Evermore - 𝑆𝑜𝑡𝑡𝑜 𝑖𝑙 𝐶...

By dyrneromance

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Dorothea ha ventiquattro anni e un sogno custodito nel cassetto della sua scrivania, tra bobine consumate dal... More

Disclaimer e Cast -
Intro -
𓆰𓆪
𝐑𝐄𝐂 𝟎𝟏
1 - Universi
2 - Portland, OR
3 - Sciarpe di Lino
4 - 15 years, 15 million tears
5 - Concime per le primule
6 - Tinta sbagliata
7 - Fort Aberdeen
8 - Solo una stupida ragazzina
9 - Abissale
10 - Arvo
11 - In picchiata
12 - Poker e Umiliazioni
13 - Nei corridoi del Monev
14 - Noodles
15 - Ginevra
16 - June Kennedy
17 - La nostra più grande delusione
18 - Buon anno, sorellina
20 - Ragno Lupo
21 - Spike
22 - Qui o in camera, scegli tu
𝐑𝐄𝐂 𝟒𝟓
23 - Jack&Rose
24 - Poligamia malfunzionante
Avviso

19 - I giardini di Babilonia

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By dyrneromance

Yakamoz - è una parola turca che indica il "riflesso di luna sull'acqua", o anche un microrganismo bioluminescente che, nelle caldi notti estive, illumina le acque del Bosforo. Nelle notti di luna piena, dove la luce lunare è più chiara, si crea un flebile scintillio argenteo sulle onde del mare: il riverbero delle onde introduce quello che, dagli abitanti della zona, è definito "alem", ovvero quel momento in cui ci si rilassa in compagnia di persone care, magari proprio seduti in riva al mare facendosi rapire dalla magia del momento.

Oakley's point of view

Stolen moments that we steal as the curtain falls
It'll never be enough

Il sole non era ancora calato del tutto ed era circondato da sottili strisce di nuvole candide i cui contorni sfumavano via nello sfondo roseo. Arrivammo sulla spiaggia quando il vento era ancora caldo e umido e i gabbiani volavano verso Oriente, come se fossero alla ricerca di qualcosa d'indispensabile. Mi tirai indietro le ciocche di capelli che mi ricadevano sulla fronte, pentendomi di non averli tagliati prima della partenza: erano anni che non li lasciavo crescere in quel modo ed in quel momento mi sentivo vittima delle alte temperature.

Nonostante gli iniziali ripensamenti, giorni prima avevo inoltrato la richiesta di congedo.

Ripetevo a me stesso di averne bisogno, che fosse giusto così. Meritavo anche io di allontanare la mente da quelle abitudini e allora, proprio quando avevo motivo di farlo, non potevo non cogliere quell'occasione.

Avrei dovuto fare dei sacrifici, e in fondo cos'è che non facciamo senza privarci di qualcos'altro?

A separare la discesa in spiaggia dalla distesa di sabbia dorata c'era una piattaforma in cemento che arrivava più o meno a metà strada verso il mare della Baia di Port Philip. Alla nostra sinistra si innalzava un molo in legno trattato, sorretto da colonne in leghe metalliche che si immergevano fino ad un punto poco preciso in mezzo all'acqua.

Due falò erano stati posizionati senza un criterio preciso, entrambi però distavano di qualche chilometro dal molo e uno dei due era più vicino alla battigia rispetto all'altro. C'erano gruppi di persone che apparentemente sembravano della nostra età, qualche viso era più giovanile, ma non sembrava un ritrovo per adolescenti. Qua e là trovavi borse frigo che contenevano birre e alcune bottiglie di alcoolici che non riuscii ad identificare, sembravano quasi tutti delle sottomarche di vodka e mezcal.

C'era un piccolo lido da cui proveniva una musica commerciale, da lì un via vai di gente che responsabilmente socializzava e metteva qualcosa in pancia oltre a drink scelti a caso.

Avevamo saputo di quel ritrovo il giorno prima, ad invitarci era stata proprio Dorothea.

Quando salimmo in macchina, all'aeroporto, ci accolse con un sorriso impacciato e un semplice «Ciao». I suoi occhi mi erano mancati.

Le accennai un sorriso riservato, al contrario di Annalize che si sporse dai sedili posteriori per stamparle un bacio sulla guancia.

Durante il tragitto verso Altona Valles, non potei fare a meno di notare quanto fosse viva Melbourne. Pensavo che la folla di turisti che si erano accalcati in aeroporto fosse qualcosa di relativo al posto, alla circostanza di quel punto di partenza e atterraggio che assisteva ogni giorno all'andare e al venire di nuovi turisti. 

Melbourne era la città dai mille volti, si stagliava con eleganza lungo le rive del fiume Yarra e le sue strade erano arterie pulsanti di persone di ogni cultura e personalità. C'era gente ovunque, anche negli angoli più piccoli delle strade. Era piena di vita, di voci, di suoni e di odori.

Presto, però, superammo la città urbana e i suoi grattacieli che si innalzano alti verso le nuvole come guardiani ai cancelli di un regno. Capivi subito quando passavi da un sobborgo all'altro. L'aria cambiava, ti infondeva un senso di tranquillità e tregua dal caos del centro.

Altona City era piena di stradine avvolte da alberi maestosi e profumati fiori dai colori vivaci, tendenti al rosso, che sbucavano ovunque, persino lungo i marciapiedi. A colpirmi fu la costa, i riflessi del sole australiano sulle onde dell'oceano che cullavano barche a vela e i gabbiani a riposo. Il profumo di salsedine danzava nell'aria e ti restava addosso anche dopo aver superato la baia.

Alla fine del lungomare, voltammo a destra. Iniziò un profluvio di negozi e caffè pittoreschi da cui proveniva il profumo di caffè appena macinato mischiato all'odore di dolci appena sfornati della pasticceria locale.

Mi stupì notare quanto poco visitata fosse rispetto a Melbourne. Lo notò anche Annalize e Dorothea non perse tempo a rispondere che era durante il tardo pomeriggio che Altona si risvegliava, scossa dall'apertura di pub e bar da spiaggia che attiravano perlopiù i giovani.

«Non vi consiglio di venirci dopo le quattro del pomeriggio, se volete visitarla per bene e stare in tranquillità.»

Altona Valles non la puoi dimenticare.

È probabilmente uno dei posti più belli che abbia mai visitato. È il luogo dove tutto svanisce. È il mondo che Alice scambiò per il Paese delle Meraviglia. È il posto in cui qualsiasi scrittore si recherebbe per trovare ispirazione. È la vallata delle incertezze sicure, quelle che riescono a tranquillizzarti perché ti mostrano la loro natura melliflua, docile, che ondeggia tra le colline circostanti fino a tuffarsi nel ruscello adiacente alla distesa di grevillee e callistemoni.

Dorothea e sua madre vivevano in una classica casa di campagna, fatta di legno bianco e tetto a falda di un azzurro molto chiaro. A circondarla c'era un porticato a più facciate che seguiva l'intero perimetro della casa, mentre sulla sinistra, nascosta da un albero di cui non ricordo la classe, vi era una veranda che, avrei scoperto più tardi, fungeva da sala da pranzo collegata direttamente alla cucina della casa.

Le finestre erano abbastanza ampie e permettevano alla luce di illuminare le stanze interne, tutte concentrate in un unico piano terra.

Ad arredare vi erano mobili in legno massiccio, probabilmente di quercia o pino, di un marrone molto scuro che tendeva a chiudere la stanza in uno spazio più piccolo rispetto alle sue fattezze reali. Era tutto molto rustico, a tratti ricordava la baita dei Fassbender. Le sedie, il tavolo, persino la cucina erano in legno grezzo intagliato e i tessuti in cotone e lino delle tende e delle poltrone del salotto erano della stessa fantasia astratta dai colori caldi.

C'era un unico bagno e tre camere da letto, di cui solo una veniva quotidianamente utilizzata da Anjette.

«Dottie non dorme in casa», spiegò poi Tyrone quando sua sorella ci lasciò a casa per andare a lavoro. Eravamo in una delle due camere libere ed avevo il presentimento che fosse proprio la vecchia stanza di Dorothea. A suggerirmelo e a darmene conferma furono le bobine usate che trovai in uno dei cassetti del comodino accanto al letto.

«Sul retro c'è un capanno, praticamente vive lì.»

«Perché?»

«Le va bene così.» Rispose alzando le spalle, in realtà non sapeva nemmeno lui cosa rispondere. Non se lo era mai chiesto, dedussi quindi che fosse una normalità per loro e che non si era spostata in quel capanno solo per poterci ospitare.

Annalize si sistemò nella stanza accanto, con insistenza di Tyrone, e fu lei che quella sera stessa, dopo aver trascorso il pomeriggio con Dorothea a leggere sul prato del giardino sul retro della casa, venne da me e Tyrone per metterci al corrente del ritrovo sulla spiaggia che si sarebbe tenuto quel weekend stesso.

Ad ogni modo, fu una serata tranquilla per la prima oretta e mezza. Gregory, il gemello di Annalize, era già in spiaggia quando arrivammo e subito ci presentò al gruppo di colleghi del parco zoologico dove lavorava. Tyrone, impacciato com'era in quelle situazioni, faceva di tutto pur di fare colpo sul cognato, ma a me sembravano solo vani tentativi poco necessari. Gregory era un tipo apposto e per tanti versi somigliava alla gemella, non c'era da stupirsi quindi che fossimo andati tutti d'accordo sin da subito.

Fu quando mi allontanai per andare a prendere altri due Archie Rose per me e Tyrone, che la vidi.

Indossava una semplice canotta beige dagli orli increspati e una lunga gonna a vita alta, dalla fantasia aranciata, che sfiorava la sabbia e lasciava intravedere i piedi nudi. Dava sempre l'aria di essere appena uscita da una serie televisiva degli anni settanta, una di quelle in cui la protagonista è una hippie che lavora in un diner in piena New York.

La affiancava un'amica, quella che poi avrei conosciuto come Ramona, e parlavano animatamente. Dorothea non poteva vedermi, era voltata lateralmente, però capii subito che stavano parlando di qualcosa d'importante, o di qualcuno che l'aveva evidentemente turbata.

Quando Ramona, che riuscivo a vedere bene, voltò lo sguardo dietro di sé, cercai di capire a chi fossero rivolte tutte quelle attenzioni, ma le persone erano troppe e distinguerne una era un'impresa troppo ardua per la percentuale di alcool, seppur inferiore al minimo, che avevo in corpo.

Non so come, forse i miei piedi si mossero da soli oppure fu lei a venire da me, ma ci trovammo l'uno di fronte all'altro.

Mi guardò come se mi stesse per rivelare l'anima ed io fossi il diavolo. Aveva una strana luce negli occhi e mi venne da pensare che fosse ubriaca, solo che una mano stringeva il cellulare e l'altra quasi stritolava la lattina di una Fanta.

«Siete qui da molto?» Mi chiese e subito dopo procedette a presentarmi l'amica. Quest'ultima aveva un accento straniero leggermente marcato e sorridendomi mostrò fiera lo sbrilluccichio sull'incisivo destro. Era un'estrema cafonata eppure, nonostante non la conoscessi affatto, mi diede l'impressione che fosse perfetto per lei.

«Dovrebbero stare da qualche parte, c'è anche Gregory.» Spiegai guardandomi intorno. Il sole era calato ormai e i riflessi della luna sulle onde creavano striature increspate che si estendevano verso un punto impreciso oltre il confine del mare.

«Gregory?» Mi guardò confusa, poi annuì a Ramona quando questa le disse che sarebbe andata a salutare qualcuno di cui non ricordo il nome.

«Il fratello di Annalize.» Le ricordai facendo un passo avanti verso di lei, cercando di chiudere gli altri al di fuori di quella conversazione

«Giusto.» Mi guardò annuendo. Era più bassa di me almeno di qualche decina di centimetri, ed ogni volta che alzava gli occhi per tuffarsi nei miei, sentivo come una morsa all'altezza dello stomaco che, i situazioni differenti, mi avrebbe suggerito l'inizio di un'infinita serie di conati.

Sì, lo so, che schifo.

Ma non sapevo come altro descrivere ciò che provava il mio corpo nel vedersela così vicino. Non è la stessa presa che ti stritola la bocca dello stomaco quando hai paura o sei su tutte le furie. Era qualcosa di più profondo e molto lontano dal modo in cui ero abituato a vivere.

Quella specie di conversazione fu troncata da Ramona che, con la stessa velocità con cui ci aveva liquidato, così ci aveva interrotti. In fretta e furia, prese da parte l'amica, scusandosi per l'interruzione, portandola lontano dalla folla, verso uno spazio vuoto tra le persone e il mare.

Così fui costretto a tornare da Tyrone. Raggiunsi i ragazzi con due drink tra le mani e più distrazione del solito. Mi furono presentate delle persone a cui sinceramente non badai molto, il mio unico pensiero era quello di rilassarmi e godermi la serata senza preoccupazioni di ogni genere, in particolare quelle lavorative.

Quando scoccarono le nove in punto, il volume delle casse fu alzato di almeno sette tacche e per riuscire a conversare eri costretto ad alzare un po' di più il tono di voce. Fu una serata piacevole, di tanto in tanto riuscivo a scorgerla in gruppi di ragazzi più giovani, cioè della sua età, ed ebbi come l'impressione che si fermasse ad osservarmi più del dovuto, più di quanto ci fosse concesso.

Non potevo ricambiare, non potevo voltarmi all'improvviso durante quelle conversazioni in cui Tyrone provava a coinvolgermi, e per fare cosa? Per guardare sua sorella. Avrei potuto farlo, ma non era concesso.

Quando il mio cellulare vibrò, mi scusai con i ragazzi e dissi a Tyrone che mi sarei allontanato per rispondere. Erano quasi le dieci in Australia, quindi nel Maine il sole era appena sorto, e ricevere la sua chiamata, in quel momento della giornata, mi allarmò più del dovuto.

Risposi al secondo squillo e con tono preoccupato domandai subito se fosse successo qualcosa. Dopo alcune scuse, qualche lamentela e poche rassicurazioni, e non prima di avermi fatto promettere che sarei andato a trovarla il prima possibile, attaccò la chiamata.

Eva era tante cose, ma prima di tutto era estremamente ribelle.

Quando era piccola amava giocare ai pirati e mi costringeva a fingere di essere la sirena appena catturata. Vorrei dire che fosse un po' umiliante, in quanto maschio, ma suonerei sessista e queste cose preferisco lasciarle a Fassbender.

Misi il cellulare in tasca guardando i riflessi lunari brillare sull'acqua. Mi ero allontanato di un bel po', e dal punto in cui mi trovavo non riuscivo più a distinguere Tyrone né Annalize.

Incamminandomi di ritorno, però, mi accorsi di una figura che si avvicinava, stretta nelle braccia conserte come se il leggero venticello umido fosse una bufera in tempesta. Rallentò il passo solo quando fu abbastanza vicina da potermi parlare con un tono di voce normale.

«Non ti sta piacendo la festa?» Come un deja-vu mi portò indietro a quella conversazione di tante sere fa, con lei seduta sul bancone da giardinaggio ed io che la guardavo come se fosse un fiore velenoso, uno di quelli che stavo osservando poco prima che lei irrompesse ancora nella mia vita scombussolandomi la ragione. «Le persone qui non sono tutte precoci. È così che mi hai definita, ricordi?» 

Accennò un sorriso avvicinandosi di più. Eravamo a piedi nudi sulla sabbia umida mentre, tra una parola e l'altra, camminavamo avvicinandoci alle colonne portanti del molo. Ci stavamo allontanando dall'epicentro della festa, lasciandoci alle spalle qualcosa di più grande di una semplice folla di persone.

«Già.» Mi accorsi che l'orlo della sua gonna si era bagnato a contatto con il mare, che man mano avanzava verso di noi e si allontanava come in una danza tormentosa. Mi tornò in mente che avevo lasciato le mie accanto alla sedia a sdraio col resto del gruppo e sperai vivamente che non si fossero allontanati di lì o le avrei perse. «Dovevo rispondere ad una chiamata.»

«Di chi?» La guardai afferrare la gonna a metà coscia, alzandola il giusto per riuscire ad entrare in acqua senza bagnarla e rischiare di rovinarla tutta.

Osservava il mare con la stessa intensità con cui io mi perdevo nell'osservare lei, e mi chiesi cosa ci facesse lì, se mi avesse seguito o se si fosse allontanata ancor prima di me ed io non l'avessi vista calato com'ero in quella telefonata.

«A te non sta piacendo la festa? Quando ci siamo incontrati sembravi turbata.»

«Ho incontrato qualcuno che non avrei voluto vedere.» Mormorò con la testa china in direzione dei suoi piedi immersi nell'acqua. Suonò malinconica e arresa, mi affrettai quindi a rispondere.

«Scusa, se vuoi vado via.» Quando si voltò verso di me per capire se avesse sentito bene, inarcai il sopracciglio e condividemmo un sorriso divertito.

«Sarebbe più facile se fossi tu.» Ammise guardando lontano, verso il nucleo della festa. Aveva discusso con la madre prima di arrivare in spiaggia? Accantonai il dubbio quando mi tornò in mente che Anjette ed Evan ci avevano avvertito che sarebbero rimasti a Sydney per l'intero weekend, quindi non era probabile che si fossero intrattenute in altre discussioni. Tyrone mi aveva detto che non riusciva stare nella stessa stanza con sua madre e che persino lui stava facendo del suo meglio per evitare di farle incrociare in casa e lasciarle da sole, insieme.

«Non so quanto possa contare, però volevo farti sapere che mi dispiace che ti abbiano fatto passare quella merda e mi dispiace essermi comportato come un'idiota, nel Nevada.» Come un disincanto la tirai via dal suono penetrante delle onde e quando mi guardò, i suoi occhi brillavano come comete nel buio della notte. Mi era uscito di bocca senza controllo, pregno di tutta la sincerità che avrei mai potuto mettere in quel tono di voce. Volevo che sapesse che non provavo pietà per lei, ma solo rabbia per loro e rimorso per ciò che mi ero permesso di fare, sperando che lo capisse e che non risultassi invadente o fuori luogo tanto quanto temevo.

Lei lo capì, accennò un sorriso e sospirò un «Grazie», poi continuò quasi sussurrando. «Mi dispiace per lo schiaffo.»

«No, è colpa mia. Non avrei dovuto baciarti.»

«Perché?»

«Cosa?»

«Te ne sei pentito?»

«Sì...», risposi subito, ma poi ci tenni a precisare. «Non ti ho chiesto se potessi farlo.»

«Se me lo chiedessi ora...», continuò tornando da me, camminando lentamente quasi avesse paura di mettere piede sulla sabbia umida, come se questa fosse asciutta e scottasse come al sole di mezzogiorno. Calcolava le parole, contava ogni sillaba e decifrava ogni fonema prima di lasciarli volare via dalle sue labbra rosse, piene come ali velenose di una digitale che avrebbe potuto fermare il mio battito in qualsiasi momento, se solo avessero sfiorato ancora le mie. «...ed io ti dicessi di sì, cosa faresti?»

Dio, dio, dio, perché io?

Quella ragazza era la mia condanna a morte, la sfera intorno a cui ruotavano tutte le colpe e tutti gli obblighi morali. Quella domanda rimase sospesa nell'aria come una sfida ineguale. La tentazione mi stava mangiando vivo mentre quei magneti velenosi, da cui non riuscivo a distaccare lo sguardo, mi attraevano come due calamite dai poli opposti.

Sospirai arreso e, per un attimo, distolsi lo sguardo per guardare il mare. Portai una mano sul capo e mi tirai indietro le punte dei capelli cercando di zittire quel tormento psichico con il dolore fisico.

«Scusa.» Se ne uscì, consapevole di quanto mi avesse messo in difficoltà.

«So che anche tu pensi che sia sbagliato.»

«Tu non puoi sapere cosa penso.» Incrociò le braccia in petto, chiudendo le mani in due pugni così stretti da mettere in risalto i tendini tesi dalla frustrazione che man man cresceva anche in lei. Ed eccolo di nuovo, quel filo invisibile che ci univa si stava aggrovigliando in un unico punto preciso a metà strada tra me e lei. Esalai un lungo respiro cercando di mantenere la calma.

«No che non posso, non ti conosco.»

«E allora cogli l'opportunità per farlo, per capirmi meglio.» La sua voce si era alzata leggermente ma non mi preoccupai perché gli altri non avrebbero comunque potuto sentirci.

«È sbagliato.»

«È una cosa nostra! Pensi che sia sbagliato perché ci guardi con gli occhi degli altri. Prova a farlo con i tuoi occhi, allora forse riuscirai a vedermi e a capirmi.» Le parole affiorarono cariche di frustrazione e insistenza, avvolte da una nebbia densa che mi impediva di trovare la ragione, la mia, quella che mi teneva sempre in bilico tra la volontà di tenermela stretta accanto e il dovere di allontanarla dicendole la verità.

«Finirebbe male.»

«Non puoi sapere come finirà qualcosa a cui non dai nemmeno l'opportunità di iniziare», insistette. 

Fece un altro passo accorciando ancora la poca distanza che ci teneva separati, si muoveva silenziosa, impercettibile, anche lei temeva di essere vista, ma nonostante ciò, a differenza mia, sapeva lasciarsi andare ai sentimenti, permettendo a questi di travolgerla in quel vortice di emozioni. 

Esitò per un attimo, prima di avvicinare il palmo della sua mano al mio viso, costringendomi a incatenarmi alla sua anima per risucchiarmi via tutte le forze di cui avrei potuto armarmi per respingerla via. 

«Baciami, Oakley...», mormorò in un sospiro pieno di desiderio e supplica. «Fallo.» Ripeteva ora alzandosi sulle punte per permettere alle sue labbra di raggiungere l'altezza delle mie. Tentatrici, ammalianti, promettevano piacere e invitavano in una danza ricca di passione e lussuria. Non sarei mai più riuscito a dimenticarmele. «Baciami.»

In un gesto rapido, spinto da quell'istante di rivelazione simile ad un'epifania, le presi il polso e non permisi alla mia mente di pensare mentre compivamo quei pochi passi che ci separavano da uno dei pilastri che sorreggevano il molo.

«Che stai facen-...» Non le permisi più di parlare, non le permisi più di istigarmi in quel modo. Non volevo più vederla supplicarmi di offrirle ciò che non sapevo come darle. Non avrebbero dovuto vederci, non avremmo dovuto farci scoprire. Nessuno avrebbe dovuto condividere ciò che nacque da quell'unione.

Chinai il capo, mi curvai sul suo viso e ad un soffio di respiro da lei, mi fermai per assaporare il gusto di tale vicinanza. Aveva un profumo dolce addosso, quasi zuccherino, ed era beata e dannata allo stesso tempo. I suoi occhi erano la mia debolezza, così indecifrabili mi turbavano, sembravano irrimediabilmente tenaci e disperatamente spenti. In un occhio vedevo un Angelo volare in cerchio con altri beati nella serenità perpetua. Nell'altro vedevo una peccatrice di gola e lussuria che mi aveva attirato nella sua trappola infernale per sottrarmi alla pace eterna e alla benedizione divina. 

Dorothea, bloccata con la schiena che aderiva alla superficie di rame del pilastro. Io, con le mani che fremevano dalla voglia di toccarla, inquieti vagavano lungo il suo corpo appigliandosi al suo dolce viso, al suo collo morbido e liscio come la seta, ai suoi fianchi così sconosciuti e spigolosi.

Le labbra si mossero frenetiche in preda alla passione e, quando le sue dita raggiunsero i miei ricci, spinse il mio volto ancor più verso il suo, come se ciò di cui si stava dissetando non fosse abbastanza. Le nostre lingue si unirono, intrecciandosi in quel turbinio di pulsazioni, danzando in una delicata coreografia incantatrice che ci avrebbe annientato, prima o poi. 

Ormai sappiamo chi sarebbe stato il primo a cadere, tra i due, ma nessuno mi avrebbe mai potuto preparare a ciò che seguì quel bacio.

Now you hang from my lips
Like the Gardens of Babylon


Aprii gli occhi e misi a fuoco la stanza.
Portai una mano sul viso e strofinai gli occhi cercando di fare mente locale. Quanto avevo dormito? Dedussi che il sole doveva essere alto da un bel po' perché i raggi illuminavano l'intera stanza e la temperatura era decisamente più alta rispetto alla sera precedente.

Rimasi a guardare il soffitto per un bel po', steso supino con solo i boxer addosso. Le lenzuola erano sparite dal letto, probabilmente le avevo scacciate via durante il sonno.
Ero ancora troppo assonnato per prendere il cellulare e vedere che ore fossero, così rimasi in quella posizione per un tempo impreciso.

I ricordi della sera prima affioravano e le immagini si proiettavano sul bianco soffitto come se fossi in una sala cinematografica. Il bacio, le sue mani, il suo sapore non se ne era andato via e, Dio, non mi sarebbe mai bastato.

Ad interromperci erano stati i messaggi di Tyrone che, preoccupato per non avervi visto più tornare, mi scrisse se fosse successo qualcosa. Riuscimmo a separarci solo qualche minuto dopo quando, prima che riuscisse a voltare le spalle per tornare tra quegli sconosciuti, mi aveva lasciato un ultimo bacio a fior di labbra.

Pensai che non fosse tornata a casa per la notte perché a distrarmi dai ricordi fu proprio Dorothea che, dopo aver bussato alla porta della sua stanza, era sbucata dallo stipite con occhi stanchi e curiosi. Rimase sulla soglia qualche secondo prima di entrare e chiudersi la porta alle spalle. Alzai il busto e aspettai che si sedesse accanto a me, notando che indossava ancora i vestiti della sera precedente e che il trucco degli occhi le era leggermente colato ai lati esterni delle palpebre.

Aveva le labbra screpolate e notai un piccolo taglio sul labbro inferiore che mi mandò in confusione.

«Tutto okay?» Mi affrettai a chiederle, avvicinando una mano al suo viso per passare il polpastrello del pollice sulla screpolatura rosea. Lei annuì e silenziosamente si avvicinò a me portando le gambe sul letto, incrociandole e lasciando cadere le infradito per terra.

«Ti sei appena svegliato?»

«Sì, che ore sono?»

«Sono le due del pomeriggio.»

«Che?»

«Tyrone e Annalize si sono scocciati di aspettarti e sono andati a Melbourne per conto loro.»

«Bene.» Mi guardò divertita. Osservò lo spazio intorno a sè, analizzando ogni millimetro di stanza come se ci fosse entrata per la prima volta.

«Perché non dormi in casa?» Le chiesi poggiando a schiena alla testata imbottita del letto e tirando su una gamba per comodità.

«Hai un tatuaggio?» Chiese cambiando completamente discorso una volta notato il disegno stilizzato di quei due omini sulla mia scapola sinistra. Solitamente ero costretto a nasconderlo per via delle regole intransigenti dell'esercito, per questo motivo avevo scelto di farlo così piccolo e in una posizione da cui non si sarebbe potuto notare una volta indossata la divisa.

«Sì, ma ora rispondi alla mia domanda.» Storse il naso e sospirò guardando verso la finestra da cui proveniva un piccolo sprazzo di luce che rifletteva sulla sua figura, conferendole le sembianze di un angelo.

Il mio dannato angelo.
Il mio angelo dannato.

«Mi ci chiudevo dentro quando il compagno di mamma tornava a casa ubriaco.» Mi si strinse la bocca dello stomaco, anche se in parte fui comunque felice che mi avesse concesso il privilegio di conoscere una piccola parte di ciò che aveva dovuto sopportare. Il suo sguardo nel mio sembrò vacillare prima di riuscire ad aggiungere altro. «Ci portavo le mie cose e di volta in volta questa stanza si è svuotata e il capanno si è riempito di cianfrusaglie.»

Mi osservò sott'occhi come se si aspettasse chissà quale reazione, e le sue mani giocherellavano nervose con l'orlo spiegazzato della gonna. Decisi che non le avrei chiesto più nulla a riguardo, che avrei rispettato i suoi tempi e la sua spontanea volontà nel rivelarmi o meno determinati dettagli del suo passato. Cambiò discorso da sola, com'era solita fare, facilitandomi la situazione.

«Ti va di venire in un posto con me?»

«Dipende, hai intenzione di uccidermi e occultare il mio cadavere?»

«Sì, ho comprato una tanica di benzina appositamente.»

Il Cherry Lake si trova a meno di una ventina di minuti da Altona Valles. È stato denominato così perché in passato, prima di essere rinnovato e ufficializzato come parco naturale, era circondato da alberi di ciliegio di cui ad oggi non ci sono più tracce.

A circondarlo c'era un sentiero e varie zone recintate che servivano a preservare la poca flora e la rara fauna che vi abitavano. Quando percorrevi il primo sentiero sulla destra, questo ti portava in un punto in cui la vista sul lago lo facevano sembrare infinito. Le sue acque riflettevano i segreti della terra circostante attraverso riflessi di un verde lussureggiante e del colore delle violette che occupavano la parte est del perimetro accanto al bacino. Alberi frondosi cullavano le sponde del lago e davano ombra su panchine posizionate qua e là lungo la struttura in legno che portava a vari pontili.

Quel lago incanalava la magia selvaggia dell'outback australiano.
Era un luogo quasi magico, o forse era lei a renderlo così.

Ci sedemmo su una panchina all'ombra di un salice. Dorothea aveva portato con sé la videocamera e mi costrinse ad essere il soggetto di varie riprese.

«Dì come ti chiami.» Mi incitò aggiustando la presa dell'aggeggio.

«Lo sai.»

«Non fare il guastafeste.» Alzò gli occhi al cielo chiedendomi di nuovo di dire il mio nome, il luogo in cui ci trovavamo, la data e cosa ci facevamo in quel posto.

«Questo devi dirmelo tu.»

«Ma come? Non ti piace?»

«Certo, è un bel posto. Però perché mi ci hai portato?»

Abbassò la videocamera e maneggiò con qualche tasto, non capii cosa stava facendo. Poi portò di nuovo l'attenzione su di me, scrollando le spalle e guardandosi attorno in cerca di una risposta.

«Ho pensato che fosse l'unico posto in cui avremmo potuto restare da soli.» La guardai portarsi le dita delle mani sotto le cosce nude, sembrava una ragazzina e dato che il pensiero mi divertiva, accennai un sorriso che la incuriosì e turbò allo stesso tempo. «Sono patetica, eh?»

Rivolsi gli occhi al cielo e le afferrai l'avambraccio per attirarla a me. Le portai una mano sul mento, ma non ebbi neanche il tempo di schiuderle le labbra che lei si avventò sulle mie con dolcezza.

Dorothea era così passionale e dannatamente brava a nasconderlo. Era un'attrice nata, sapeva adattarsi a tutto e a tutti e in qualsiasi situazione. Forse fu quella sua tendenza a celarsi costantemente che mi rese un po' diffidente nei suoi confronti, le prime volte. Non riuscivo a decifrare i suoi comportamenti e non sapevo mai cosa aspettarmi da lei in molte situazioni.

Avrei imparato a conoscerla solo dopo, sempre col dubbio e l'incertezza della consapevolezza che non sarei mai stato in grado di reggere il suo passo.

«I video che fai li carichi da qualche parte?» Le chiesi scostandole dei capelli dalla fronte. Dorothea scosse la testa e aggrottò le sopracciglia sottili.

«No, li tengo per me. Mi piace riguardarli a distanza di mesi.»

«È come guardare la vita di qualcun altro?»

«Sì, è divertente perché molte volte dimentico di aver vissuto certe cose, determinati momenti.» Rispose con la testa china sullo schermo della Canon. «Forse perché tendo a non vivermeli bene.»

Trascorremmo il pomeriggio lì, pranzando con dei sandwich al prosciutto e dell'uva bianca. Mi fece vedere alcune riprese che aveva fatto nell'ultimo periodo, alcune di queste mi inquadravano distratto a far nulla e mi meravigliai di come non mi fossi accorto che per tutto quel tempo fossi stato il soggetto prediletto. 

La presi in giro dicendole che sembrava una ragazzina stracotta di me e lei rise per la prima volta a quell'appellativo, come se si trovasse d'accordo e non potesse negare l'evidenza.

Fu probabilmente una delle giornate più serene della mia vita, lei riuscì a liberarmi dai mille problemi e i tanti pensieri che mi intrappolavano in quella gabbia fatta di ansia e apprensione.

Akande diceva che le persone migliori sono come le stelle: non sempre le vedi, ma sai che sono sempre lì. Possono spostarsi, ma non posso andare via e te ne rendi conto quando, tutto ad un tratto, l'oscurità della notte della tua anima si illumina nei meandri dimenticati, e ricordi che ogni nuvola ha un inizio, così come ha una fine, e che da quest'ultima spunteranno sempre le costellazioni che illumineranno il cammino della tua vita.

Dorothea sarebbe stata la mia gemma solitaria, il fulcro intorno a cui sarebbe ruotato il mio cielo, la costante celestiale fissa nell'incessante movimento cosmico e astrale, la mia Polaris.

E le stelle non puoi allontanarle, puoi solo smettere di notarle per un po', ma quando brillano troppo, anche se fatte di oscurità, restano sempre il punto fisso dentro e sopra la tua testa.

Lì, in alto, al centro del tuo universo.

Dove gli altri non possono raggiungerti.

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