Under Life -Kiribaku-

By eris_lunaa

998 88 130

Io non so se sono speciale. Nessuno lo sa davvero. Si è solo consapevoli dei secondi che passano e del modo i... More

𝚙𝚛𝚎𝚏𝚊𝚣𝚒𝚘𝚗𝚎
𝚙𝚛𝚘𝚕𝚘𝚐𝚘
1. Respirare
2. Sotto le Regole
3. Sole Nero
4. Eden.
6. Dogma.

5. Mignolino

81 9 16
By eris_lunaa


Ho sempre sentito i polsi deboli.

Come se dei piccoli ossicini sostenessero il mio intero braccio.

Poi stringo le nocche e impugno le unghie sul palmo, incatenandole nella carne fino ad incastrarle dentro, tagliandomi.

E lì capisco che non sono loro ad essere deboli, ma che sopporto il peso di un grande fardello senza un nome con cui potessi chiamarlo.

Sopporta e stringi i denti.

Questo è il mio motto.

Non sai per quanto, speri che debba terminare ma non hai nemmeno idea di cosa sia.

Come una perla con il cuore straboccante di magma, che ti scende giù per la gola per sciogliersi dentro il torace, ustionandoti da dentro.

Sopporta, Katsuki, sopporta e stringi i denti.

E i ho sempre sopportato, incoronandomi di tolleranza e patimento, brulicandomi in direzioni dove la confusione è l'unica strada che conosci, che sai percorrere.

Stordito in un sentiero dove si divide in altre stradine distinte, senza cartelli ad identificarle.

Nè l'incrocio di una via a darne il nome, né un insegna.

Insulse strade che pendono su un ciglio di pietre così minuscole, che messe insieme avrebbero formato la luna.

Qui non ci sono stradine percosse da sassi e senza uno striscio di nome. C'è né una sola, e il nome lo sanno tutti.

È una strada senza asfalto, scavata con le unghie e assestata con i denti e il sudore.

Composta di sabbia e ghiaia ma priva di impronte, o segnali di vento.

Sta tutto alle spalle. Come un terremoto che scorge unicamente sulla mia schiena e mi punzecchia fino a graffiarmi la spina dorsale.

Il destino non lo comprendi perché non lo conosci.

Riconosci il passato, invece, perché l'hai vissuto. Così come è quella strada di polvere.

Il suo nome è lo stesso del mio.

Con le stesse lettere e l'esatta composizione di consonanti, in fila una dinanzi all'altra.

Solo che il mio nome mi riconosce il viso.

Quella strada, al contrario, riconosce dentro qualcosa di più profondo, e io non so distinguerlo.

È calata la notte.

Lo zainetto cala sulle spalle e gli indumenti e le cianfrusaglie dentro tintinnano fra di loro.

Alberga dentro di me un irrefrenabile senso di inquietudine.

Alcune goccioline d'acqua scendono dai tetti e instillano sui marciapiedi.

Capita spesso in questo paesino, d'estate, che si metta a diluviare pioggia gelata, costringendoti a dover rifilare il cappotto, per incappucciarti sotto le maniche corte.

Il bavero del cappotto è comodo, però.

Ci infili il naso dentro e lo riscalda. Denki me ne ha gentilmente prestato uno. Con la pelliccia intorno l'orlo del cappuccio e la cerniera che scende lungo le ginocchia. La stoffa verde militare si adatta al colore pallido delle mie guance.

Se provo a soffiare nell'aria, esce una nuvoletta di fumo freddo e la punta del naso diventa tutta rossa, non che già non lo sia di suo.

C'è qualche tegola scarlatta caduta, da queste parti, il vento è stato prepotente.

Ho lasciato lo skateboard da Denki, portarlo con questo freddo mi avrebbe dato fastidio, e con le pozzanghere a saccheggiare l'asfalto non sarebbe stato saggio strisciarci sopra.

Sento le labbra che mi tremano come se fossero state a contatto con brina gelata.

Mi piace il freddo, per le coperte, lo scaldino e la stufetta collocata all'angolo del letto, e poi, un bel pasto caldo a riscaldarti la gola che ti si scioglie dentro lo stomaco.

Non mi piace sentirlo, però.

Lo adoro quando sto dentro casa, perché mi fa sentire coccolato, al contrario del caldo che è tutto un ghiacciolo e delle eliche di un ventilatore che ti girano intorno sperando di sollevarti.

C'è qualche lampione che illumina le case ordinate una accanto all'altra.

I vetri delle finestre sono illuminati e s'intravede qualche silhouette che girovaga dentro.

Sono l'unico fuori, ma la pioggia ha sembrato rallentare così ho colto l'opportunità per ritornare a casa, dopo aver passato due giorni a dormire in un letto non mio.

Svolto a destra e incrocio un vicolo dove sorge poi una grande strada, illuminata da lanterne accostate ad ogni porta di ingresso.

C'è una persona, fuori, seduta su degli scalini di una piccola veranda dove a malapena contiene delle piante per ravvivare l'ingresso.

Riesco a scorgere i capelli rossi e mi accorgo che questa è proprio la via di casa sua.

Non vedo bene cosa sta facendo, mi avvicino come un cerbiatto curioso che si addentra in un bosco sconosciuto.

Sento qualcuno che borbotta, in sottofondo, una voce quasi robotica.

Ha il cellulare fra le mani e la tavola di legno che ruota sotto i suoi piedi che indietreggia e avanza a suo piacimento.

Una graziosa sciarpa rossa fatta all'uncinetto gli gira intorno al collo, e un largo maglione di lana beige lo veste fino alle cosce.

Tento di apprendere cosa sia quella voce velata che mi pinza le orecchie, e avvicinandomi ancora un po' mi arriva chiara come uno schiaffo.

È un video su YouTube, suppongo.

«Allora, ragazzi! Se desiderare fare un Ollie, ma siete alle prime armi, vi consiglio di... »

I miei occhi lo fotografano con quel viso imbronciato, increspato di lineette corrucciate sulla fronte, concentrato ed immerso verso lo schermo.

Mi avvicino a passo leggero, aggrappandomi alle tasche profonde del cappotto che mantengono le dita sottili al caldo.

«Spegni quell'affare, non sei assolutamente pronto per fare quella roba, più tosto, impara a stare in equilibrio, prima.» I suoi occhi scattano su di me, guardinghi, chiedendosi chi fossi. Le sue pupille si intrufolano dentro le mie, guardandoci dentro per un attimo e mi sento tremare.

Sorpreso della mia presenza a quell'ora della serata, e inizia a sorridermi con quelle arcuate e brillanti labbra rosse ed enigmatiche.

L'ultima volta l'ho visto al fast food.

Tutta la giornata, poi, l'avevo passata con Denki, a raccontargli a mio malgrado, come una cagna in calore, della mia sveltina fatta in bagno, durata poco di più di cinque minuti, come un dodicenne che scopre la meravigliosa anima degli ormoni.

Non gli diedi dettagli accattivanti, di quelle quattro mura bianche del WC di un fast food di un piccolo paese. Gli raccontai però, di come mi sono sentito in quella situazione di... disagio.

Delle sue labbra sul mio lobo e del suo timbro di voce che percosse ogni singolo filo di eccitazione che mi rigava le orbite, in quel momento.

Non ho mai vissuto un situazione simile, in posto simile, soprattutto.

Denki ha ammesso che abbiamo imbarazzato tutti, però diamine, cosa potevo farci io!?

Sono stato trascinato come una marionetta a fare uno spettacolino adatto a degli adolescenti verginelli.

La cosa peggiore?

È che mi è piaciuto da matti quello che ha fatto, come mi ha trattato.

Dovevo solo eseguire i suoi ordini, e se disobbedivo cosa mi avrebbe fatto o detto lo sapeva solo lui.

Denki è contento, anche se ha dovuto subire le mie lamentele fino al momento in cui non ho lasciato la tabaccheria, poco fa.

«Katsuki! Sai che mi aspettavo che passassi di qui? Sono uscito poco fa, sperando di vederti, e nel frattempo ho pensato di informarmi, non avevo intenzione di fare nessun... com'è che si chiama? Holli?»

«Ollie.» lo correggo, mentre lui si aggiusta quel maglione striminzito, si accantona un po' a sinistra, credo per lasciarmi spazio.

Ha detto che... mi aspettava?

Perché avrebbe dovuto?

«Perché non ti siedi? Cinque minuti.»

Picchietta con l'indice il gradino al suo fianco, si sposta un altro po'.

Mi faccio piccolo a quella vista.

Da un lato, la fretta di andare a casa e sapere quello che mia madre ha da dirmi riguardo quella email, mi mangia vivo.

Dall'altro non voglio saperlo davvero.

Realizzare che la furiosa e triste realtà debba sdrucciolarmi su per la testa, facendo precipitare qualsiasi senso di quiete che potesse cullarmi in una falsa e triste favoletta, felice e spoglia di problemi, non è il massimo.

Mi frastorna l'indecisione.

Posticipare un discorso che già è tessuto su una tela, ricamata col sangue e cucito con le ossa, nella mia mante.

O catapultarmici dentro, così di punto in bianco, perdendo l'occasione di...

La verità è che per me, scegliere sempre di posticiparle, le cose, mi fa sentire meno debole. Perché se tutto accade troppo in fretta, non sai mai quando prendere aria, o rischi di soffocare per un veleno che porta la maschera di un antidoto.

Scelgo di accovacciarmi al suo fianco, in quel piccolo gradino, sistemandomi il cappuccio sopra la testa, adagiando le labbra dentro il bavero, sfiorando la cerniera fredda.

Posa il cellulare dentro alla tasca dei pantaloni, poi incrocia le dita fra di loro e torna a guardarmi.

Non so cosa mi ricorda la sua pelle quando la guardo. È così cereo come le guance candide di una bambola di porcellana.

Potrebbero stendere del tessuto pallido in raso sulle sue braccia e non si noterebbe la differenza.

Con quella minuscola luce ottusa che permea l'aria alle nostre spalle, i suoi capelli sembrano quasi neri, il rosso è scuro e tenebroso e penetra il suo viso infestato da quelle minuscole ciocche che gli adombrano la fronte.

Mi trovo il respiro teso, senza saperne un motivo. Sposto lo sguardo sulla punta delle mi scarpe, abbassandolo, scavando sulla mia lingua qualcosa da dire e da buttar fuori per mutare il silenzio, ma mi precede.

«Ieri ti ho sentito parlare con Denki riguardo a quella email. Le andrai a parlare stasera?»

Gli ossicini del mio polso è proprio in questi momenti che li sento potenti, quando si schiudono fra le nocche pungenti e bianche,  e mi trapassano chissà quale parte che fingo sia forte, dentro di me.

Le ginocchia mi tramavano prima di partire, adesso assimilano la vibrazione di motore da corsa pronto a varcare la soglia dell'ultimo giro di campo.

Non mi piace che si facciano gli affaracci miei.

La cosa che conservo più con cura, come se nascondessi un gioiello inestimabile in una cassa di sicurezza, è la risolutezza.

Un privacy così risoluta da non permetterei neanche a uno spiffero di farvi parte.

E nonostante, tutto possa essere sotto gli occhi di tutti, il divieto di toccare quella privacy è inestinguibile e severo.

Lui lo sa, questo.

Però, lui non è risoluto.

Non è serio.

E il divieto di non infrangere uno spazio che riserva solo me, come se mi avesse rubato la chiave e la roteasse attorno al suo indice, a lui non frega un accidente.

E se mi bruciasse, durante quell'invasione, sarebbe stato pronto a buttarmi l'acqua addosso.

Mi limito ad annuire alla sua domanda. Ma a lui non sembra bastare. Mi guarda come se m'intimasse di continuare, di aprire bocca ed estirpare quel silenzio che mi  imbastisce le labbra.

«Dovresti farti i cazzi tuoi, di tanto in tanto. Non sono cose che ti riguardano, queste.» Sputo fuori, velenoso, per realizzare davvero qual'é la sua deriva, il punto di non ritorno.

Per apprendere a fondo quanto ha intenzione di spingersi al largo della costa, magari con una barchetta di legno pronto a remare fino alla fine del tramonto.

«Lo so, ma hai bisogno di parlarne, o potresti rompertele quelle gambe a furia di tremare.» Ironizza.

«Cazzo, ma per chi mi ha preso? Non sono così delicato, Eijiro. Ti ho detto di farti i cazzi tuoi.»

«Oh, lo so che non lo sei, non c'è bisogno che me lo rammenti.»

«Eijiro, Fatti i...»

«Sí, Kat, L'hai già detto, di farmi i "cazzi miei", sei un pappagallo per caso?»

Mi ha appena dato del pappagallo.

Ho qualche piuma cosparsa per le braccia? Non mi sembra. Perché mi ha dato del pappagallo?

Ah, loro ripeto le parole.

Non lo dico così tante volte, io.

Lo dico il necessario.

Sì.

Il necessario...

«Parlami, ti ascolto, prometto.»

Mi tende la mano.

No.

Non la mano.

Mi tende il mignolino.

E si aspetta che io incastri il mio al suo, come un promessa infantile che incassa una semplicissima, ma difficile, cascata dolorosa di parole.

«Mi aspetto che tu lo ricambi, se no mi offendo.»

Ah, sia mai che si offendesse.

Nonostante questo, non corriamo il rischio, okay?

Avvicino la manina striminzita dal freddo alla sua, e racchiudo le dita all'interno, pendendo il mignolo verso il suo, e lui li avvinghia, col sorriso, scuotendolo per sigillare un... non so nemmeno cosa sia.

Ritraggo la mano celermente, come se mi abbia punto col pungiglione di una vespa, e la infilo dentro il cappotto, al caldo.

Con due fossette fra le guance, mi incoraggia a dirgli di più.

Quello che ho da dire non so se sia semplice, potrebbe incastrarsi facilmente fra le pagine di un libro proibito, o a una brutta categoria di battute schifose e perverse.

Butto fuori un respiro, riscuotendo un coraggio che non mi appartiene per le conversazioni.

«Cosa vuoi detto?» è la prima cosa che riesco a rifilarmi fuori dalla bocca tremolante.

È come quando prima di indossare un profumo per la prima volta, ne spruzzi un po' in aria per sentire di cosa sa.

«Quello che vuoi, è per tranquillizzarti buttando fuori qualcosa che ti tieni incollato dentro, per di più, non sforzarti.» Mi incoraggia.

È un rammarico troppo grande per tranquillizzarmi parlandone.

Non è una cattiva idea, però. Posso sopportare una cosa del genere.

Posso perché l'ho vissuta.

Parlarne non farà male come viverla.

«Ne parlo solo con Denki.»

«Aggiungimi alla lista, allora. »

Lo dice così facilmente, come se fosse un ingrediente saporito da aggiungere ad una ricetta per dolci.

«Okay. Io so già cosa lei deve dirmi.»

Prendo una boccata d'aria, fingendo che i polmoni non pesino più del solito.

«È una cosa che né io né lei vorremmo che accadesse, ma è inevitabile. Solo che ultimamente siamo in freddo ed è difficile parlarle. Non vuole autorizzarmi a fare una visita di cui sento disperatamente bisogno, e lei non lo capisce e crede che il problema sia un altra cosa insignificante.»

«Che visita?» avvicina le ginocchia al petto.

«Non è importante questo.»

Ricordo ancora quando qualche giorno fa, mi trovavo proprio all'entrata di una clinica che a lui risuona particolarmente familiare. Con quella che, ho recentemente scoperto essere sua nonna, e io l'abbia salutata con quel rigoroso vaffanculo, destinato a lei e a Margery dei miei coglioni.

Imbarazzante.

«Non puoi chiedere a tuo padre di accompagnarti?»

Eccola.

Quella bruciatura così sbavata e piena di infezioni, che la cura risulta un infrazione delle regole.

Così vivace ma di vivo non c'è neanche l'ombra di un colore smorto.

Arde al solo sguardo rivolto.

Se scorgi quell'ambita cicatrice profonda potresti morirne alla vista. Come se mille serpenti ti stessero guadando per pietrificarti eternamente.

Come se un tumulto di emozioni contrastassi diventassero frecce feroci con le punte contornate dal veleno di un aspide.

«Non c'è.» lo spingo fuori, immaginando fosse una domanda facile da declinare.

Così semplice da pronunciare e da surclassare.

Così grande e pesante da portare alle spalle ma difficile da buttare giù.

«Non c'è nel senso che sta sempre a lavoro o non c'è nel senso...»

Basta...

Così mi uccidi.

Fermati.

Non sono così forte, io.

*

Mi ricordavo ancora di lui.

Aveva capelli sempre crespi e il classico profumo da uomo adulto che odorava di menta e schiuma da barba, con la serietà che gli calzava a pennello e un impervio tono di voce rude e profonda, con un pizzico di barba castana a contornargli la mandibola

Mi ricordavo le dita calde e un sorriso rigido, con i movimenti austeri e vomitevoli.

«Silenzio, Katsuki, Silenzio e zitto, e tutto andrà bene.»

Era l'unica cosa che conoscevo, il silenzio.

Avrei voluto dirgli che parlare era anche un opzione, che non sarei rimasto in silenzio per il resto dei miei giorni.

Ma non avevo le parole per dirgli le frasi più semplici, come potevo averne per sputare fuori quelle più rivoltanti?

Avevo conservato in me così tanta muta segretezza, che si sbucciò fra di me, quel segreto, perché era così grande che conservarlo come un cesto colto di mele non bastava.

Dirompeva ogni parte di me e mi scagliava contro lance di orrida consapevolezza, e la diga che mi incombeva dentro cominciava a sciuparsi per dilagarsi fuori.

Ma stavo zitto, e cucivo la bocca.

Poi si sedeva a tavola, con un pasto caldo fatto da mamma a confortargli il palato, e quel sorriso pieno di selettività e autorità, mutava in una finzione forgiata con un amore recitato, difronte a lei.

E io lo sapevo.

Ricordavo poco, ma lo sapevo che era finto.

Lo sapevo perché il silenzio era una sottostante baracca alterata nel tempo, che possedeva una consapevolezza troppo matura per un ragazzo di quell'età. Troppo dolorosa da sopportare, troppa paura per affrontarla.

Guardavo il prezzo di qualcuno che aveva giurato "amore" all'altare, il prezzo di qualcuno che diceva che la stava pagando, che i giorni sotto un soffitto bianco che cadeva a pezzi erano una punizione non paragonabile a nessun risarcimento. Ma il vero prezzo, chi lo stava pagando? Lui? Io? Mia madre?

Ero assorbito in un paradosso di una rettificazione che proseguiva verso una via che non era retta, e oscillava verso un corso ondulato di tortuose strade fatte da sbarre di metallo, che anziché imprigionarti ti graffiano la schiena e ti scaraventano al suolo.

Ti contraddici.

Impazzisci.

E lì, per terra, inumidito dal sapore delle lacrime folli, che rimpiangevano anch'esse di non avere un motivo dignitoso per uscire allo scoperto, contorto da pensieri così pudici che rendono te un verme, ti pentivi.

Non sempre il pentimento di un'azione conduceva a un perdono. Se le tue scuse arrivavano ad un accettazione dalla strada opposta, una remissione non era quella che calzava sempre la prima frase che conservavi sulla punta della lingua.

Indossava appropriatamente le ceneri dell'inferno.

Con gli occhi di chi non sapeva cosa stava guardando, e la mani di chi toccava qualcosa che avrebbe dovuto non toccare.

*

Certi ricordi fanno male come se fossero un limbo da ripercorrere all'infinito.

E tu, furtivamente, li stringi per tagliartici, sperando che possano uscire fuori, mentre loro rimangono dentro ad assisterete al tuo delirio, moltiplicando quell'ossessione che ti attanaglia, percuotendoti l'anima fatta di lividi.

«Non c'è nel senso che sta in carcere. L'email parla proprio di lui.» mi ammutolisco, strizzando gli occhi. Nascondendomi dentro il cappuccio, mordendomi le labbra.

Dillo ora che non vuoi più vedermi.

Che fa schifo parlare con il figlio di un viscido schifoso.

Dillo che adesso non mi parlerai più, ti alzerai e non mi cercherai.

Che sia obbrobrioso il fatto che tu abbia parlato con il figlio di un orribile e schifoso figlio di puttana per giorni, e che adesso ti sei pentito persino di aver flirtato con me.

Dillo.

Su.

Che aspetti ancora?

Che aspetto io, a sentirlo?

Non so in realtà, se sia io a volerlo sentire.

Per concretizzare un pensiero che mi sono costruito negli anni.

Un reflusso di rettitudine che incorona un ignoranza che mi assilla la coscienza.

Mi ripudio io stesso, rigettando la mia psiche su assurde congetture costruite da me per anni.

Quindi quello che pensano gli altri non conta, se servisse solo a confermare l'odio.

«Mhm, allora sei arrabbiato con tua madre per questo? Perché non vuole farti fare una visita? Secondo me ti sei espresso male con lei e non ha ben capito quello che realmente ti serve. Prova a richiederglielo con parole più chiare, vedrai che ti capirà.»

*

Piangere per me, nella vita, significava celebrare una convulsione anonima di stranezze che violavano la tua solitudine.

Significava farlo da solo.

Significava arrangiarti, raschiare con le unghie per solcare una montagna, senza una mano che ti aiuti a raggiungere la cima.

Ampliare un varco nostalgico, nonostante ogni lacrima non avesse significato, resta lì come se prendesse polvere e ogni tanto ti costringi a rispolverarla fuori, per darle significato.

Un buio diverso dal vuoto.

Noi eravamo abituati a vedere un vuoto nero e malevolo che risucchiava tutti i chiarori. Io, in quel momento vidi un oblio fatto di luce che inghiottiva tutto il vuoto che c'era.

*

«Katsuki? »

«Perché hai detto questo?» sbatte la palpebre.

Arriccio il naso, incredulo.

Ha davvero detto quello?

Non ci credo.

Non ci credo che l'abbia sorvolato così facilmente. Che non si sia zittito. Che non abbia sospirato o anche solo accennato un...

Impossibile.

«Cosa avresti voluto che io dicessi?»

«Avrei voluto che tu dicessi esattamente quello che hai detto, ma non mi sarei mai aspettato che... Cazzo, veramente non ti importa nulla di quello che ho detto? Non domandi o...»

Sospira, schiocca la lingua sul palato e ritorna a guardarmi con un aria... tutto fuorché comprensiva.

«No, Kat. Non stavano parlando di quello, non mi sembrava giusto cambiare argomento solo per curiosità. Sono serio, secondo me dovresti domandarglielo con calma.»

«Non ce l'ho io, la calma. E comunque aspetterò di fare diciotto anni, ormai. Non mi va più di chiedere tutti i miei cazzi agli altri. Posso andare adesso?» sembra quasi un ringhio timbro infreddolito e tremolante che ricade su tutto il corpo. Con la gola che raschia, che mi grida di aver bisogno di un latte caldo al cacao, come se fossi un bambino.

«Hai detto tutto?» Mi chiede come se mi stesse riprendendo da un rimprovero.

Non c'è niente da rimproverare, qui.

Niente che a te importi.

«Merda, no. Questo ti basta.»

«Non mi hai detto della mail, però.»

Sospiro.

Se avessi le labbra fuori dal cappotto sarebbe uscita una nuvola di fumo.

Il cellulare lo sento vibrare nella tasca, probabilmente è mia madre che mi aspetta. Non lo prendo.

«Non ne sono ancora sicuro al cento per cento. Ma al novanta, circa. Finché non sarò sicuro al massimo non te ne parlo»

Annuisce, mi dice che quando ne sarò sicuro, di inviargli un messaggio, stanotte.

Stiamo in silenzio per qualche minuto.

Le mia dita dentro le tasche iniziano a tremare e sto per alzarmi ma lui mi ferma con la voce.

«Stai un altro po', volevo parlarti di una cosa.»

Mi stringe una coscia con tutta la mano. Col pollice prende ad accarezzare verso l'interno.

Le spalle sobbalzano e il cappuccio mi cade sulle clavicole. Rintano mezzo viso dentro al bavero e adesso anche il naso è coperto. Sbircio qualche occhiata e mi sorride.

Stronzo.

Prima o poi questo figlio di puttana di merda me la pagherà.

Lo odio, lo odio, lo odio, lo odio.

Cazzo, se lo odio.

«Ieri avrei voluto mangiare da solo, con te.» dichiara.

Prima che io possa rispondere, si avvicina ancora un po', con la mano impegnata ad afferrarmi la coscia, nonostante il suo viso non abbia toni di malizia a contornarglielo.

Si estranea dalla gentilezza, qualche volta.

Quel piccolo gesto mi fa sentire come se mi si bloccasse l'aria, come se mi rubasse uno spazio che ho preso per me e che ho prenotato per riservarlo unicamente a me.

Non mi ritraggo, però.

Glielo concedo, di farlo.

Nulla è paragonabile a quello che ha fatto dentro al fast food, e se gli passasse per la testa di replicare quel teatrino, stavolta non credo glielo permetterei.

Perché ho avuto tempo di schiarirmi le idee, e capire le cose realmente come stanno.

«Avrei offerto io, non c'erano problemi.» continua. Una luce soffusa alle nostre spalle gli illumina il profilo perfetto e gradevolmente delineato, come se una vipera avesse raschiato via tutti i suoi difetti con un astioso patto di sangue. E lui indossa quell'aspro veleno perfido ed infantile deliziosamente.

«Non capisco perché diavolo ti ostini a starmi dietro, atteggiandoti in quel modo da gentiluomo, e poi boom, ti trasformi e mi tratti come se ci fosse scritto il tuo nome sopra di me. Devo ricordarti che ci conosciamo a malapena?» Stringo le palpebre e mi volto scontroso verso di lui.

Ho detto la verità. Semplicemente quello che penso. Non c'è stata ironia, nonostante non faccia parte della mia indole.

Forse c'è stata una severità che su di me calza più rabbiosa, rispetto agli altri. Tutto di me s'indossa più profondamente di quello che realmente sia.

Non tace, come mi sarei aspettato. Ha imparato a maneggiare i discorsi più diretti, oppure, già aveva previsto quella che la mia lingua avrebbe fatto uscire.

Ma sarebbe stato sciocco pormela la domanda, se la risposta era destinata ad essere un rifiuto, giusto?

«È estate, no? In estate ci si diverte

Capisco al volo, cosa vuole dire, e gli occhi li sento assottigliare, e le guance spruzzarsi di un rosso intenso non dotato dal freddo.

«Con questo cosa vuoi dire?»

Lo so, cosa vuole dire.

Ma sentirselo dire rende le cose meno fantasiose, e più facile da far riecheggiare come un eco che scacci via lungo lo stipite di una collina.

«Nel senso che mi piacerebbe passare del tempo con te per divertirci entrambi. Senza sentimenti di mezzo.» Non c'è alcun tono perverso, ma si capisce perfettamente di cosa sta parlando.

Stringo piano la pelliccia del cappuccio e me lo riporto alla testa. Le spalle tremano dal fresco, insieme alle labbra che cercano qualcosa di adatto da dire.

«Non credo di poterti accontentare, Eijiro.»

Lo freno, mettendo le cose in chiaro.

Non mi dispiacerebbe accontentarlo, è una verità che neppure a me stesso posso nascondere.

Ma la paura di ustionarmi troppo con il sole di un estate più calda, sorge come una marea troppo movimentata per sostenere una costa appartata.

Uno tsunami dai capelli rossi può essere pericoloso quanto uno tsunami fatto di schiuma marina, sale e sabbia.

E io devo evitarlo prima che una catastrofe possa rovesciarmisi contro, non concedendomi neanche il permesso di arrestare il mio respiro in apnea, realizzando la batosta che avrebbe potuto colpirmi se non l'avessi schivata.

Sono sempre stato un tipo sentimentale, che si possa credere o meno.

Ho perso il conto di quante magliette ho bagnato a Denki, con lacrime così dense da somigliare a lava incandescente, bruciandomi le guance, dando la colpa a una misera cotta non corrisposta.

Lui non sarà una maglietta bagnata del mio migliore amico.

E io non sarò nemmeno il suo giocattolino estivo.

«Posso sapere perché?» Chiede, non velando alcuna trasparenza al suo dispiacere.

«Perché non voglio scottarmi, o attaccarmi a qualcosa a cui non dovrei. È ingannevole limitarsi al contatto fisico quando dietro c'è molto più di quello a cui si possa aspirare, e io voglio aspirare ai sentimenti che ci sono dietro, non solo a carne che si scontra per soddisfare qualche piacere e considerarlo perverso "divertimento".» sputo fuori, schietto. E lo inquadro a sorprendersi a quelle parole. Si morde il labbro e poi sorride come se avesse davanti una squisita gazzella distratta e lui fosse una belva pronta ad averla fra gli artigli.

Sono onesto, ma quel sorriso, per un attimo... riuscirei a rimangiarmi tutto se sorridesse così ad ogni rifiuto.

«Capito tutto, forte e chiaro. Però... se ti avessi chiesto di frequentarci per una futura relazione, quale sarebbe la tua risposta?» domanda, punzecchiandosi il polso dove tiene quell'orologio bianco, ancora con lo stesso identico orario del giorno prima.

«Che ci conosciamo da troppo poco tempo. Eijiro, merda... sono una persona che ha bisogno di tempo, non mi piacciono le cose fatte di fretta. E se posso chiederti di non fare più... quella cosa, te ne sarei grato.»

Sembra capire di cosa io stia parlando.

«Ricevuto.»

«Puoi aspettare, però, che io mi prenda il mio tempo.»

«Non sono una persona che aspetta, Katsuki. Non sai mai cosa può comportare aspettare. È una cosa mia, scusami. Beh, allora ci rivedremo al parco. Ci vediamo.»

"Scusa".

Mi ha chiesto "scusa"?

Ma scusa di cosa, esattamente, che sono stato io a rifiutarti?

Detta come l'ha detta, è come sei mi avesse rifiutato lui.

• • •

Il costoso corredo ricamato a mano si distingue, spiccando su tutto il salotto.

Con i cuscini di seta perlata altrettanto costosi che primeggiano sui bordi del grande divano di velluto color polvere al centro della stanza.

C'è il tavolino in vetro tenuto da due colonne di marmo bianco, con il grazioso centrino, con sopra un grande vaso di cristallo, adornato da freschi fiori estivi appena comprati, che sprigionano una saporita fragranza piacevole.

La trovo lì, lei.

Con la schiena affondata sullo schienale di quel divano, con le gambe accavallate e comoda all'angolo del bracciolo, con una tazza fumante di porcellana.

«Ne vuoi? Ho fatto la cioccolata calda. Con il tempo che è impazzito all'improvviso e il vento gelido che c'è lì fuori ci voleva. Pare anche che pioverà molto, stanotte.»

Annuisco, mentre mi tolgo il cappotto e lo appendo sull'appendiabiti, insieme allo zainetto.

Sotto ho una maglietta leggera e mi sento rabbrividire.

Siamo abituati in questo paesino vicino le montagne agli sbalzi di temperatura improvvisi.

E quando arrivano a me non dispiacciono, perché la sensazione delle coperte di lana sulle ginocchia é gradevole, senza l'aria condizionata che ti fiata sulle gambe.

Lei si alza, con ancora i vestiti della giornata, con le décolleté scure di Saint Laurent, con il piccolo tacchetto che tamburella sul parquet di massello prefinito.

É sempre stata una persona elegante nel vestire.

Ha stile, é sempre ornata di gioielli d'oro che le scendono dal collo bianco e sottile e che decorano i lobi delle orecchie.

É un avvocato, lei, deve averne.

E quando le donne sono avvocati, da come la vedo io, hanno sempre quell'aria seria e altezzosa, ma raffinata.

Ti incutano timore ma senza provare a farlo.

Con il viso spigoloso e gli occhi affilati, a volte la lingua tagliente contornata da un rossetto rosso sangue.

Lei è così. É un casino tremendamente distinto ed elegante.

Uno scarabocchio fatto su un quadro di Caravaggio con le più care delle pitture e con i pennelli col pelo di zibellino.

La descrive con un atroce e divina verità.

Tolgo anche le scarpe e le infilo dentro la scarpiera all'entrata.

Percorro quel tratto breve che separa la porta d'ingresso al salotto dal corridoio e sprofondo sui morbidissimi cuscini del divano.

C'è un calice di rosé accanto al vaso di fiori, con il marchio del rossetto sull'orlo del vetro.

La vedo arrivare, non ha più i tacchi, adesso indossa delle pantofole con la faccia di Winnie the Pooh.

La maschera severa e forte, altezzosa e quasi arrogante fuori.

Ma dentro casa è una bambina col carattere infantile.

Se dentro le rubassero un lecca-lecca, con le più alte delle probabilità frignerebbe chiedendomi di trovare il ladro.

Se succedesse fuori, non mi sorprenderei se gli tirasse il tacco a spillo dritto in testa.

Dentro può permettersi di ridere, di piangere, di crollare e di rialzarsi, sempre con quella classe al dir poco regale che non la surclassa nemmeno nella vita privata, anche se indossa le pantofole di un orso patito di miele.

Lei tace.

Non mi porge la tazza, la appoggia sopra il centrino, con un tovagliolo sotto.

Mi avverte di non toccarla per adesso, che è calda e di aspettare pochi minuti.

Si siede e mi affianca.

Non mi scosto.

I capelli biondo cenere, come i miei, sono racchiusi con una grande molletta.

Non abbiamo avuto problemi di soldi, grazie a lei. Al contrario, è sempre stata la prima a viziare ogni capriccio.

Non ho mai amato particolarmente questa sciccheria.

Non mi piace averla addosso questa finezza fine e quasi pregiata, non amo averla attorno.

La prima volta che Denki é entrato in casa mia voleva trasferircisi e ha dormito nel mio salotto per due giorni.

Solo che poi stava inciampando e per poco non frantumava il tavolino, ma aveva rovesciato il vaso di cristallo.

Non si era rotto, era caduto sul tappeto chiaro indiano di lana di cashmere. Se l'avesse sbriciolato, non so dove avrei potuto trovare una copia esatta di un vaso di cristallo elaborato come quello, senza farlo sapere a mia madre.

«Katsuki.» si schiarisce la gola, appoggia le labbra sulla tazza e beve un sorso.

«Mhm...»

«Tōshirō, il mio collega, quello che sta seguendo il caso di tuo padre, ha preferito inviarmi una mail con tutti i file. Ho parlato con lui poco fa per avere dei chiarimenti e mi ha detto che a settembre, per quattro giorni, tuo padre avrà il permesso di uscita e starà a casa. Non avendo ancora divorziato e io risulto ancora sua moglie...»

«E perché non divorzi, cazzo? Almeno non avremo più niente che ci colleghi a quello stronzo.» la interrompo.

«É complicato, Katsuki, lo sai che è complicato.»

Lo so, lo so che è complicato.

Lo so benissimo.

Ma so anche che fa male che un pezzo di carta di merda li lega ancora nel matrimonio.

Lui no é più mio padre.

Non è più suo marito.

Non è più niente.

Solo un pezzo di carne che respira contro la volontà di tutti.

Un flaccido rifiuto umano che merita di marcire nelle fosse più profonde del cimitero.

Prendo la mia tazza, mentre lei continua a parlare.

«Lui aveva fatta richiesta al giudice, il mio collega essendo il suo avvocato non può negargli certe cose e inaspettatamente il giudice ha accettato, visto che il processo si é concluso più di un anno fa.»

Prendo un sorso di cioccolata che mi scotta le labbra.

«E io starò da Denki, nel frattempo, giusto? Non voglio vederlo, lo sai che non voglio.»

«Lo so, e non mi permetterei mai di costringerti sapendo quanto ti fa male. E io invece starò dalla nonna. Sono solo quattro giorni, Katsuki. Solo quattro, passano in fretta. »

Solo quattro giorni.

Novantasei ore.

Non mi va di contare i secondi.

Sarebbe ridicolo.

«Vuoi dirmi cosa hai con me, ultimamente? Ti prego. Se non stiamo insieme noi due, come faremo ad affrontare tutto?»

Non le rispondo.

Dovrebbe saperlo.

Dovrebbe...

Pensarci.

Non voglio che lo senta dire da me.

Voglio che lei ci rifletta.

Che capisca da sola gli errori che ha fatto.

Forse sono solo cinico o egocentrico.

Forse entrambi.

«Ti prego, Katsuki, ho bisogno di te, e anche tu hai bisogno di me.»

É vero, ne ho bisogno.

Perché resta comunque la donna che quando quel giorno di novembre il mondo le é crollato addosso, lei non è caduta insieme alle macerie, ma è stata ferma in piedi, mentre i massi le si sbriciolavano sulle spalle.

Dopo aver saputo, non ha pianto, non ha aperto bocca. Sapeva cosa fare, ha sbattuto i pugni sul tavolo e si è fatta forza da sola.

Non ha tremato, non ha dimostrato disprezzo, in quel momento.

Ha trattato tutto con la una mostruosa finezza come il suo lavoro le ha insegnato a comportarsi.

Quando è arrivata a casa é stato il vero problema.

Lì si è permessa di sprofondare in un limbo così oscuro che ogni pellicola di roccia che la circondava si sgretolata e ogni barriera che ha emesso in anni di sopportazione si è devastata con una singola demolizione.

Un unico colpo.

Come uno schiaffo sulla faccia così solido e poderoso da ammazzarti.

Poi si è rialzata. Perché non era sola, in quella porta d'ingresso, in una casa che ormai non aveva più lo stesso sapore.

Mi ha guardato e mi ha detto: siamo solo noi due adesso, Katsuki, non hai niente di cui preoccuparti se ci sono io con te.

Mi prese, mi strinse e mi diede un bacio sulla fronte che sapeva di sale e lacrime.

Suonava con l'insipidità amara che il dolore muto conservava.

«Non ho niente. Fai finta che non sia successo niente, Mamma. Vado a dormire, non mi sento molto bene.»

Non la sento controbattere. Lascio la tazza nelle sue mani, e salgo le scale per andare nella mia stanza.

La mi camera è ordinata. Le lenzuola sono pulite e l'odore di fior di pesco e vaniglia punge la punta del naso.

Infilo i pantaloni lunghi del pigiama e mi infilo sotto le coperte.

Prendo il telefono, per scrivere il messaggio.

"100%"

Non aspetto che risponda.

Non aspetto che visualizzi o in casi estremi che mi chiami.

Poso il telefono sul comodino.

Abbraccio il cuscino, e mi addormento, sinceramente, sperando di sognarti, confidando di avere ultime notizie su di te, senza la coscienza che mi rubi l'audacia di pensarti.

Senza la coscienza che possiede solo i ricordi più composti, con l'amarezza capace di soffocare una dolcezza incapace di guarire.

Quella promessa col mignolino, forse, mi ha fatto bene, o forse, mi ha fatto solo male.





«🔆»

•••••••

Che bono vi prego

ALLORA.

Ho saltato un aggiornamento, quello dell'otto settembre.

Ma avevo la febbre a 39 e mezzo.

Io e i miei nonni abbiamo fatto un bel tour all'ospedale e mia nonna é stata ricoverata

Tutta la famiglia in pratica. Qualcuno ci vuole far crepare porca la ma...

E diciamo che al momento la mia salute è calata a picco e spero di non crepare prima di finire questa storia 🤪
(Scherzo, forse)

Continue Reading

You'll Also Like

200K 7.5K 70
«"Dimmi che non è un addio", così lontana ma anche così vicina» ⇨♥ «Lo sapevo che non te sarebbe andata bene, non sei il tipo de persona che da secon...
34K 2.5K 53
Pietro e Beatrice hanno sempre avuto un rapporto complicato. Lo avevano quando si erano appena conosciuti e, due anni e mezzo dopo, la situazione non...
1.6M 50.3K 72
"Moriremo tutti prima o poi, indipendentemente dalla malattia" La mia poteva sembrare una semplice scusa. Ma la verità era che non ero pronta per d...
139K 3.7K 78
perché ho gli occhi molto più cechi del cuore e non sono mai riuscita a vederci amore... rebecca chiesa, sorella di federico chiesa, affronta la sua...