MAPS

By LilithJow

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Gli alunni della 4^B sono troppo impegnati a commentare le scritte sul muro della vergogna. Hanno scattato de... More

PROLOGO - LA MAPPA DELLA VERGOGNA
NEGAZIONE
SEGRETO
LUNA
INTIMITÁ
RIDERE
MOSTRI
AFFONDARE
DAFNE
ERRORE

CONFESSIONE

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By LilithJow




Dire la verità dovrebbe, in linea teorica, corrispondere quasi sempre alla via giusta, quella che sistema le cose.

Tuttavia, capita, a volte, che sia necessario mentire per preservare un equilibrio instabile dentro al quale si svolgono le vite delle persone.

Da quando ha confessato la verità a suo padre, il mondo di Simone pare esser collassato su sé stesso - perché a nessuno interessa sentire la sua versione della storia, le sue ragioni, i motivi che lo hanno spinto a fare determinate cose, a prendere delle decisioni.

A nessuno importa approfondire la verità, si appigliano al fatto che il possessore del blog è Simone Balestra e nulla di più.

In quei dieci giorni o poco meno, nemmeno una persona gli ha chiesto spiegazioni o ha avuto qualche dubbio su di lui.

Da scuola, Simone è stato sospeso con obbligo di frequenza, che è quanto di più deleterio possa esserci, soprattutto quando chiunque, in quel liceo, adesso lo odia.

Lo odia persino Chicca, che lo guarda male ed evita di fare incrociare i loro occhi.

E lui ha paura di fare o dire qualunque cosa, dal momento che le voci nei corridoi sono sempre più forti e non riesce a sopportarlo, non più.

È vero che il rumore che fanno le parole spesso è troppo forte e acuto per essere tollerato.

Quella mattina, poco prima del suono della campanella, Simone è seduto sul muretto davanti all'edificio scolastico.

Regge in mano una busta bianca, contenente due cornetti. Non ne mangerà nemmeno uno.

Sono dieci giorni che ne compra due, inutilmente, perché non saprebbe a chi donare il secondo – perlomeno, lo sa, ma la persona destinataria di quel dono lo ignora.

Gli sembra di essere invisibile, ma al contempo troppo visibile, un bersaglio verso il quale scagliare ogni briciolo di rabbia e rancore.

In lontananza, vede passare Chicca, in compagnia di Laura e Luna. Fa un cenno nella loro direzione, con il capo, ma le ragazze gli rivolgono soltanto un'occhiata tagliente e varcano la soglia del portone.

Simone incassa quel colpo – quello, come molti altri.

Vorrebbe andare a casa.

Lo farebbe, se potesse, invece è costretto in quel posto, un luogo che si è trasformato in una prigione, un inferno, che peggiora quando si trova in classe, tra i bisbigli e gli sguardi accusatori da parte di tutti.

La situazione precipita pure nell'intervallo, quando Simone prende il suo caffè lungo con tre pallini di zucchero, compie qualche passo e due individui – non sa chi siano, forse amici di Michael, forse no, non ha importanza – lo affiancano, gli fanno rovesciare con poca cautela la bevanda calda sui pantaloni e il maglione verde, poi fuggono via, borbottando: «Coglione!».

La parte peggiore è che nessuno interviene, non viene difeso o compreso.

Fa tutto schifo.

È diventato solo ciò che ha fatto, definito da un gesto sbagliato, senza che qualcuno provi a capire.

Non ha senso.

Non ha senso come la gente si lasci influenzare, sentendo una singola campana, come accetti per vera una sola versione, come non provi a vedere le sfumature di quanto accaduto e cancelli qualcuno per amor di una errata giustizia morale.

Ben presto, i suoi vestiti emanano un forte odore di caffè e ancora gocciolano, sporcando il pavimento.

Simone si china per poter raccogliere il bicchiere ormai vuoto. Quando rialza il capo, davanti si ritrova un volto conosciuto.

Manuel è di fronte a lui, regge un fazzoletto di carta tra le dita e glielo sta sporgendo.

Per quanto voglia accettare quel suo gesto cordiale, Simone non può evitare di rivolgergli un'occhiata truce, arrabbiata, trattenere poi le lacrime e scansarlo, allontanarsi. Raggiunge in poche falcate il cestino di plastica rigida, per lasciarci dentro il bicchiere della bevanda che non ha potuto consumare.

Esamina l'ambiente attorno, spaesato.

Dentro a quella prigione non pare esserci un posto sicuro e ci sono spine che possono fargli male ovunque.

«Simò».

La sua voce rimbomba in quel corridoio, nonostante il chiacchiericcio da sottofondo; quell'ala, comunque, è pressoché deserta, escludendo gli studenti di passaggio.

Simone si irrigidisce, stringe i pugni lungo i fianchi e, di nuovo, Manuel è al suo cospetto.

«Senti...» arriva alle sue orecchie, ma lui scuote vigorosamente la testa, lo frena. «Che—che vuoi da me?» gracchia.

Vorrebbe tenere un tono più fermo, però non ne è capace.

Manuel si morde piano il labbro inferiore, abbassa per mezzo secondo lo sguardo. «Volevo solo...» prova ancora.

«Cosa?» Simone lo interrompe «Che volevi? Che...».

«Sapere come stai» è la risposta «volevo solo—sapere come stai».

Gli sfugge una risata, intrisa di isterismo e frustrazione. «Io ho detto la verità perché me lo hai chiesto tu», soffoca «l'ho fatto solo per questo, solo per... e pensavo – che stupido, pensavo avresti fatto qualcosa, che saresti rimasto al mio fianco, visto che tanto decanti di esserti innamorato».

«Simo...».

«No, vaffanculo! Ho detto la verità per dimostrarti che non sono un mostro, ma—ma nessuno mi ha ascoltato, nessuno mi ha chiesto perché. Per quanto io possa spiegare il motivo di ciò che ho fatto, a nessuno interessa. Io sarò sempre quello che gestisce il blog che ha mandato in ospedale Matteo. Niente di più».

Manuel ascolta le sue parole in silenzio. Fatica a guardarlo negli occhi, quasi si sentisse in colpa.

Di fatto, è un po' così.

Di fatto, è logorato dalla perenne sensazione di averlo abbandonato quando ne aveva più bisogno, di aver guardato da lontano mentre subiva cattiverie che non meritava.

Non sa nemmeno perché si sia frenato, il motivo per cui non è stato una spalla, un appiglio a cui reggersi.

Quindi, rimane immobile, non proferisce parola, frattanto che Simone gli riserva l'ennesima occhiata truce e si allontana in malo modo.

Quella giornata, seppur pesante, scorre e finisce.

Simone corre fino alla sua Vespa: la carrozzeria bianca è stata graffiata; non sa da chi, non sa quando, ma non gli interessa.

Sale sul mezzo dopo aver indossato il casco e sfreccia via prima che altri alunni riempiano lo spazio davanti alla scuola.

È esausto e allo sbaraglio.

Vorrebbe andare a casa, ficcarsi sotto le coperte, piangere fino ad addormentarsi, stremato.

Tuttavia, a casa troverebbe Dante, le sue rassicurazioni sul fatto che aggiusteranno tutto, che un po' hanno senso, un po' risultano inutili dal momento che non può cambiare ciò che la gente pensa di lui con uno schiocco di dita.

Può soltanto esserne schiacciato.

Per cui, tra le carreggiate trafficate di Roma, cambia direzione.

Si indirizza verso un luogo preciso, con gli occhi che gli bruciano e il fiato corto.

È la medesima sensazione di soffocamento che lo accompagna, in seguito, nei corridoi del policlinico Gemelli, al terzo piano, laddove Matteo è ancora ricoverato.

L'orario di visita è al limite, però è soltanto allora che è sicuro di non trovarci nessuno.

Si ferma sulla soglia della porta della camera, scorgendo il compagno di classe in un letto singolo; ce ne sono due, quello di fianco è vuoto e sgualcito, forse l'altro paziente è in bagno o a fare qualche esame – ancor meglio, sono davvero soli.

Matteo non si accorge nell'immediato della presenza di Simone, il quale esita qualche minuto prima di entrare, coi pugni stretti lungo i fianchi.

È la prima volta che si reca lì.

Lo hanno sempre fermato prima, Chicca gli ha addirittura urlato che non ne aveva diritto.

Matteo volta il capo con lentezza. È sdraiato con due cuscini a reggergli il busto, dei punti sul sopracciglio sinistro e la gamba destra ingessata. Le sue labbra si dispiegano in un sorriso alla vista dell'altro ragazzo.

Simone ne è stranito: considerando la reazione degli altri compagni, si aspettava giusto un sonoro va all'inferno, di sicuro non un sorriso.

Pensa che, forse, sono gli antidolorifici ad offuscare il suo giudizio.

«Stai—bene?» si costringe a chiedere, con un briciolo di incertezza.

Matteo scrolla le spalle. «So' stato mejo de sicuro» replica, abbozzando una risata «e so' 'na frana co' le stampelle».

Simone muove qualche passo distratto e confuso. Si ferma davanti ai piedi del letto e poggia le mani sulla sbarra di ferro, quasi ciò servisse a reggerlo in piedi.

Il senso di colpa non lo ha abbandonato in quei giorni, ha gravato su lui, spinto dagli sguardi accusatori a scuola.

«Io...» bofonchia «mi dispiace, per—per quello che è successo, io non volevo che...».

«Seh, non è colpa tua».

«Sei il primo che lo dice».

«Eh, allora se sbajano gli altri».

Non ne è molto convinto. Scuote il capo.

Matteo comprende il suo stato d'animo – tutto, fino alla fine. «Simò...» sussurra «Davvero, non... non te prende tutte le colpe».

«Le ho».

«Hai scritto tu quei commenti? O inviato quei messaggi?».

«Ho fatto quel post».

«Chiunque lo avrebbe fatto al posto tuo, pure chi ti fa 'a morale».

«Sì, ma...».

«Non me meritavo ciò che è successo» esordisce Matteo «lo so, ma certe cose te fanno vede' er mondo da una prospettiva diversa».

«Che prospettiva?».

«Una ben diversa» sbuffa una risata, priva d'entusiasmo. «Io so' stato uno stronzo, con te e con molte altre persone e l'ho capito quando ho toccato il fondo quanto stavo sbagliando e quanto le mie parole, i miei gesti, i miei commenti sotto un post... quanto tutto ciò potesse fa' male».

In silenzio, Simone lo ascolta. Avrebbe tante cose da dire, in realtà, tipo che poteva rendersene conto prima, che l'effetto domino si può evitare, se ci si impegna, che, magari, allora hanno sbagliato entrambi, hanno sbagliato tutti.

Tuttavia, non esterna mezza frase. Resta zitto, mentre una parte dentro di sé è grata che almeno una persona, oltre suo padre, non ce l'abbia con lui.

Non crede che questo risolva le cose, che alleggerisca il suo senso di colpa, la rabbia dei compagni di scuola, quella di Manuel.

Non manda via nulla.

Simone è ancora in balia di una tempesta che ha creato lui stesso e che gli è sfuggita di mano e ora non sa come fermarla.

«Alcune parole possono distruggere una vita intera» sussurra «anche se non sembra così, anche se sembrano cose innocue. Rimangono echi, stralci di frasi che rimbombano nella tua testa pure quando non vorresti».

«Lo so» Matteo lo frena «certe cose che ho letto stanno nella mia testa ogni minuto de ogni giorno».

«Spero vadano via».

«Lo spero anche io».

Quella conversazione non va avanti per molto, non ne ha occasione a causa della fine dell'orario di visita.

Simone si congeda promettendo a Matteo di tornare ancora una volta, quando sarà solo – che i compagni o la visione dei suoi genitori non è qualcosa che può sostenere.

Quando torna a casa, il silenzio di villa Balestra lo culla per un breve istante, quando è in camera sua, immerso nell'oscurità, col computer rotto abbandonato sulla scrivania e la portafinestra lasciata socchiusa.

***

Il giorno dopo, si ripete la scena di tutte le mattine dell'ultimo periodo: Simone seduto sul muretto davanti alla scuola, che osserva gli altri ragazzi che si indirizzano verso il portone dell'edificio, dentro al quale lui sarà l'ultimo ad entrare.

Di solito, il ragazzo rimane fermo, immobile, a trattenere il fiato e a tollerare per quanto possibile ogni sguardo ed ogni mormorio che gli giunge alle orecchie.

Ad un tratto, tuttavia, nota Laura giungere da sola ed è una delle rare occasioni in cui la vede in solitaria e non accerchiata dalle amiche; presume che insieme si facciano manforte l'una con l'altra e che abbiano deciso di evitarlo ed escluderlo.

Ma Laura è una sua amica, è la prima persona a cui ha confessato la propria sessualità, che gli vuole bene.

Non può essere sparito tutto.

Così con un balzo scende da quel muretto e gli sono sufficienti poche falcate per raggiungere la ragazza.

«Laura!» la richiama. In un primo momento, la sua voce non sembra bastare, pertanto Simone accelera il passo, riesce a raggiungerla, a frenare il suo cammino tenendola per un braccio.

«Oh, Simo...» sussurra lei, stringendosi nelle spalle e abbassando lo sguardo «Tutto okay?».

«Per niente» replica il ragazzo, abbozzando una risata nervosa «È tutto... un casino».

Laura corruccia le labbra in una smorfia. «Sì, è...» fa per dire, ma Simone la precede: «Ce l'hanno tutti con me e da una parte li capisco, ma io vorrei solo... che qualcuno mi ascoltasse, che le cose non sono come credono, se solo... se solo si fermassero, io potrei spiegare, potrei dire come sono andate le cose».

«Non credo che la gente cambierebbe idea se sapesse che hai avuto le credenziali solo dopo».

«No, ma...» Simone vorrebbe concordare, però il suo cervello si blocca, congela, e lui viene fulminato da una consapevolezza che ha sempre escluso.

Non ha rivelato a nessuno di aver avuto accesso al blog a posteriori; nessuno, eccetto Dante e Manuel.

Cerca di non giungere a conclusioni affrettate, di non farsi divorare dal panico. Resta in silenzio, coi suoi occhi grandi che pian piano si svuotano.

Laura non decifra la sua assenza di suono, interrotta dalla campanella che trilla. «Devo andare» si congeda e allontana in modo rapido.

Il pensiero, comunque, non lo abbandona, non lo fa per tutte le lezioni che seguono alle quali non riesce a prestare attenzione.

Simone cerca di placcare Laura in più occasioni durante quella giornata, sempre con scarsi e nulli risultati.

Alla fine, consumato da un tarlo che non sa cacciar via, raggiunge casa della ragazza.

Quel posto, con l'ampia gradinata, le mura consumate e tinte di vari colori, è sempre stato un po' speciale per lui: è il luogo dove per la prima volta ha ammesso ad alta voce di essersi innamorato di uno come lui, è un pezzo del suo cuore.

Adesso si trova davanti al portone di legno color noce. Ha già premuto il pulsante del citofono, non ha ottenuto risposta. Decide di aspettare.

Può attendere pure fino a sera quel confronto.

E lo fa, per un'ora intera.

Un'ora e dodici minuti prima che Laura faccia la sua comparsa, con la borsa della palestra retta su una spalla.

Simone è appoggiato al sedile della sua Vespa parcheggiata quando la vede arrivare. Assume una posizione eretta, con i pugni stretti lungo i fianchi.

La ragazza gli rivolge solo un cenno col capo, pare ignorarlo, mentre si rigira le chiavi tra le dita e non sembra avere intenzione di fermarsi e parlare con lui.

«Come sai delle credenziali?» esclama allora Simone. Cerca di tenere un tono fermo, di non far notare che sta tremando dentro e fuori.

«Cosa?» replica lei.

«Le credenziali di quel blog del cazzo! Come sai che le ho avute dopo?».

«Gira la voce. Non è così?».

«Non gira nessuna voce, lo avrei saputo e... la gente non mi tratterebbe così se girasse 'sta voce».

«Come vuoi, Simo. È tardi, mia madre mi sta aspettando e...».

Frattanto che parla, Simone gli si è avvicinato. Si ferma al suo cospetto, a pochi centimetri di distanza.

«Sei stata tu».

Non è una domanda, non c'è incertezza nella pronuncia di quella frase.

Lo sa.

Lo ha realizzato dal suo sguardo, dal suo evitare il proprio, dall'espressione irriconoscibile e lontana che scorge dipinta sul suo volto.

Laura è una sua amica.

Conosce Laura da così tanto tempo da reputarla quasi una sorella.

Si deve correggere: Laura era una sua amica.

Smette di esserlo nell'istante in cui un sorriso piega le sue labbra e lascia trasparire soddisfazione, crudeltà, sentimenti che, di norma, non le sono mai appartenuti.

D'improvviso, quel luogo che tanto stava a cuore a Simone, diviene un inferno.

Ed è assurdo come un posto che ha significato tanto, che ha rappresentato un rifugio, possa diventare qualcosa da cui fuggire, stare lontano, un cumolo di macerie, di fuoco e di fiamme.

Devastazione e desolazione.

«Perché?» è l'unica domanda che viene fuori dalla sua bocca, un sussurro flebile con la voce rotta – un po' come il suo cuore, un po' come la sua anima.

L'espressione sul viso della ragazza è dura e decisa. «Perché è una vita che vieni giustificato» dice «ed è una vita che ferisci le persone che hai intorno e non chiedi mai scusa. Hai ferito un sacco di gente e non hai mai chiesto scusa».

«Non è vero».

«Tu non te ne accorgi, non ti rendi conto della devastazione che lasci dietro di te quando passi, di come ti comporti, ciò che dici, ciò che fai. Ti comporti come un'anima pura, quando sei quello che ce l'ha più sporca di tutti quanti».

«Non...».

«Hai costretto un ragazzo a stare chiuso in casa per un anno» incalza lei «e non ti è mai passato per la testa di andare da lui e scusarti e aiutarlo e ammettere che sei stato uno stronzo».

A Simone trema il petto. «Lo hai fatto per lui?» biascica.

«L'ho fatto per tutti» Laura è gelida e acida, stringe i denti «e sapevo ti saresti lasciato prendere dal nuovo giocattolino perché sei vendicativo e meschino e crudele». Fa due passi indietro e allarga le braccia con fare plateale. «Adesso hai solo ciò che meriti».

«Ma posso dirlo alla preside, posso dire...».

«Non hai alcuna prova e loro hanno la tua confessione. Ti sei fregato da solo, come fai sempre».

Simone non replica, non ne è in grado.

La realizzazione di ciò che è successo lo ha portato allo sbaraglio e può soltanto osservarla allontanarsi e varcare la soglia del portone, mentre un nuovo opprimente silenzio lo inghiotte.

***

È mezzanotte passata quando Manuel sente bussare energeticamente alla porta e un po' ne è spaventato.

Non crede possa essere sua madre, lo ha avvertito che avrebbe dormito fuori per quella notte.

Si alza dal letto un briciolo intontito, a piedi scalzi si trascina all'ingresso e scruta dallo spioncino chi lo sta disturbando a quell'ora.

Nemmeno si sorprende nel momento in cui riconosce chi si trova dall'altra parte.

Prova l'impulso di non aprire, di lasciare Simone sul ballatoio finché non sarà abbastanza stanco per andarsene.

Tuttavia, tale esitazione dura solo qualche minuto; poi si arrende, fa scattare la serratura e spalanca l'anta.

Non è stato in grado di notarlo prima, ma Simone ha gli occhi gonfi e arrossati – si vede anche se la luce è poca e soffusa; trema, ha il fiato corto, è sudato e dei ricci si sono incollati alla sua fronte.

Manuel schiude le labbra, vorrebbe chiedergli il motivo che lo ha spinto lì, domandargli di nuovo come sta o cosa è successo, però resta muto, a guardarlo con apprensione.

«Io ho bisogno di te» esordisce Simone. Anche la sua voce è scossa, gracchiante. «Ho—ho bisogno che mi stai vicino pure se mi odi, ho bisogno che mi abbracci e che mi dici che le cose si sistemeranno perché... perché io non ce la faccio. Io... io ho bisogno di te perché non voglio essere solo, non... non voglio, non... ti prego, non lasciarmi solo».

È una supplica, probabilmente persino patetica, eppure non riesce a farne a meno.

Che è stato allo sbaraglio per ore dopo la conversazione con Laura, ferito e a pezzi, ha cercato un nuovo posto che potesse essere un riparo, un luogo di conforto e ha ben presto realizzato che non c'era, non esisteva una meta verso la quale dirigersi.

Però c'era Manuel.

Però c'è Manuel.

Però c'è sempre – e c'è sempre stato – Manuel.

«Ti prego...» implora ancora.

La rabbia di Manuel, in quei giorni, si è talmente affievolita da essere scomparsa.

Non dura neanche un secondo, non resiste ad allungare una mano e posarla sulla sua guancia. Tira via con un pollice le lacrime copiose che gli scorrono sul viso. Annuisce, frattanto che un ennesimo «Ti prego» soffia dalla bocca di Simone.

Manuel lo attira a sé, lo stringe in un abbraccio, aggrappandosi alla sua giacca sulla schiena.

In quel gesto, Simone si sente a casa, al sicuro, protetto, come se avesse finalmente seminato le macerie che gli sono crollate addosso per tutte le precedenti ore.

«Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace» cantilena e piange. Non ha mai smesso. Lo ho fatto in giro sulla sua moto per le strade di Roma, seduto su una panchina in un parco pieno di urla di bambini, mentre si graffiava le mani e il cuore rischiava di esplodere nel suo petto.

«Shh» sussurra Manuel, tenta di essere rassicurante e lascia un delicato bacio sulla porzione di pelle scoperta del suo collo.

«Manu...».

«Non sei più solo».

La mezzanotte è passata da poco: ci sono due ragazzi nella penombra, che si abbracciano e stringono sulla soglia della porta, in un'assenza di suono rotta soltanto da sospiri e da lacrime che pian piano si asciugano.

Permangono in quella posizione per dei minuti interi, interminabili.

Di tanto in tanto, Manuel fa spostare il peso dei loro corpi da un piede all'altro, facendo dondolare entrambi sul posto.

Nessuno dei due pare aver voglia o forza di spostarsi.

Nessuno dei due vuole lasciarsi andare.

Simone, poi, non è mai stato bravo nel lasciare andare.

«Lo so che significa» dice, sottovoce, con il naso affondato nell'incavo del suo collo a inebriarsi del suo odore di sapone neutro.

«Cosa?» replica Manuel, in un soffio. Sta tracciando delle linee verticali tra le sue scapole, con il medio e l'indice sfiora piano il tessuto.

Verrebbe meglio sulla sua pelle nuda, pensa.

«La luna», mormora Simone «ogni volta che dici che è bella, ogni volta che mi dici di guardarla».

Fa una breve pausa. Non gli occorre una conferma, che l'altro approvi la sua teoria.

Forse, lo ha sempre saputo il reale significato di quella frase.

La luna è bella stasera che ti amo.

Scosta appena il capo, solo di quale centimetro, intanto che si aggrappa di più a lui quasi potesse cadere e riversarsi sul pavimento all'improvviso.

«Stasera è bella luna?» gracchia, a palpebre socchiuse.

Manuel accenna un minuscolo sorriso. «Stasera è bellissima la luna».

***

Simone resta in quell'appartamento fino all'alba.

Ha inviato un messaggio a Dante per non farlo stare troppo in pensiero, sotto il saggio continuo di Manuel.

Ha dormito nel suo letto, con i suoi indumenti addosso – anche se i pantaloni sono un po' corti e la maglietta bianca gli sta stretta sulle spalle.

Dorme nel suo letto avvinghiato a lui, inebriandosi del suo odore, del suo calore, di quelle che carezze che mancano da giorni – che, però, sono sembrati mesi, un tempo troppo prolungato.

Se ne bea in quel momento, mentre dei tiepidi raggi di sole filtrano dalla finestra, attraverso le tende tirate.

Stesi sul materasso, Manuel ha il busto tenuto leggermente rialzato da due cuscini; Simone è sdraiato accanto a lui, su di un fianco, appoggiando la testa sul suo petto.

Il battito del suo cuore lo culla, una melodia in grado di calmarlo; è riuscito persino a mandar via i mille pensieri, le parole dette da Laura, il suo sguardo tagliente e le sue violente accuse.

Vorrebbe restare in quella posizione per il resto della giornata; sa che non può, che deve per forza andare a scuola per evitare ulteriori guai.

Perlomeno, non dovrà affrontare quelle ore in completa solitudine.

«Vuoi fare colazione?» chiede Manuel, in un soffio.

«Non ho molta fame».

«Qualcosa devi mangiare, se no non ti reggi in piedi». Giocherella con un riccio dei suoi capelli, lasciandolo attorcigliare intorno a due dita. «Ti faccio il french toast, mh?».

Simone solleva il capo e arriccia il naso, in cenno di diniego.

«Facciamo a metà» insiste Manuel. Parla a voce bassa, è un leggero sibilo quasi avesse paura di fare troppo rumore, di rompere la bolla di sapone dentro alla quale si sono chiusi per quella notte.

«Metà?».

«Sì, metà». Sposta la mano, gli accarezza il viso, sfregando il pollice suo zigomo. «Con tanto caffè, così resti sveglio».

Simone si sta già perdendo quei discorsi sulla colazione. In effetti, il sonno lo ha avvolto per poche ore e ne ha perso parecchio nelle notti precedenti; il suo corpo ne sta risentendo alquanto, cerca di ignorare la stanchezza, mentale e fisica.

«A scuola me li rovesciano addosso la maggior parte delle volte» biascica, d'un tratto.

A sentirglielo dire, Manuel si rabbuia; d'istinto, si sporge nella sua direzione per depositare un bacio sulla sua fronte scoperta.

Simone socchiude gli occhi. Accoglie quel gesto come ulteriore cura sulle proprie ferite.

«Non so se smetteranno mai di odiarmi per quello che ho fatto o di considerarmi una persona orribile».

«Non—non sei una persona orribile» lo rassicura Manuel. Nasconde che, all'inizio, lo ha pensato, accecato dalla delusione e dalla collera: non c'è bisogno di rimarcarlo in quel momento. «Hai fatto qualcosa di sbagliato, ma questo—questo non ti rende orribile».

«Laura pensa che sono una persona orribile».

«Chi se ne frega di quel che pensa Laura».

«Lo ha creato lei» confessa Simone «il muro prima, poi il blog».

«Che?».

Annuisce. «Per—fare giustizia a Pin, per le cose successe lo scorso anno. Io c'entravo, c'entravamo tutti e allora...».

«Allora se l'è presa solo co' te?».

«Io sono stato quello peggiore».

Manuel si ricorda bene ciò che è successo l'anno precedente, durante la festa di Halloween: rimembra gli scherzi che tali non erano, il video dell'umiliazione di Pin che per un po' è circolato nelle loro chat di WhatsApp, la scomparsa da ogni radar del ragazzo successivamente e i tentativi di farlo tornare a scuola da parte di Dante.

Se lo ricorda e non crede che l'unico colpevole sia Simone.

Lo sono stati tutti.

«Lo devi dì alla preside» esordisce «devono interromperte la sospensione, devono...».

Continuerebbe la frase, ma viene bloccato dalle labbra dell'altro ragazzo che si premono sulle proprie. Lo ammutolisce con un bacio che serve ad entrambi per respirare un briciolo meglio.

Dura poco, qualche secondo.

Quando si stacca, Simone sfrega la punta del naso contro la sua.

«Possiamo—possiamo pensarci dopo il french toast?» soffia «Per favore».

Supplica di interrompere quel discorso perché ha paura che la testa potrebbe esplodergli, altrimenti.

Fintanto che è in quel letto, in quella casa, con lui, vuole lasciare il resto fuori.

E Manuel comprende la sua richiesta. La accoglie e accorda, facendo cenno di sì con la testa. «E il caffè» aggiunge.

Il french toast viene un po' bruciato sui bordi, ciò nonostante Simone apprezza poiché non mette nello stomaco qualcosa di solido da almeno due giorni.

Finisce anche la metà che, tecnicamente, era riservata a Manuel, il quale è lieto di cedergliela, così come gli cede altri vestiti per il giorno, andando a sostituire quelli sporchi di caffè e zucchero.

Anch'essi a Simone non stanno granchè bene, essendo la taglia diversa, però gli donano conforto.

Ha messo una maglia a maniche lunghe grigia, con sopra una felpa coi bordi arcobaleno e il cappuccio; i pantaloni sono neri, gli fasciano le gambe e lasciano scoperta una parte delle caviglie.

Si fissa allo specchio a figura intera che è posto in un angolo della stanza: ha le occhiaie scure che gli marcano il volto, i capelli umidi per la doccia calda e veloce che ha fatto poco prima e risulta terribilmente stanco.

Lo è, del resto.

«Te stanno 'n po' piccoli».

La voce di Manuel gli arriva soave alle orecchie. Volta il capo di qualche centimetro, per vederlo già con la sua giacca militare addosso, mentre raccatta lo zaino da terra e se lo posiziona su una spalla.

«No, vanno bene» replica Simone.

Sanno di posto sicuro.

Sanno di te.

Manuel gli si avvicina, fermandosi davanti a lui. Aggiusta il bordo della felpa - un lembo è caduto oltre la spalla. Lo fa con una cura e attenzione quotidiana che non ha mai creduto potesse appartenergli.

«Sicuro che vuoi andare?» esclama «Possiamo anche inventarce 'na scusa».

«Ho l'obbligo di frequenza».

«Te puoi sempre da' pe' malato. Per la faccia che c'hai, manco dovresti fingere».

Simone è conscio che quello sia un modo per alleviare la tensione che incombe e grava su di loro come un macigno. Tuttavia, scuote il capo. «No, va bene» attesta «posso farcela. Ci sei tu, no?».

«Ce sto io».

***

A scuola ci arrivano insieme, sulla moto di Manuel.

Per tutto il tragitto, Simone si stringe a lui più che può; tiene le mani attorno al suo busto e nasconde il viso nel suo collo quando sono fermi al semaforo.

Manuel lo lascia fare, non gli impedisce quei gesti; al contrario, lo apprezza.

Gli chiede se è tutto okay, se sta bene e Simone annuisce e basta.

Certo che la situazione non è risolta, pensa che sia appena iniziata e che, con molta probabilità, accadrà qualcosa di peggio, ma fintanto che sono insieme, crede di poterlo affrontare.

È più leggero e appena più calmo anche quando arrivano davanti all'edificio imponente, dove ci sono già molti dei loro compagni di classe e ragazzi di differenti sezioni.

In modo inevitabile, gli sguardi dei presenti ricadono su loro due.

Simone li percepisce addosso quando si leva il casco dalla testa e scende dalla moto.

Anche quelli, però, hanno un peso minore.

Delle occhiate se ne rende conto anche Manuel in pochi secondi. Ha rimosso il proprio, di casco, sistemandolo sotto alla sella.

Si sporge di qualche centimetro nella direzione dell'altro ragazzo. «Vuoi dar loro qualcosa de diverso di cui parlà?» sussurra al suo orecchio.

In un primo momento, Simone non capisce a che cosa Manuel si riferisca, troppo impegnato a fissare amici e sconosciuti intorno, a far incrociare lo sguardo con quello di Laura e a frenare l'impulso di puntare il dito e scaricare ogni responsabilità.

Sbatte le palpebre e annuisce, così, senza chiedere ulteriori informazioni.

Le labbra di Manuel si curvano appena verso l'alto. Sfiora il suo mento con due dita, gli fa sollevare il volto. «È bella la luna» dice e non è una domanda, non c'è nessun quesito che aleggia nell'aria.

Simone trattiene il respiro e Manuel lo bacia sulla bocca, lì, davanti alle finestre del Da Vinci, con gli alunni del liceo che chiacchierano e poi ammutoliscono.

La luna c'è lo stesso anche se la luce del sole la sovrasta; osserva due ragazzi che si amano davanti a tutti, incuranti di ogni sguardo, di ogni risata, di qualsivoglia genere di commento.

Manuel infila una mano tra i capelli di Simone, all'altezza della nuca. Lascia che i suoi ricci si impiglino alle dita, una danza tra falangi e ciocche morbide al tatto.

Di riflesso, Simone posa i palmi sui suoi fianchi; lo fa con leggera esitazione, come se dovesse chiedere permesso e lo ottenesse con qualche secondo di ritardo.

Non si aspettava ciò, di certo, però ne è felice.

È lieto e, davvero, riesce a sopportare tutto il resto.

«È bella la luna» biascica, ancora sulle sue labbra.

Gli sguardi intorno sono scomparsi, insieme alle loro voci.

È rimasta solo quella di Manuel.

È rimasta quella di Simone.

E le loro voci, insieme, sono bellissime.

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