ALL TOO WELL

Door LilithJow

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Ma tu adesso sei di un altro e a me restano soltanto i ricordi. Meer

this thing was a masterpiece.

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Door LilithJow

You
That's what happened, you.

La concezione che gli esseri umani hanno del tempo è strana: il suo scorrere è sempre uguale, eppure viene percepito più lento o più veloce, a seconda del momento.

Delle volte, esso pare fermarsi, in situazioni stressanti ed opprimenti, mentre scorre rapido durante i momenti più belli.

È un benefattore e un tiranno in base alle diverse prospettive.

Sono passati dieci anni dall'ultima volta che ho visto Simone Balestra e mi sembra non sia trascorso un singolo giorno.

Di sicuro, sul suo viso quei dieci anni non ci sono – forse ha fatto un patto col diavolo, chissà.

Lo sto fissando in questo preciso istante, in una stanza gremita di gente, volti che conosco, di alcuni rimembro il nome di altri no, ma tanto il più importante è ben fermo sulle mie labbra.

Simone ha ancora la pelle liscia e candida sul viso, non porta un accenno di barba e magari è questo a non fargli dimostrare per niente i suoi trent'anni; i suoi capelli sono folti, scuri neri come la pece, porta un cerchietto argentato sul lobo sinistro ed è...

Bellissimo.

Non è un aggettivo che gli rende giustizia, dovrebbero inventarlo, coniare una parola apposita per poterlo descrivere.

È bellissimo adesso, lo era dieci anni fa quando l'ho lasciato andare.

Quando ho dovuto lasciarlo andare, per inciso.

In questa immensa stanza con le luci che colorano ogni cosa di un tenue rosso, riesco a vederlo mentre regge un calice di vino in una mano, parla con tre persone che lo circondano e non pare badare a me.

Non troppo, perlomeno: qualche suo sguardo l'ho sentito addosso e ha avuto lo stesso effetto di sempre, devastante e cocente.

L'alcol che ho assunto nell'ora passata in tal posto non è sufficiente ad inibire i miei sensi, ad annebbiare la mia vista. Sono ancora fin troppo lucido e i pensieri affollano fin troppo la mia testa e non mi danno tregua.

Il mio tempo, adesso, è in stallo, occupato dalla musica lieve che si libera nell'aria torbida della serata, mescolata al chiacchiericcio della gente, al rumore di bicchieri battuti per l'ennesimo brindisi.

A quella festa neanche volevo andarci.

È stata Chicca, la mia migliore amica, ad insistere.

Chissà se lei sapeva che ci sarebbe stato pure lui.

Sono quasi certo di sì, addirittura che l'abbia fatto di proposito, ma non voglio essere troppo cinico.

Forse il ricordo è ancora tanto vivido per me, però per lei è scomparso.

Per te è scomparso, Simone?

L'ho perso di vista, lo stavo pensando troppo.

I remember it all too well.

«È buffo trovarci qui, non trovi?»

Torna prepotente la sua voce a colpirmi i timpani. Scavalca il rumore degli altri presenti, la musica e il tintinnio delle stoviglie.

Compio mezzo giro su me stesso e ce l'ho davanti. D'improvviso, la camicia bianca che indosso mi pare troppo stretta, ho caldo e le guance avvampano.

Mando giù a fatica della saliva e no, per davvero, l'aggettivo bellissimo non gli rende giustizia.

«Ciao», è la prima ed unica cosa che riesco a biascicare, sbattendo rapidamente le palpebre.

Lui sorride appena.

«Ciao», ripete. Fa una breve pausa e beve un sorso di vino bianco che ha fermo nel calice.

Io lo farei tutto d'un fiato, ma il mio è finito.

«M'hanno invitato» mi scuso sebbene non ne abbia motivo. È la verità, ho ricevuto un messaggio un mese prima per quell'evento, un galà di beneficenza al quale posso soltanto far presenza, che mi ha costretto a indossare abiti eleganti e a tagliare i capelli.

«Sì, funziona così» lui ridacchia «non puoi entrare, altrimenti.»

«Lo so.»

«Saranno passati—quanti? Dieci anni?»

Dieci anni, due settimane, tre giorni, quarantadue minuti e diciotto secondi, per l'esattezza.

«Sì, più o meno» borbotto – credo di soffocare e il mio sguardo punta ovunque, eccetto il suo viso.

«Sembra ieri.»

«Seh, pe' te de sicuro.»

«Perché?»

«Perché pe' te non pare passato n'anno.»

«Pure per te, se per questo.»

Ne sono lusingato, ma a me gli anni pesano come macigni sulle spalle – probabilmente a causa delle occasioni perse.

E poi perché ne ho qualcuno in più di lui e dopo i trentacinque è tutto ancor più in discesa.

Dispiego le labbra un sorriso composto, un briciolo malinconico, triste.

Simone continua a fissarmi con il capo appena inclinato su di un lato.

«Sei qui con qualcuno?» mi chiede.

Mi affretto a far cenno di no con la testa, però dopo mi correggo: «Con un'amica,» biascico «Chicca, non so se te ricordi.»

«Sì che la ricordo» lui ride «c'aveva beccato una delle prime volte a casa tua.»

Non riesco a decifrare il suo tono di voce: ha l'aria di essere tranquilla, come quando qualcuno racconta un vecchio episodio che è soltanto quello, qualcosa di abbandonato nel passato, in un capitolo precedente ormai concluso, da tirar fuori di tanto in tanto durante una conversazione casuale.

E non comprendo perché ciò mi provoca una fitta di dolore al centro esatto del petto.

Per me non si è mai chiuso nulla e ricordo fin troppo.

«Già, sì, è vero» dico, per circostanza, giusto per non restare muto. Scruto la punta delle mie scarpe lucide per un breve istante. «E tu?» mi pento subito di aver posto quel quesito, temo la risposta.

«Io cosa?»

«Sei—sei qui con qualcuno?»

«Sono da solo.»

Per mia fortuna, il responso non è così devastante e mi fa tirare un sospiro di sollievo.

«Sai cos'altro è buffo?» parla ancora.

«Che altro?»

Simone amplia il sorriso. «Qui dentro nessuno sa che dieci anni fa eravamo nel bel mezzo di uno scandalo.»

Dovrei ridere al pensiero, al ricordo di quel periodo, però accade il contrario: mi guardo intorno come se qualcuno potesse sentirci – è improbabile, data la confusione; serro la mandibola, teso. Devo prendere un respiro profondo per non andare in apnea.

«Magari qualcuno sì» borbotta e fingo un colpo di tosse.

«Era bello, mh? Io e te.»

L'aria incamerata nei polmoni vien meno.

Allora lo ricordi.

«Era bello per quanto fosse proibito, visto che eri il mio professore.»

«Ero l'assistente» mi affretto a precisare.

«Quel che era.»

«Beh, è diverso.»

Lo è per davvero, perché sì, sono più grande, ma non così tanto, perché la situazione era complessa per una serie infinita e contorta di motivi, perché poi, alla fine, si è rovinato tutto.

Alla fine, ho rovinato tutto.

Ci vuole maestria a trasformare una cosa bella in qualcosa deteriorata e a pezzi.

Io sono stato bravissimo in quello, eppure Simone non pare serbare rancore nei miei confronti.

Non troppo o perlomeno io non riesco a decifrarlo dalla sua espressione.

Ammutolisco.

I suoni danno l'impressione di attutirsi fino a scomparire e quel silenzio che sento viene spezzato al tono flebile della sua voce, dalla visione di lui che si sporge nella mia direzione e sussurra: «Io sono al Palace Hotel, camera 730.»

Fa un passo indietro con un sorriso ancora stampato sulle labbra.

Non sono in grado di proferire parola, di fermarlo, di replicare in qualche modo.

Mi lascio travolgere dal brusio intorno che torna prepotente, che rischia di farmi scoppiare i timpani, mentre Simone sparisce tra corpi di sconosciuti che a noi non badano – non più.

You kept me like a secret,
but I kept you like an oath.

Manuel Ferro è – ed è sempre stato – il mio punto debole.

Non ho mai provato a combattere questo aspetto, mai tentato di tenerlo lontano.

Mi sono lasciato trasportare fino a sprofondare nei suoi occhi scuri e socchiusi, nel suo mezzo sorriso, nei ricci castani e scompigliati nei quali ho desiderato affondare le dita dal primo momento che l'ho visto.

Sapevo, allora, quanto fosse sbagliato, fuori luogo ed inopportuno.

Me lo dicevano tutti, mi suggerivano di lasciar perdere, che sì, era l'assistente del professore, aveva qualche anno in più e andava lasciato perdere, per la mia carriera universitaria e un'infinità di motivi che rendevano la cosa sconveniente.

Perché Manuel Ferro mi sorrideva durante gli esami che davo, poi mi trascinava in bagno quando nessuno poteva vederci e a me sembrava di toccare il cielo con un dito.

Ma Manuel Ferro portava una fede all'anulare e io non rientravo nei suoi piani per quel futuro che, in fondo, nessuno dei due ha mai potuto avere.

Non insieme.

Quando l'ho visto alla festa, stasera—ecco, non so con esattezza cosa mi sia passato per la testa. Per qualche secondo, sono stato indirizzato verso l'ipotesi di ignorarlo, far finta che non esistesse e basta.

Tuttavia, come già appurato, è il mio punto debole e non ho resistito.

Per cui, adesso, sono seduto sul bordo del letto matrimoniale con le coperte rimboccate in maniera impeccabile, i pugni stretti sulle cosce, ad attendere da solo qualcuno che potrebbe non arrivare.

Sono le due di notte.

Perché dovrebbe venire?

Forse ho sbagliato ad essere così impulsivo e sfacciato, a dare per scontato che gli interessasse, forse...

Un leggero bussare alla porta mi desta.

Scatto in piedi con il groppo in gola. Il primo istinto mi conduce a fiondarmi ad aprire. Mi fermo davanti all'anta, con una mano a mezz'aria.

Una voce dentro alla mia testa mi convince ad aspettare, a contare fino a trenta prima di appoggiare le dita sul pomello e girarlo.

Manuel è davanti a me, ha sbottonato il colletto della camicia bianca e i suoi capelli sono più spettinati rispetto a prima.

Vorrei parlare, proferire parola, però tutto ciò che faccio è scansarmi per permettergli di varcare la soglia.

Osservo la sua figura compiere quel gesto, cauto. Ricordo ancora a memoria i suoi movimenti, il suo ciondolare ogni tre passi, il modo in cui oscilla troppo con le braccia quando cammina.

Chiudo la porta alle mie spalle, prendo un respiro profondo.

«Non credevo venissi davvero» oso mormorare.

Manuel si ferma al centro della stanza. Non mi guarda, non subito. Soltanto dopo qualche secondo vedo la sua testa girarsi leggermente e riesco a scrutare il suo profilo.

«Seh,» gracchia «c'ho messo du' ore pe' decidere.»

Avanzo nella sua direzione. Percepisco il battito del mio cuore persino nelle tempie e sto sudando anche se non fa caldo.

«Credevo...»

La mia intenzione di parlare viene subito messa a tacere poiché Manuel stringe il mio viso tra le mani e preme la bocca sulla mia.

È un bacio famelico, smanioso, dove i nostri denti cozzano e le lingue che si intrecciano.

La memoria richiama persino i gesti durante un simile evento, ad esempio il suo mordermi il labbro inferiore, il suo sfregare i pollici suoi miei zigomi.

Per diretta risposta, c'è il mio abbandonarmi al suo tocco, al calore del suo corpo che attira il mio e mi fa sciogliere.

Mugolo qualcosa in quella dolce prigionia e tortura alla quale fatico a sottrarmi. Cerco di farlo, premendo i palmi sul suo petto, ma dura poco – pochissimo – e mi arrendo.

Abbasso le armi, quelle che, a conti fatti, non ho mai posseduto: gli permetto di spogliarmi, di strapparmi di dosso i vestiti – per davvero, considerando che i bottoni della mia camicia saltano e finiscono sul pavimento.

Mentre la sua bocca ancora mi assale e mi impedisce di respirare in maniera corretta, percepisco la sua mano che abbassa la cerniera dei miei pantaloni e i suoi polpastrelli accarezzano la mia erezione già presente, di cui non mi sono accorto e che avrei evitato – non era in programma.

Non ho previsto niente di tutto ciò.

Non ho previsto di finire nudo in un letto con Manuel Ferro, dopo dieci anni, a concedergli di nuovo di farsi spazio dentro di me, nel mio corpo e nella mia mente.

Non l'ho previsto, i punti deboli non smettono mai di essere tali.

Maybe this thing was a masterpiece
'til you tore it all up.

Osservo la figura di Manuel di spalle, mentre è davanti alla finestra aperta con soltanto i boxer azzurri addosso e una sigaretta accesa, retta tra indice e medio.

I suoi contorni sono così familiari e paiono immutati nel tempo: la linea delle spalle, i fianchi sottili, i bicipiti definiti.

Magari sono tornato indietro di dieci anni senza rendermene conto.

Magari, invece, non sono mai andato avanti da quel capolavoro che pareva avessimo creato, finché tutto non è stato distrutto.

Finché tu non lo hai distrutto.

«Non porti più la fede.»

Soffio quella frase ancora sdraiato a letto, con una guancia premuta sul cuscino, immobile in posizione prona.

Lo vedo girare di pochi centimetri il capo nella mia direzione e soffiare il fumo verso l'alto. «Ce semo lasciati» dice.

«Stavolta per davvero?»

«Pe' davvero.»

Mi viene da ridere, sebbene non ci sia nulla di divertente. Uno strano peso mi preme al centro del petto, ragion per cui mi tiro su a sedere. Appoggio la schiena contro la spalliera morbida del letto e accartoccio il lenzuolo sul mio grembo al fine di nascondere una parte del mio corpo privo di vestiti.

Manuel schiocca la lingua sul palato. Spegne la sigaretta consumata per metà nel posacenere bianco abbandonato sul comodino di legno accanto al letto.

«So' serio» ribadisce. È più vicino, adesso.

«Buon per te.»

«Perché dici così?»

«Perché me lo hai promesso così tante volte che è difficile crederti.»

«Me lo rinfacci ancora? Dopo dieci anni?»

«Certe cose non si scordano.»

È probabile che Manuel abbia scambiato tale invito come una mia mancanza di rancore.

Non è così: è difficile che scordi determinate cose. Di certo non dimentico il modo in cui lui mi ha messo da parte e mi ha preso in giro, riempiendomi di scuse assurde soltanto per non macchiarsi l'immagine da buon uomo e perfetto marito.

«Se ce l'hai tanto con me, perché mi hai detto di venire qui stasera?»

Trattengo il respiro – di nuovo – e abbasso lo sguardo sulle mie nocche che ho cominciato a torturare con le unghie.

«Perché ti ho visto in giacca e cravatta e ho pensato di ignorarti,» biascico «come ho fatto da quando mi hai lasciato perché era la cosa migliore» cito le sue frasi dell'epoca «perché c'ho 'na vita, Simò, questa cosa non doveva esistere sin dal principio. Ho cercato di ignorarti, ma non ce l'ho fatta. Non ce la faccio mai se si tratta di te, hai qualcosa che mi attira e mi intrappola senza che io possa impedirlo.»

Mi sfugge un'altra risata e allora i miei occhi si posano nuovamente sul suo viso. «Hai sempre detto questa cosa come se fosse—di poco conto, di poco valore. Facevamo le cose di nascosto, mi concedevi le briciole e io mi illudevo che, prima o poi, avrei avuto di più. Mi illudevo perché mi riempivi di promesse, solo che non—non ne hai mai mantenuta una, Manuel.»

Mi passo una mano sul viso, intanto che una solitaria lacrima solca una guancia. Non analizzo la sua reazione, non vorrei mi facesse più male di quanto ho messo in conto.

Maybe we got lost in translation.

Non si è dimenticato.

Al contrario, ha annotato ogni cosa, ogni particolare, ha pesato e calibrato ogni parola che mi è uscita di bocca e non ho la possibilità di difendermi.

Posseggo già la consapevolezza di aver distrutto tutto per la mia codardia, per quella mancanza di coraggio che ancor oggi mi fa provare rimorso e dolore.

Il mio cuore perde un battito.

È strano sentirsi dire quelle cose dopo aver fatto l'amore, dopo dieci anni, dopo aver fatto incastrare i nostri corpi come se non fosse trascorso un singolo giorno.

«Non è mai stata una cosa così» la mia voce gracchia.

In quella stanza c'è poca luce, ma riesco lo stesso a scorgere quella lacrima che gli macchia il viso. Provo l'impulso di allungare la mano per asciugarla, però desisto.

«Mai,» ripeto «eri di più, tu—sei di più.»

Sono sicuro che non mi creda e non lo biasimo. Del resto, non gli ho mai dimostrato di esser degno di fiducia dopo averlo distrutto così tanto.

Prendo posto sul letto, sul materasso morbido e le lenzuola che abbiamo stropicciato.

«Se ero di più, perché—perché non l'hai mai lasciata per davvero? Perché mi dicevi di sì, ma poi lei c'era sempre e...»

«Eri uno studente, Simo. Rischiavo di più, molto di più di un matrimonio che naufragava.»

«Potevamo aspettare la fine dei miei studi e poi uscire allo scoperto, invece hai deciso di scappare. Avevamo qualcosa di bello, di magico, eravamo un capolavoro io e te e hai deciso di ridurre tutto in macerie.»

Lo so, lo so, lo so.

Perché continui a dirmelo?

Chiudo per un breve istante gli occhi come se ciò mi servisse ad assimilare e farmi passare sopra a quelle parole più velocemente.

«Se potessi tornare indietro, non lo farei, non te tratterei così» sussurro «scapperei con te senza nessuna scusa. Il problema è che non posso torna' indietro.»

Sarebbe bello poter riavvolgere la propria vita, analizzare gli eventi e aggiustare gli errori.

L'esistenza di tutti prenderebbe una piega diversa, non ci sarebbero vincitori e vinti, cuori spezzati o sogni infranti.

Se avessi il potere di controllare il tempo, invece di subirlo e basta, probabilmente non avrei spezzato è ridotto a brandelli quello di Simone.

Il suo cuore sarebbe ancora intatto senza i miei errori.

«Non voglio che pensi che non abbiamo mai avuto niente» vado avanti «che per me non ha mai significato nulla perché tu sei stato tutto

Protendo una mano nella sua direzione e sfioro il dorso della sua con la punta delle dita. Lui non si ritrae.

«Sei ancora tutto.»

Non attendo una sua possibile reazione, parlo prima che ciò possa verificarsi, mantenendo un contatto con la sua pelle adesso gelida: «Ho tenuto la sciarpa, quella che hai lasciato a casa mia una delle ultime volte che ci sei stato, quella che mi hai detto di conservare perché...»

«Così ti mancavo meno.»

«Così mi mancavi meno» faccio da eco e le mie labbra assumono la curva di un sorriso. «Ha fatto un discreto lavoro in tutti 'sti anni, il profumo tuo c'è rimasto sopra pe' mesi.»

Sposto la mano sul suo viso, sfregando un pollice sul suo zigomo. Per reazione, lui inclina di più il capo per premere il viso contro il palmo.

«Anche se adesso non ce sta più er profumo,» dico, con un fil di voce «ma lo conosco a memoria, me lo ricordo così bene che lo riconoscerei tra mille.»

«Pallista» mi rimbecca. Il suo tono, però, risulta meno piccato e accusatorio; pare essersi addolcito o forse è solo una mia impressione.

«So' serio pure mo'» replico «e me dispiace pe'—pe' le promesse che non ho mantenuto, pe' non essere venuto alla festa del tuo compleanno, pe' ave' fatto le cose nel modo sbagliato con te.»

Non mi sono accorto di come Simone si sia proteso verso di me. La distanza che ci separa si è notevolmente ridotta e io tocco ancora il suo viso.

Schiudo le labbra per poter aggiungere qualcosa, ulteriori scuse per azioni passate di cui mi pento.

Non riesco a farlo.

E lui mi bacia.

Preferisco i suoi baci a parole che ora non contano più niente.

«Sei in ritardo di dieci anni» soffoca lui «per le scuse.»

«Mi dispiace» riesco a biascicare, con la sua bocca premuta contro la mia.

Nella mia testa vorticano i ricordi, come i suoi messaggi sul telefono il giorno del suo compleanno, io che arrivo a festa già finita, lui che mi detesta, io che non riesco a rimediare.

Non sono mai riuscito a rimediare.

You call me up again just to
break me like a promise.

Facciamo l'amore per la seconda volta quella notte, con la finestra schiusa dalla quale entra una leggera brezza di metà autunno.

Il tempo, tiranno e bastardo, scorre troppo veloce, accelera nei momenti belli e io vorrei tanto fermarlo.

Non mi è possibile, mi scivola via come sabbia tra le dita.

E siccome non posso trattenere il tempo, stringo Simone più forte a me, in quel letto a due piazze con le lenzuola sgualcite.

Gli permetto di appoggiare la testa sul mio petto, mentre io gli accarezzo la schiena e trovo quei nei che formano nuove costellazioni che negli anni non ho potuto vedere formarsi.

Sono le sei del mattino, il sole sta per sorgere. Sono già visibili i suoi lievi raggi dai vetri sottili.

«Possiamo fare n'altra festa» la mia proposta giunge senza preavviso, mi esce fuori di bocca senza pensarci troppo; «te giuro che questa non me la perderei.»

Lui abbozza una risata. «Non faccio più ventuno anni» borbotta.

«Beh, ne fai trentuno, è lo stesso.»

«Due.»

«Che?»

«Ne faccio trentadue a marzo.»

«Ma che dici...»

«Stai già perdendo colpi? Sei uno vecchio sei.»

Per pronta reazione, gli tiro un pizzicotto sul braccio. «Possiamo farla lo stesso,» dico «la festa, con tanti palloncini, la torta a tre strati col cioccolato e il liquore e le candeline.»

«Tutte rosa?»

«Pensavo rosse.»

«Pure rosse vanno bene.»

Simone solleva il capo. Vedo la sua espressione rilassata, un riflesso di felicità mentre la malinconia viene cacciata via.

Quasi mi convinco che sia tutto risolto, che seppur dopo dieci anni, dopo esserci allontanati stupidamente così tanto, la situazione tra noi si possa aggiustare.

Possiamo avere ciò che ho distrutto.

Vedi? Lo ricostruiamo insieme.

Il tempo non si può controllare e la speranza è ciò che uccide più in fretta.

Mi uccide vedere il cambiamento dei suoi tratti, ove la felicità svanisce e fa spazio al rimpianto, all'angoscia, alla rassegnazione.

Non chiedo che succede, cosa è cambiato in pochi secondi.

Però lui si sposta di poco, allunga un braccio ad aprire uno dei cassetti del comodino accanto al letto.

Ne estrae qualcosa che, in un primo attimo, non riconosco, almeno finché non torna nella posizione iniziale; regge tra due dita un anello d'oro.

Sono di nuovo in apnea.

Sei di qualcun altro.

«Si chiama Dario, ci—ci siamo sposati l'anno scorso.»

È il mio cuore ad essere a pezzi adesso.

Capisco come si è sempre sentito lui quando eravamo qualcosa che io mai ho voluto definire.

La speranza uccide, l'illusione la aiuta.

Perché mi sono illuso che potessimo rimediare e stare finalmente insieme, io e lui, senza più errore.

Come ricordavo.

Come tutti i nostri ricordi belli.

Simone infila la fede all'anulare. Il suo sguardo è di nuovo su di me e i nostri occhi sono sofferenti.

È ingiusto come due persone che si amano non possono avere un futuro uniti, ma sono costretti a separarsi per qualche motivo.

Per il tempo.

Per il tempismo.

Perché non sono capaci a dirselo.

«È un brav'uomo» mi racconta e non mi interessa, vorrei urlargli, ma resto zitto - «ha la tua età, più o meno, fa l'avvocato. E stiamo bene, abbiamo comprato casa in periferia, è una villetta a schiera con due camere in più perché vogliamo adottare dei bambini.»

Non mi interessa, non voglio saperlo, vaffanculo.

«Sono felice pe' te.»

Riesco a mentire egregiamente, spero che nulla di diverso traspaia dal mio viso.

È paradossale udire tale conversazione intanto che siamo nudi e abbracciati, intanto che sento il suo odore addosso e nelle mie narici.

Ma tu adesso sei di un altro e a me restano soltanto i ricordi.

It was rare, I was there,
I remember it all too well.

«Simo, devi spegnerle!»

Sto fissando la fiammella sulle candeline da eccessivi secondi tanto che la cera del tre e del due rischia di colare.

L'intimazione di Dario mi riporta alla realtà.

Sbatto in fretta le palpebre e soffio così da spegnere le candeline sulla torta a tre strati di panna e fragole.

Un applauso dei pochi presenti si solleva nella stanza. C'è mio marito, ci sono i nostri amici Laura e Giulio, ci sono i miei genitori Dante e Floriana e dei conoscenti di Dario di cui fatico a ricordare il nome e che, di sicuro, mi avranno regalato qualcosa di inutile come una camicia azzurra o una penna.

Tiro un sorriso per ringraziare.

Il giorno del proprio compleanno dovrebbe essere lieto e, di solito, negli ultimi anni, per me lo è stato: ho festeggiato, delle volte mi sono ubriacato ed è sempre stato piuttosto divertente.

Ma il mio trentaduesimo compleanno ha un impatto diverso.

Possiamo farla lo stesso, la festa, con tanti palloncini, la torta a tre strati col cioccolato e il liquore e le candeline.

Non ho più sentito o visto Manuel da quella notte, da quando ha aspettato mi addormentassi e ha abbandonato la stanza in silenzio, senza lasciarmi un biglietto, un numero di telefono, qualcosa.

Mi ha abbandonato di nuovo nel vuoto e, nolente, son tornato alla mia vita di sempre, quella che mi sono costruito senza di lui.

Così adesso sono nel bel mezzo di una festa di compleanno che non desideravo, con la mente rivolta a Manuel Ferro e l'ennesima promessa che non ha mantenuto.

I remember it all too well.

«Sei sicuro di star bene?»

«Sto bene, te l'ho detto.»

«Mi sembri strano.»

Laura è soltanto preoccupata. Lo è sempre, per me, è come una sorella in perenne ansia e desiderio che niente di brutto accada.

«Sicuro?» insiste «guarda che se vuoi parlarmene, io ci sono.»

«Lo so, tranquilla.»

Lo so per davvero. C'è stata in tutti i miei momenti peggiori, c'è stata dopo Manuel, mi ha portato fuori a svagarmi quando per giorni mi sono chiuso in casa, sotto le coperte, non mangiando e bevendo, lasciandomi semplicemente andare.

È stata la mia ancora, il mio faro in mezzo alla tempesta e non la ringrazierò mai abbastanza.

Vorrei dirglielo, esternare quell'affetto che lei conosce e che io reputo scontato.

Mai nulla lo è.

Bisognerebbe dirsi ti voglio bene più spesso, per imparare a pronunciare ti amo migliori.

«Io...»

Le mie parole si bloccando quando scruto qualcosa alle sue spalle, oltre il vetro della finestra con le tende bianche aperte per metà. È una frazione di secondo, dura pochissimo; corrisponde ad un lieve movimento al di fuori.

Non può essere.

Un po' tremo.

«Scusami un attimo» dico.

Laura non capisce.

Nemmeno io mi capisco, figuriamoci lei.

Mi muovo in fretta verso la porta, la apro con uno scatto e in quel momento non mi sto soffermando sulle ipotetiche conseguenze, sulle spiegazioni che dovrei inventare, sulle scuse patetiche che dovrei tirare fuori.

Per un attimo, mi scivola tutto addosso poiché convinto che nel porticato troverò qualcuno.

Troverò lui.

Prego affinché ciò avvenga anche se mio marito mi sta guardando uscire da casa per motivi all'apparenza inesistenti, col fiato corto e le palpitazioni.

Eppure quando varco la soglia, capisco che la mia mancanza di respiro è inutile.

Non c'è nessuno.

Non c'è Manuel.

Me la prendo con quella parte di me che si è illusa ci fosse. Mi reputo uno stupido, ancora una volta.

Mi passo una mano sul volto per camuffare le poche lacrime che mi hanno bagno le guance e una risata nervosa sfugge dalla mia bocca.

«Simo, stai bene?»

Me lo chiede Dario, dietro di me e dentro casa.

Non mi volto nella sua direzione perché sul mio viso si leggerebbe troppo.

«Sì, io... avevo bisogno di un po' d'aria. Torno subito, non preoccuparti.»

«Sicuro? Ti porto dell'acqua?»

«Sono sicuro» gli rivolgo uno sguardo fugace, giusto per rassicurarlo «arrivo, uhm? Così apro i regali, io— arrivo subito.»

Dario tentenna per qualche secondo, poi accorda la mia richiesta e lo vedo scomparire dentro casa, per tornare dagli ospiti.

Non sto bene, ovviamente; mi sento morire.

La speranza mi ha quasi ucciso.

Lascio scorrere dei minuti in modo che il mio cuore riprenda a battere con un ritmo normale.

Sono pronto a rientrare quando un particolare che non ho notato mi blocca. Ci sono due gradini che conducono al porticato della mia abitazione, piuttosto alti. Sotto di essi, sul viale in pietra che conduce alla strada, scorgo una scatola arancione, rettangolare; non vi è nessun fiocco, nessun lustrino, solo una scatola monocolore e anonima.

Le mie mani tremanti la raccolgono e tolgo il coperchio in maniera più che lenta.

Sfioro del tessuto rosso e morbido con i polpastrelli. Credo di aver capito di che si tratta e per tal motivo sono di nuovo a corto di fiato.

C'è un biglietto fatto con un foglio stropicciato a righe all'interno del pacco. Lo stringo tra indice e pollice per poter leggere ciò che vi spicca sopra ad inchiostro blu:

Te ne ho comprata un'altra.
Le sciarpe ti stanno bene.
Ma io conservo la tua, ha ancora un po' del tuo profumo o immagino sia così.

M.

Il mio sguardo guizza sulla strada, sul marciapiede, conscio del fatto che Manuel non può essersi allontanato tanto in così poco tempo. Avanzo sul viale trascinando i piedi.

E in effetti è così: non si è volatilizzato.

Forse è rimasto per assicurarsi che ricevessi il suo regalo.

Scorgo la sua figura, in piedi sul marciapiede opposto.

La poca luce presente proviene dai lampioni che costeggiano la carreggiata, ma io conosco a memoria i suoi contorni e ciò basta.

Non so se lui mi veda meglio, se riesca a vedere il mio viso oppure no.

Non ne ho idea, ma le mie labbra sillabano un «Ti amo» che a lui ho rivolto poche volte per paura che potesse essere di troppo, che potesse essere affrettato o lo potesse atterrire al punto di fuggire.

Che stupido, è fuggito lo stesso.

La sua faccia non sono in grado di vederla, però lo osservo portarsi un palmo al cuore, il che ha il medesimo significato.

Rimaniamo come due stupidi, separati da una strada deserta con la luce dei lampioni che non ci rende giustizia, a fissarci e a dirci che ci amiamo in silenzio.

Abbandoniamo quell'amore ad un ricordo perché soltanto quello possiamo concederci.

Non ci siamo mai permessi altro, pur essendoci promessi il mondo intero.

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