RESILIENT

By AmelieQbooks

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Qual era il vostro sogno da bambini? Amelia Reed ha dedicato tutta la sua vita al pattinaggio artistico, con... More

⭑𝓓𝓮𝓭𝓲𝓬𝓪⭑
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Protagonisti- in aggiornamento
🦋Prologo🦋
2- 𝙍𝙖𝙞𝙣, 𝙞𝙣 𝙮𝙤𝙪𝙧 ᵇˡᵘᵉ 𝙚𝙮𝙚𝙨- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
3- 𝙏𝙝𝙪𝙣𝙙𝙚𝙧𝙨 𝙖𝙣𝙙 𝙡𝙞𝙜𝙝𝙩𝙣𝙞𝙣𝙜𝙨 - 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
4- 𝙎𝙬𝙚𝙚𝙩 𝙖𝙣𝙙 𝙗𝙞𝙩𝙩𝙚𝙧 - 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
5- 𝙊𝙣𝙚 𝙬𝙧𝙤𝙣𝙜 𝙢𝙤𝙫𝙚- 𝘑𝘰𝘳𝘥𝘢𝘯
6- 𝙍𝙪𝙣 𝙗𝙤𝙮 𝙧𝙪𝙣 - 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
7- 𝙒𝙚 𝙗𝙪𝙞𝙡𝙩 𝙤𝙪𝙧 𝙤𝙬𝙣 𝙬𝙤𝙧𝙡𝙙 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
8- 𝙎𝙘𝙚𝙣𝙩 𝙤𝙛 𝙮𝙤𝙪 - 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
9- 𝘽𝙪𝙩𝙩𝙚𝙧𝙛𝙡𝙮- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
10- 𝙊𝙣 𝙩𝙝𝙚 𝙣𝙖𝙩𝙪𝙧𝙚 𝙤𝙛 𝙙𝙖𝙮𝙡𝙞𝙜𝙝𝙩- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
11- 𝘼𝙛𝙛𝙞𝙣𝙞𝙩à 𝙚𝙡𝙚𝙩𝙩𝙞𝙫𝙚 - 𝘑𝘰𝘳𝘥𝘢𝘯
12- 𝙀𝙨𝙘𝙖𝙥𝙚 𝙛𝙧𝙤𝙢 ᶠᵃⁱʳʷⁱⁿᵈˢ - 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
13- 𝙍𝙝𝙮𝙩𝙝𝙢 𝙤𝙛 𝙝𝙪𝙢𝙖𝙣 𝙚𝙣𝙚𝙧𝙜𝙮- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
14- 𝙏𝙝𝙚 𝙛𝙞𝙧𝙚 𝙬𝙞𝙩𝙝𝙞𝙣-𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
15- 𝙒𝙖𝙫𝙚𝙨 𝙖𝙣𝙙 𝙝𝙤𝙥𝙚 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
16- (𝘿𝙤 𝙣𝙤𝙩) 𝙎𝙪𝙢𝙢𝙤𝙣 𝙩𝙝𝙚 𝙙𝙚𝙫𝙞𝙡 -𝘑𝘰𝘳𝘥𝘢𝘯
17- 𝙑𝙤𝙞𝙡à, 𝙦𝙪𝙞 𝙟𝙚 𝙨𝙪𝙞𝙨 - 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
18- 𝙇𝙚 𝙛𝙖𝙗𝙪𝙡𝙚𝙪𝙭 𝙙𝙚𝙨𝙩𝙞𝙣 𝙙'𝘼𝙢é𝙡𝙞𝙚 - 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
19- 𝘽𝙤𝙩𝙝 𝙨𝙞𝙙𝙚𝙨 𝙨𝙘𝙝𝙚𝙢𝙚- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
20- 𝙏𝙞𝙘𝙠 𝙩𝙤𝙘𝙠- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
21- 𝙏𝙖𝙡𝙚𝙨 𝙛𝙧𝙤𝙢 𝙩𝙝𝙚 𝙡𝙤𝙤𝙥- 𝘑𝘰𝘳𝘥𝘢𝘯
22- 𝘽𝙞𝙜 𝙘𝙞𝙩𝙮 𝙢𝙖𝙯𝙚 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
23- 𝙄𝙣 𝙩𝙝𝙞𝙨 𝙨𝙝𝙞𝙧𝙩 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
24- 𝙏𝙝𝙚 𝙙𝙚𝙥𝙖𝙧𝙩𝙪𝙧𝙚 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
25- 𝙏𝙝𝙚 𝙗𝙧𝙚𝙖𝙠𝙞𝙣𝙜 𝙤𝙛 𝙩𝙝𝙚 𝙨𝙞𝙡𝙚𝙣𝙘𝙚 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
26- 𝙏𝙤𝙩𝙖𝙡 𝙫𝙞𝙚𝙬 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
27- 𝙀𝙭𝙞𝙩, 𝙍𝙪𝙣 44- 𝘑𝘰𝘳𝘥𝘢𝘯
28- 𝙏𝙝𝙚𝙨𝙚 𝙢𝙤𝙢𝙚𝙣𝙩𝙨 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
29- 𝙄𝙣𝙘𝙪𝙗𝙪𝙨 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
30- 𝙍𝙚𝙫𝙤𝙡𝙪𝙩𝙞𝙤𝙣- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
31- 𝙒𝙞𝙨𝙝 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
32- ʸᵒᵘ 𝙥𝙪𝙩 𝙖 𝙨𝙥𝙚𝙡𝙡 𝙤𝙣 ᵐᵉ -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
33- 𝙎𝙤𝙢𝙚𝙩𝙝𝙞𝙣𝙜 𝙩𝙤 𝙗𝙚𝙡𝙞𝙚𝙫𝙚 𝙞𝙣- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
34- 𝘼𝙧𝙞𝙖 𝙨𝙪𝙡𝙡𝙖 𝙦𝙪𝙖𝙧𝙩𝙖 𝙘𝙤𝙧𝙙𝙖 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
35- 𝙇𝙚𝙩 𝙞𝙩 𝙜𝙤 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢

1- 𝙊𝙗𝙨𝙘𝙪𝙧𝙖- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢

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By AmelieQbooks


Il buio.

Il vuoto.

L'inezia.

Così nolente nei confronti della vita, così stanca di perseguire obiettivi irraggiungibili, che la sola idea svegliarmi, mi diede il voltastomaco.

A destarmi, però, fu un pungente odore di fenolo a solleticarmi le narici, e un suono intermittente a rimbombarmi nelle orecchie.

Aprii gli occhi, infastidita dal candore della stanza asettica e dalle luci bianche sul soffitto. Lentamente, cercai di muovermi, per capire dove fossi: quella doveva essere a tutti gli effetti una camera d'ospedale. Voltai la testa a sinistra e scoprii che quel suono che sembrava scandire i secondi, proveniva dal monitor di un cardiofrequenzimetro a me collegato da una serie di tubicini grigi, che andavano a diramarsi sul mio petto coperto da un camice in tessuto leggero e scadente. Voltandomi a destra, invece, sentii sul mio braccio il pizzicore dell'ago della flebo e una sedia vuota, su cui poggiava solo il timido raggio di sole che penetrava dalla finestra.

A guardare quelle sfumature di rosa e arancio doveva essere quasi il tramonto, ed ero sul punto di alzarmi, quando udii dei passi veloci entrare nella stanza. Piombò in camera una signora in carne, prossima alla pensione, i capelli corti e lisci adagiati sulla fronte, una divisa bianca e un forte profumo floreale.

«Ciao Amelia, sono l'infermiera Claire, come ti senti?» disse carezzandomi la testa con fare dolce.

«Dove sono?»

«Sei svenuta durante l'allenamento e la tua allenatrice ti ha portato qui, all' Halifax medical center di Daytona. I tuoi pattini e i tuoi vestiti sono nell'armadietto all'ingresso della stanza. A breve arriverà il medico per spiegarti quanto accaduto, invece la tua allenatrice si è assentata, per andare a chiamare tua madre. Le hai fatto prendere un brutto spavento cara».

Immaginai il suo spavento. Probabilmente, era dovuto al fatto che in caso di commozioni avrei saltato la gara che si sarebbe tenuta di li a due giorni, piuttosto che un reale timore nei riguardi del mio stato di salute. Nei giorni prima di una competizione, gli allenamenti per gli atleti agonisti erano ancora più intensi del normale: preparazione atletica, danza classica alternata a moderna, poi pattini ai piedi e avevano inizio le due ore del mattino in pista. Al pomeriggio, invece, lavoravo con una insegnante di ginnastica ritmica per poter essere più flessibile, poi rimettevo i pattini per altre tre ore e finivo la giornata con il potenziamento muscolare in palestra, insieme al mio partner, Kevin Dawson. 

La nostra disciplina era la coppia artistico, la specialità più difficile che il mondo del pattinaggio artistico a rotelle offrisse. Per restare ai vertici erano necessarie doti fisiche e atletiche che richiedevano costanza e disciplina. Kevin e io avevamo iniziato a lavorare assieme qualche anno prima, quando la nostra allenatrice Audrey Clark ci propose la partnership perchè si rese conto che in coppia avremmo potuto raggiungere risultati più alti. Ci vide lungo: nel giro di un anno avevamo raggiunto lo stesso livello tecnico della coppia rivale ai vertici in Florida.

A clamor di critica, a dividerci dall'oro, vi era solo il basso punteggio nel contenuto artistico dei nostri programmi di gara: peccavamo di complicità, risultavamo sincronizzati ma non coinvolgenti, un unisono tanto buono quanto robotico. Il motivo era semplicemente uno: eravamo atleticamente compatibili e caratterialmente agli antipodi. 

Star dei social lui, nel più completo anonimato io, tra noi si altalenavano periodi di battutacce e insulti, a periodi di completa indifferenza. In pista, lui non mi faceva cadere dai sollevamenti e io mi trattenevo dal tirargli accidentalmente una pattino in testa. Non avessimo avuto l'obiettivo comune di portare al collo l'oro mondiale di certo ci saremmo evitati senza grossi patemi. Ero disposta a tutto, pur di portare a casa quella medaglia.

« Mio Dio, che è successo qui?» i decibel stellari di Catherine Reed, mia madre, precedettero il suo ingresso in stanza sovrastando il ticchettio del suo passo svelto. Come un tornado ignorò completamente l'infermiera, per controllare agitata il monitor e il sacchetto della flebo, iniziando poi a tastarmi la fronte in più punti, facendo tintinnare la bigiotteria al polso.

«Febbre non ne hai, ossa rotte nemmeno» disse sollevando il lenzuolo che mi copriva per accertarsi non ci fossero gessi o fasciature «quindi che hai?»

«Niente di grave Catherine, è solo stanca, una dormita e torna come nuova» sentenziò entrando Audrey. Scollegai l'udito dalle mie funzioni cognitive, per non sentire lo squittio continuo che ebbe inizio tra quelle due, così esperte e certe del mio stato di salute da non chiedere nemmeno come stessi.

Ero già al limite della sopportazione, e mi voltai in cerca di appiglio a guardare Claire, che scoprii già rivolta a me con aria di comprensione. Chissà quante sceneggiate del genere aveva visto, negli anni di lavoro. Mi fece l'occhiolino, per smorzare la tensione che si stava creando in camera, e non smise di carezzarmi i capelli nemmeno quando in stanza entrò un uomo di mezza età dall'aspetto curato, una divisa verde brillante e un camice bianco ottico perfettamente stirato.

 «Ciao Amelia, va un po' meglio?» chiese alzando gli occhi dal plico di carte che reggeva in mano. Risposi facendo spallucce. «Sono il dottor Andrews, mi sono occupato delle cure di primo soccorso quando sei entrata. Sei apparsa subito disidratata, motivo per cui ti abbiamo messo questa flebo con una soluzione elettrolitica nell'attesa di avere i risultati degli esami del sangue, che sono appena arrivati. Sei minorenne, hai ancora diciassette anni, di conseguenza leggerò i referti alla presenza di un genitore, o tutore legale. Una di voi due lo è?» chiese rivolgendosi a Catherine ed Audrey.

«Sono la madre, ma può restare anche lei, è la sua allenatrice. Amelia è un'atleta che pattina a livello agonistico, è tra le migliori del Paese» rispose orgogliosa mia madre, affiancandosi a Audrey.

«D'accordo, allora, sarò piuttosto chiaro». Disse il dottor Andrews, riportando lo sguardo sulla mia cartella clinica. Mi imposi di riattivare l'udito, per ascoltare ciò che avrebbe sancito la mia sconfitta, e chiusi gli occhi, cercando di immaginare uno scenario in cui la protagonista non fossi io. Sapevo già dove sarebbero andate a parare le parole del medico, sapevo che prima o poi tutto sarebbe venuto a galla, ma non ero ancora pronta ad affrontare le conseguenze del caso e soprattutto le reazioni delle persone che vivevano nel mio quotidiano. 

Il dottore prese fiato e con estrema chiarezza si pronunciò, con lo sguardo puntato dritto su mia madre : «Signora Reed, sua figlia è stata ricoverata qui in seguito ad un mancamento avvenuto durante l'allenamento. E' apparsa subito in stato di forte disidratazione, stato confermato dalle analisi del sangue che hanno rilevato un grosso scompenso elettrolitico, in aggiunta a valori decisamente bassi di ferro e potassio».

«Oh bene, non è niente che non si possa risolvere: qualche integratore e sali minerali e torni in forma per domenica» interruppe mia madre, sciogliendo le spalle con fare saccente. Era addirittura più informata di un medico.

«Mi lasci finire, signora. Questi fattori, uniti al basso indice di massa corporea e ai lividi sulle nocche della mano destra, ci portano a pensare ad un quadro di disturbo alimentare».

Il pizzicore agli occhi arrivò subito. Strizzai le palpebre, nella vana speranza di ricacciare indietro le lacrime. Ma erano li bloccate, non se ne tornavano indietro, e la gola mi si strinse in una morsa.

 «Amelia segue alla lettera il piano alimentare della nutrizionista, è impossibile sia malata. I miei agonisti si allenano tante ore al giorno e, per mantenere alte prestazioni e massa muscolare adeguata, mangiano secondo i piani creati ad hoc dalla nutrizionista che il club mette a disposizione. Pranza in pista con me ogni giorno, le assicuro che le sue porzioni le mangia.» intervenne Audrey, con falsa tranquillità. 

Negli ultimi tempi, il mio rendimento sui pattini era calato, come i 7 chili in meno che Kevin doveva sollevare. Da come mi guardava in pista, ero quasi certa che Audrey avesse dei sospetti, ma un'atleta più snella alle porte della nuova stagione sportiva era per lei troppo allettante per dare voce alle sue supposizioni. Ignorare le era più congeniale.

«E dopo aver mangiato, sa cosa succede? Ne avete idea?» mi prese la mano avvolgendola nella sua e sollevandomi il braccio, con estrema cura. «Guardate le sue nocche, i graffi si palesano quando il vomito è autoindotto. Il suo stato di disidratazione è di una gravità tale, che può essere riconducibile solo all'uso spropositato di lassativi». 

Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Le lacrime, fin ora trattenute, sgorgarono senza alcun controllo, come un fiume in piena. Ciò che celavo in ogni modo possibile era stato esposto di fronte alle due persone che con pregi e difetti mi erano vicino dalla nascita, una, e dalla prima volta in pista, l'altra.

Ero sempre stata attenta nel rimettere senza far rumore, coprendo gli sforzi con la musica del cellulare e insonorizzando il water con la carta igienica.

Ero sempre stata attenta nel prendere lassativi, calcolando le ore per fare in modo che fossi a casa da sola al momento in cui avrebbero fatto effetto.

Ero sempre stata attenta, a tutto, ma i miei sforzi si erano rivelati inutili. Mi sentii umiliata, inerme, spoglia dei miei segreti che presto sarebbero stati sulla bocca di tutti.

Vidi, per la prima volta, un' espressione indecifrabile sul volto di mia madre che sembrava aver perso l'uso della parola e Audrey con lo sguardo assente fisso al pavimento. Se ne stavano lì, immobili, senza proferire parola, senza avere il coraggio di guardarmi in faccia.

«Scusate» disse finalmente Audrey, dopo qualche secondo che sembrò infinito. «Ho bisogno di uscire» mi rivolse un'ultima, truce, occhiata, di quelle che mi riservava quando sbagliavo qualcosa in pista, e se ne andò, senza aggiungere altro.

«Tesoro, non avere paura: ti aiuteremo in ogni modo possibile». L'infermiera Claire si rivelò essere l'unico angelo nella stanza. Non mi volse sguardi giudicanti, continuò a carezzarmi i capelli con dolcezza materna, dimostrandosi un'alleata solidale in quel momento nero.

«A tal proposito» riprese il dottor Andrews «non possiamo prenderci cura di Amelia qui, non abbiamo le risorse per sostenerla nell'immediato. Le possibilità sono due: potete affiancarla ad uno psicologo formato nel campo dei disturbi alimentari, o posso aiutarvi a inserirla in un programma di recupero specifico e completo. Per questa eventualità, si renderebbe necessario il ricovero in regime residenziale in una struttura protetta e specializzata nel trattamento delle casistiche simili a quella di Amelia. La clinica si trova a Clearwater, a qualche ora da qui. Specifico, che su qualsiasi possibilità ricada la vostra scelta i costi sono interamente coperti dall'assicurazione sportiva» prese una pausa. «Vi lascio sole per discuterne, passo più tardi a vedere come procede».

Se ne andò anche lui, seguito da Claire, che mi diede un ultimo buffetto leggero sulla guancia promettendo di tornare a trovarmi prima della fine del suo turno.

Restammo solo io e mia madre, ancora impietrita. Non ero abituata a vederla così, nel suo aspetto curato aveva sempre qualcosa da dire, su qualsiasi argomento. Mi decisi così a parlare, tra le lacrime, nella speranza di vederla reagire a quella condizione di stallo.

«Mamma»

A quella parola si smosse, spostò il peso sulla gamba destra sistemandosi la borsa sulla spalla e finalmente parlò guardandomi in faccia, con una espressione che non ammise repliche:

«Domani organizzo il tuo trasferimento a Clearwater. Io una figlia anoressica non la voglio».

Eccola la. La mia mamma. In quel momento, la riconobbi.

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