta. Puoi farcela, piccola Amy.» 

E si voltò, a nascondere gli occhi lucidi. Mai, in quasi diciotto anni di vita, l'avevo vista versare una lacrima. Nemmeno in fase di divorzio. Nemmeno alla morte del nonno. Era una donna tutta d'un pezzo, rigida, e non lasciava mai trasparire emozioni, positive o negative che fossero. La guardai andar via, e imboccai il corridoio che portava alla sala comune, diretta in cucina in cerca di altro tè. 

Appena entrai in salotto, però, mi bloccai alla vista di Ellison. I suoi genitori erano andati via, lasciando il posto ad un ragazzo che mi era tutto, tranne che sconosciuto. Mai, mai, mai e poi mai, mi sarei aspettata di vedere un volto a me tanto noto sul grande divano del Fairwinds. Pregai di diventare invisibile e nel silenzio più assoluto iniziai ad indietreggiare. Convinta di essere ormai fuori pericolo, diedi le spalle alla sala per darmela a gambe.

«Amelia!! Dove vai? Vieni a conoscere mio fratello!» la voce di Ellison paralizzò le mie gambe.

Cazzo.

Mi girai lentamente, con lo sguardo rivolto al pavimento, come a voler tardare quel momento il più possibile. Non potevo essere così sfigata. Volsi velocemente un'occhiata alle due persone sul divano, scoprendo che due occhi del colore del miele mi stavano già fissando sorpresi. Colpevole, non riuscii ad interrompere quel contatto visivo. Quando Ellison la sera prima accennò al fatto che anche suo fratello fosse un pattinatore, avevo fatto la sbagliatissima scelta di non dare libero sfogo alla mia curiosità.

Cazzo.

Quello sguardo incredulo, incatenato al mio, era quello di Jordan Davis.



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