Emily

Par BeatriceArtai

2.9K 108 486

Dixon Foster è un razionalista che non ha il dono della fantasia. Eppure, quando la sua coinquilina Emily spa... Plus

Prologo
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4

Capitolo 1

189 27 84
Par BeatriceArtai


L'ultima volta che vidi Emily aveva ventitré anni ed era bellissima. Qualcosa come una vita fa. Credo di essermi innamorato di lei dal primo giorno, fin da quando mi aprì la porta di casa e mi sorrise con l'asciugamano in testa e l'acqua che le grondava tutt'intorno lasciando piccole pozze sulla sua moquette. Non mi ci volle molto ad abituarmi alle sue stranezze. In capo a un mese le consideravo già degne di un personaggio uscito dalla penna di Truman Capote e in capo a due erano diventate le mie stranezze preferite. Un tipo insolito, una persona molto complessa. Il più delle volte mi piaceva la sua compagnia, voglio dire prima di tutto, prima che accadesse. Dopo, iniziavo a sentirmi a disagio con lei, a volte mi faceva paura ed era del tutto naturale. Mi aspettavo da un momento all'altro di entrare a far parte del suo incubo. E l'ho fatto! A mio modo marginalmente, ma l'ho fatto.

Non mi piace la piega che stanno prendendo i miei sogni e i miei pensieri. Spesso mi chiedo se io abbia mai davvero incontrato una ragazza di nome Emily Sommers e perfino se sia mai esistita una con quel nome. Il commento di Barbera non fa altro che girarmi nella testa e invariabilmente lo associo all'immagine di Emily che ho stampata davanti agli occhi: «Emily chi?»

Spero abbia ragione lui. Potrebbe essere un'invenzione e non mi stupirei se qualcuno me lo dicesse, nata dalla fantasia di un vecchio costretto ormai su una sedia tutto il giorno senza neanche il privilegio di strapazzare ogni tanto i nipoti. Verrebbe da domandarsi se anche loro siano il frutto della mia fantasia, ormai. Vengono una o due volte all'anno a trovarmi e in quelle occasioni confesso di non sapere se il disagio più grande sia il loro o il mio. Si guardano e parlano tra di loro come se io non fossi affatto presente. Parlano a bassa voce, ma io non sono sordo. Immobile sì, ma non sordo.

«Che palle, non vedo l'ora di andarmene!»

«Che puzza questa stanza.»

«...E perché, il vecchio? Dio come puzza!»

Li sento, io! E li vedo! Cosa credono, che il fatto di non potermi più muovere faccia di me una specie di vegetale privo di sensi? Per forza puzza questa stanza! Non posso alzarmi e arieggiare quanto vorrei e quella stupida infermiera fa a malapena il suo lavoro quando la mattina mi porta quello schifo di caffè di orzo con quei toast dall'odore insopportabile quanto questa stanza. Quanto a me, questo è un odore che nessuna vasca può togliermi di dosso: è l'odore della vecchiaia.

Io non do tutta la colpa a quelle piccole pesti. In fondo, la colpa è del loro padre. È lui che non ha saputo inculcargli un minimo di rispetto per me. Non parliamo poi dell'affetto. Quella è una parola che ho tagliato fuori del mio vocabolario una trentina di anni fa, forse anche di più.

Il fatto è che mio figlio è sempre stato molto... autonomo, diciamo. Fin troppo. Ha un lavoro di tutto rispetto e di questo sono fiero. È ingegnere aerospaziale ed è spesso in viaggio. Sua moglie Sandra dirige una galleria d'arte contemporanea ed è una donna molto occupata. Il loro lavoro impegnativo è il motivo per cui sono qui: chi si sarebbe preso cura di me? Dunque, se mio figlio non ha avuto troppi problemi a schiaffarmi in questo posto, perché i miei nipoti dovrebbero andare per il sottile?

Continuo a ripetermi che in fondo è anche giusto, che io ho vissuto la mia vita e che ora sono gli altri a dovere vivere la loro. Senza intralci, senza vecchi che puzzano tra i piedi. Giusto! Se mi guardo indietro, però, che vita ho vissuto? Non ho affetti da ricordare con nostalgia, magari versando qualche lacrima di tanto in tanto.

Mia moglie, che Dio l'abbia con sé e mi riservi una singola in un altro albergo quando mi chiamerà, è morta da quasi vent'anni. Non ci siamo mai veramente amati. Ci siamo forse rispettati e abbiamo messo al mondo un figlio. Lei lavorava nel ristorante che le aveva lasciato suo padre e io arrotondavo il magro stipendio di insegnante dando ripetizioni ad alcuni studenti. Per loro ci sarebbero voluti grossi calci in culo, ma non ero certo io a dissuaderli dal venire da me per le lezioni private. Spesso le loro famiglie erano piuttosto danarose e quei pochi soldi in più servivano per il mutuo visto che Margaret, mia moglie, è sempre stata di manica larga.

Il ristorante rendeva bene, ma alla fine del mese restava ben poco di quei soldi. Albert doveva avere il meglio! Le migliori scuole, la migliore università, gli sport più costosi. A volte mi chiedo se Creso le sarebbe bastato come marito.

Naturalmente cercavo di dissuaderla, di farle capire che in fin dei conti Albert era il figlio di un umile insegnante e di una ristoratrice, ma Margaret s'infuriava quando toccavo questo tasto. Aveva riversato tutte le sue ambizioni su suo figlio e non voleva che usufruisse di normali strutture come i ragazzi del suo ceto sociale. A sentire lei erano tutti degli sbandati. Non faceva altro che portare come esempio quei poveri disgraziati dei figli dei nostri vicini, i quali non avevano fatto certo una buona riuscita. Io ero perfettamente cosciente che non era stato certo per colpa delle scuole pubbliche che erano finiti disoccupati e senza una prospettiva futura, ma Margaret insisteva che se fossero stati seguiti non si sarebbero ritrovati in quel modo. Più "seguiti" per lei significava coperti di vizi e soldi.

Grazie al cielo Albert non era uscito fuori un babbeo viziato e buono a nulla. Non per farmene un vanto, ma credo di avere lavorato sodo affinché non diventasse anche peggio dei figli dei nostri vicini, per i motivi opposti. Ho sempre chiarito con lui che i lussi concessigli dalla madre erano il frutto di duro lavoro e che per me sopportare tutto ciò era l'unico modo di avere un po' di pace in famiglia. Ad Albert non è mai sfuggito il fatto che io lavoravo fino a tardi per compensare quel fiume di soldi in uscita. Anzi, lui stesso durante gli anni di liceo ha imposto a sua madre la sua collaborazione saltuaria al ristorante con la scusa di volere contribuire al bilancio familiare. Era stata una bestemmia, la sua, alle orecchie di Margaret. Quale bilancio? Non c'era motivo di preoccuparsi. Noi avevamo tutto ciò di cui c'era bisogno e anche di più. Comunque, quando Albert si metteva in testa una cosa era peggio di sua madre e non c'era lotta. Riuscì a spuntarla malgrado lei si sentisse estremamente umiliata per il fatto che i suoi conoscenti vedevano il suo unico figlio, il suo genio, con un grembiule da cameriere a servire ai tavoli. Naturalmente l'umiliazione era solo nel suo povero e piccolo cervello, ma durante i quattro anni in cui Albert diede una mano al ristorante, Margaret non fece altro che sospirare e mugugnare. Ovviamente contro di me. Era colpa della mia modestia, del mio lavoro. Non avevo ambizioni e le impedivo di fare di Albert un uomo diverso da me. Lui non poteva finire in uno squallido college a insegnare per pochi spiccioli!

In questo riuscì nel suo intento. Dapprincipio, Albert fu attratto dall'insegnamento, ma a lungo andare prevalsero le ambizioni di sua madre. Ed eccolo lì: un uomo dalla brillante carriera, freddo e cinico e con un grosso conto in banca, come sarebbe piaciuto a mia moglie. Peccato che sia morta prima di avere visto realizzati tutti i suoi sogni nella persona di Albert Edwin Foster.

Non ci siamo mai amati veramente, Margaret e io. No, ma ci siamo rispettati. Lei mi è stata sempre fedele, in modo forse un po' passivo più che per sua volontà, ma tant'è. Ho sempre applicato quelle poche, ma sagge regole che ti permettono la sera, quando vai in bagno a lavarti i denti, di non sputare nello specchio in cui guardi. Rispettare il mio prossimo è sempre stato un chiodo fisso. Non ho mai permesso che la mia volontà sopraffacesse alcun essere vivente. Come diceva il buon vecchio Emmanuel Levinas, il segreto è nel rispettare l'alterità dell'altro. Questo non mi ha certo reso immune dalle sozzure della vita e non mi ha regalato un'esistenza da sogno, certo. Mi ha fatto, però, vivere in pace con me stesso. Diamine, un filosofo non è colui che insegna filosofia, ma colui che ha capito in cosa consiste la sapienza.

La filosofia! Mio vecchio e libertino amore. È grazie alla filosofia che ho conosciuto Emily. Era la fine degli anni '60 e dividevamo le spese di un piccolo appartamento nel centro di Gerico. Poche, ma chiare regole contribuivano a rendere la convivenza civile e apprezzabile. C'era stata qualche chiacchiera all'inizio da parte di alcune pettegole del palazzo. Emily era una ragazza e io no. Cosa ci facevamo in quell'appartamento? Chiaramente nulla, o almeno nulla di quanto io stesso avrei voluto, ma la gente ama sognare di orge e peccati capitali e oltre a sognare spettegola.

Io lavoravo all'Università come assistente e mi davano una miseria. Il mio sogno era quello di insegnare filosofia e probabilmente era nato sui banchi del liceo quando annoiato a morte da una lezione su Hegel decisi che non era in verità possibile che un solo uomo avesse detto tante scemenze tutte insieme. Mi ci era voluto pochissimo per rendermi conto che le scemenze erano il frutto di idee preconcette dell'insegnante che, essendo laureato in letteratura, aveva accettato di parlare di Nietzesche e di Fichte più per il salario che a fine mese riceveva che per amore della filosofia.

Aveva fatto richiesta per la cattedra di storia e letteratura e pur di non perdere i contatti con uno dei migliori istituti della provincia aveva accolto la richiesta del preside di sostituire per il semestre l'insegnante titolare, che era in maternità. Il professore di letteratura, materia in cui il signor Potters era laureato, era insostituibile e non sarebbe mai stato sostituito. Era il nipote del preside.

Oggi capisco bene il pover'uomo. Ho vissuto in parte la sua frustrazione per il fatto di avere ripiegato anch'io sull'insegnamento di una materia che non era la mia, quella per cui avevo studiato e quella che amavo più di tutte. Ho avuto una modesta cattedra di lingua e letteratura in un piccolo college e ho insegnato fino a quando non mi è stato diagnosticato un dannato morbo che ha un nome dolce e innocuo, ma che inesorabilmente ti costringe a vivere in totale dipendenza dagli altri. Il morbo di Paget ti deforma le ossa, te le riduce quanto a durezza e consistenza e, a lungo andare, ti porta su una sedia a rotelle, nel migliore dei casi. I medici hanno detto che il mio è uno dei migliori casi: vivo ancora.

Comunque, ho insegnato fino a quando ho potuto e negli anni ho imparato a convivere con la frustrazione che ho battezzato «Sindrome di Potters», in memoria del mio professore di filosofia. Se ripenso a quante volte lo abbiamo preso in giro per quella sua aria svogliata e assente, la stessa che sono riuscito a mascherare ai miei studenti, mi viene da ridere. Concordo con chi ha detto che l'esperienza non si trasmette.

Ma smettiamola di parlare di me e del signor Potters che insegnava filosofia per vivere e torniamo a Emily.

Lei non aveva problemi di questo tipo. Era molto intelligente e in gamba, ma non lo sapeva. Le sue conoscenze e i suoi studi non le erano serviti granché. Sosteneva che nella vita o si fa qualcosa di grandioso o è meglio sedersi. E lei si era seduta. Forse per un periodo aveva anche tentato di darsi da fare, ma credo che fosse troppo pigra o troppo terrorizzata dalla banalità e che rifiutasse di diventare una qualsiasi e vivere una vita qualsiasi.

Sono abbastanza sereno se ripenso a lei in questo modo, soprattutto da quando mi si è ficcato in testa il dubbio persino sulla sua esistenza, ma all'epoca, credetemi, non era facile starle dietro. Certe volte mi faceva persino rabbia. Non le ho risparmiato i consigli più sinceri, ma lei, anche se sembrava attentissima e interessata, non ne metteva mai in pratica uno. Faceva sempre di testa sua e faceva male.

Certe sere, quando tornavo dal lavoro stanco e mi mettevo sui libri mezzo morto, ma determinato a studiare per essere pronto all'eventuale concorso, il baccano che proveniva dalla sua camera mi faceva uscire pazzo. Teneva quel dannato grammofono a tutto volume che suonava sempre la stessa canzone: White Rabbit dei Jefferson Airplane.

Il rituale era quello di bussare o meglio picchiare furiosamente alla sua porta e urlarle qualcosa di incomprensibile; lei si affacciava con la sua solita faccina candida e solare, si scusava con educazione e ritornava in camera canticchiando a bassa voce. Spesso mi fermavo sulla soglia, dimenticando il motivo per cui avevo bussato, la rabbia che avevo in corpo e il concorso per la cattedra di filosofia. Rimanevo incantato a guardarla ballare, mentre la sua voce accarezzava il motivo di sottofondo parlando di pillole e tane in cui cadere.

«Dovresti fare qualche audizione, hai una voce fantastica» dicevo sperando che si riscuotesse da quella trance che faceva vibrare il suo corpo a suon di musica in un crescendo irresistibile. In genere, alla seconda osservazione da parte mia scoppiava a ridere e smetteva immediatamente di cantare. Io me ne tornavo in camera mentre spegneva il giradischi e mi rimettevo sui libri, cominciando a sottolineare i passaggi più importanti, sebbene la testa fosse al di là della porta della camera di Emily. Sicuramente stava leggendo. Io, invece, mi alzavo, accendevo una sigaretta e mi preparavo il caffè deciso a fare nottata. Di tanto in tanto origliavo alla porta, ma non c'erano segni di vita. Tutto taceva.

Due erano solitamente le ipotesi: o Emily si era addormentata o era con i suoi amici. Già, perché il nocciolo è tutto qui: Emily poteva essere ovunque a quel punto.

Le prime volte avevo sorriso. Mi aveva raccontato una strana storia, di lei e di certe persone che frequentava in un certo posto. Era lì che andava spesso, anche se non tutte le sere. Era con loro che viveva quella parte della sua vita parallela di cui vi racconterò dettagliatamente perché o ho buona fantasia o Emily era davvero accurata nei resoconti. Giudicate voi, non voglio convincere nessuno e a me sta bene anche l'ipotesi dell'arteriosclerosi. A questo punto e a questa età non si può tralasciare neanche questa teoria.

In ogni caso, quella Emily che io ricordo di avere conosciuto veramente, era una cara ragazza, tutt'altro che matta e noi eravamo diventati davvero amici. Non nego di aver spesso pensato a lei non proprio come si pensa a un'amica, nonostante avessi dieci anni di più. Comunque, sapevo che non era proprio il caso che noi due ci lasciassimo andare a una storia d'amore o di sesso. Non sarebbe stato conveniente né per lei né per me. Io avevo bisogno della sua casa e lei del mio affitto. In più avremmo rovinato una vera amicizia.

Cercavo di non raccogliere i suoi sguardi maliziosi e provocanti e li riconducevo al fatto che Emily guardava tutti gli uomini allo stesso modo e che quella sensualità faceva parte della sua persona senza che ne fosse del tutto cosciente. Probabilmente, non provava interesse per nessuno in particolare, sebbene dai suoi sguardi avresti giurato che fosse davvero interessata a ogni individuo di sesso maschile. Era fatta così, sembrava depositaria di grandi segreti. Sembrava avere scoperto qualche verità che sfuggiva al resto dei comuni mortali.

Cominciai a sospettare qualcosa la sera in cui litigammo come al solito per il volume del giradischi troppo alto. Quella volta Emily non era uscita dalla stanza per offrirmi le sue scuse. Aveva abbassato il volume, smesso di cantare di conigli bianchi da inseguire e spento la luce. Potevo vederlo perché la mia stanza era esattamente davanti alla sua e quella sera avevo lasciato la porta aperta. Da sotto la fessura della sua stanza non trapelava più alcuna luce, neppure quella fioca dell'abat-jour sul comodino, segno che si era messa a letto. Ero tornato con la mente ai miei libri, avevo letto una decina di pagine e mi ero sentito profondamente in colpa. Avevo alzato troppo la voce con lei, forse perché ero stanco o forse perché iniziavo a chiedermi se il lavoro all'Università avrebbe alla fine coperto i conti. Tra l'affitto e il mangiare non mi rimaneva molto per me. Per onestà, forse c'era anche un po' d'invidia nei confronti di quella strana ragazza che poteva permettersi di lavorare saltuariamente per vivere.

A mente lucida dicevo a me stesso che nutrire invidia per una persona come Emily fosse il sentimento più meschino che io potessi provare nei suoi riguardi o se non altro il più fuori luogo. Lei non possedeva nulla che potesse suscitare quel sentimento. Inoltre, era molto generosa. Più di una volta mi aveva prestato dei soldi e più di un mese era passata sopra al mio ritardo nel pagare l'affitto. A Natale, aveva addirittura sostenuto che fossi distratto e fuso, che la mia filosofia mi stava esaurendo se non ricordavo di averle pagato l'affitto tre giorni prima. Io ero rimasto a guardarla come un ebete, con in mano i soldi dell'affitto che finalmente ero riuscito a racimolare con le ripetizioni. Era ovvio che non le avevo mai pagato il mese e che quella era la bugia più pietosa, ma anche la più bella che avesse mai detto. Ricordo di essermi defilato in cinque secondi in camera mia, giusto il tempo per riprendermi e impedire di farmi vedere in lacrime e quando ero uscito lei già non c'era più.

Spesi tutti i soldi per comprarle il regalo di Natale. Lo so che avrei dovuto tenerli per qualcosa di più importante o che avrei dovuto consegnarglieli con decisione e forza come affitto del mese corrente, ma in questo caso non mi avrebbe più rivolto la parola e in quel momento non riuscivo a vedere nulla di più importante nella mia vita di un'amica come Emily.

Dunque, quella sera, dicevo, ero nervoso e avevo forse strillato un po' troppo nel chiederle di abbassare il volume e nel mio tono stridulo forse c'era un po' di cattiva invidia nei suoi confronti. Si era trattato però di un istante, di un attimo in cui avevo perso le staffe e mi ero lasciato trascinare dai miei guai. Ero tornato in me dopo dieci pagine di Feuerbach ed ero già pronto a fare la pace: non era colpa sua se non doveva lavare i piatti per pagare l'affitto e poi, anche lei aveva i suoi problemi.

Mi alzai e bussai alla sua porta. Lo feci con garbo, quasi a contrastare tutte le innumerevoli volte in cui avevo picchiato sodo su quel legno. Era senz'altro offesa se non accendeva neppure la luce. Forse fingeva di dormire per non discutere con me, immaginando che fossi pronto alle scuse. Bussai di nuovo e di nuovo non vi fu risposta. A quel punto, in altre circostanze sarei tornato al mio testo e avrei rimandato le scuse al giorno dopo. A mente fresca anche le cose più gravi sembrano sanabili e quello non era certamente un litigio serio.

Eppure, non riuscivo ad allontanarmi da quella porta, non mi sentivo tranquillo. Non sarei stato in grado di studiare sapendo di essermi comportato in modo così rozzo. Credo che mi sentissi soprattutto in colpa per quel bieco sentimento d'invidia che per un istante aveva minacciato il mio rapporto con Emily.

«Dai, Emmy, credo che busserò alla tua porta tutta la notte e che domani avrò una mano così gonfia che ti sentirai un mostro per avermi lasciato qui a implorare il tuo perdono.»

Ecco, era fatta, glielo avevo detto. Stavo implorando il suo perdono. Come poteva essere tanto insensibile a una richiesta di pace come quella? È vero, Emily esagerava sempre in tutto, ma quella volta era davvero troppo. Entrai nella sua stanza deciso a discutere la faccenda, ora che mi sentivo dalla parte del giusto. Accesi di scatto la luce, tanto per traumatizzarla un po' e per prenderla di sorpresa, ma fui io quello sorpreso: Emily non c'era.

Tuttavia, avevo visto la sua luce spegnersi e avevo chiaramente sentito che si era messa a letto. Infatti, la sua rete cigolava parecchio, ogni movimento facesse, e con chiunque lo facesse! Non di rado, ero stato costretto a uscire il periodo che frequentava Bill Dorson, quel mastino che giocava nella squadra di baseball e che io stesso le avevo presentato portandola con me a una festa cui partecipava il corpo studentesco. In quell'occasione, gli studenti mi avevano onorato con un invito, sebbene non partecipasse nessun altro docente. Ho sempre pensato che per la mia età fossi più vicino a loro che all'insegnante più giovane della facoltà, che aveva cinquant'anni. Permettevo ad alcuni ragazzi di darmi del tu soprattutto quando si rivolgevano a me per qualche consiglio sugli studi o sulla loro vita privata.

Bill era venuto a casa un paio di volte per delle lezioni di filosofia. Era una materia in cui zoppicava parecchio, per non parlare delle altre. In quelle occasioni aveva visto Emily di sfuggita senza mai riuscire a farsi presentare a lei. Emily andava sempre di fretta e io non ero mai dell'umore giusto per fare i convenevoli. Non avrei mai sprecato i soldi del padre di Bill per fare da sensale piuttosto che ripassare la filosofia contemporanea.

In occasione della festa studentesca finalmente si erano conosciuti e Bill aveva perso la testa per Emily e come dargli torto? Era molto carina, davvero. Aveva un corpo da mozzare il fiato e due occhi così scuri che potevi giurare che tra pupilla e iride non ci fosse differenza. Per me era sprecata per Bill, tutto muscoli e niente cervello, ma evidentemente il motivo per cui il letto di Emily cigolava al punto da farmi vergognare e uscire non era da ricercare nelle meningi di Bill, ma in qualcos'altro.

Dunque, avevo udito distintamente Emily mettersi a letto e spegnere la luce. Eppure, non c'era più. Guardai la finestra. Era chiusa. Già, per forza, era un dicembre maledettamente freddo e non avrebbe avuto senso aprire la finestra, per giunta di notte. O forse non era stato quello il primo pensiero che mi era passato per la mente. Perché avevo guardato la finestra dal momento che l'appartamento di Emily si trovava al quarto piano e quella non era certo un'alternativa alla porta?

In ogni caso, la finestra era chiusa e qualsiasi pensiero oscuro mi avesse indotto a guardarla cessava là il suo corso. Emily non era certo tipo da suicidio e in ogni caso la finestra era chiusa e basta. Controllai l'armadio. Stupido, vero? Sono dei gesti che in genere meritano tutto il nostro disprezzo quando li vediamo compiere dal protagonista di un film giallo di serie B. In genere a quel punto sorridiamo disgustati, scuotendo la testa.

'Non vedi idiota che in quel buco di armadio non entrerebbe neppure lo scheletro di una pulce e tu vi cerchi cadavere o assassino che sia?'

In ogni caso, lo aprii, tanto per compiere l'ultima doverosa ispezione razionale prima di cercare la bacchetta magica. Ovviamente, a parte i vestiti e le scarpe non c'era altro. Eclissata. Quella fu l'unica parola che mi venne in mente. Uscii dalla stanza.

In cucina, ammesso che fossi tanto distratto da non avere sentito la sua porta aprirsi e richiudersi, non c'era traccia di lei. In salotto nemmeno. Era un piccolo appartamento e in ogni caso non c'era nessuno, a parte me. Vinsi lo stupore di questa scoperta e passai ad altre azioni oltre a quella di scuotere la testa come un idiota. Mi attaccai al telefono.

«Sono cinque mesi che non esco più con Emily, credevo che lo sapessi Dixon» disse ansimando Bill detto il mastino. Doveva essere impegnato in altre faccende dal momento che sentivo la voce di una ragazza chiedere in tono più che sostenuto chi fosse Emily. Non era vero, naturalmente, che non usciva con lei da cinque mesi. Non almeno in forma ufficiale. Sapevo che continuavano a vedersi di tanto in tanto sebbene non più con la frequenza di prima. Ringraziai Bill e mi scusai tanto per averlo interrotto.

Decisi di aspettare in piedi, in ogni caso e con chiunque fosse uscita. Forse era scesa semplicemente a comprare le sigarette. Passarono quasi due ore e di Emily neanche la traccia. M'infilai il cappotto e uscii di casa risolto a cercarla almeno nel bar all'angolo. Ogni tanto ci andava con qualche amico a bere qualcosa e a fare quattro chiacchiere. Era un posto carino e sicuro, dove si respirava un'aria di famiglia. Il proprietario, il signor Marcowitz, aveva una grande simpatia per i ragazzi che si ritrovavano da lui a fare quattro chiacchiere. Diceva che la gioventù ai suoi tempi aveva ben altro da fare che sedersi a bere caffè e a fumare, ma poi sorrideva e strizzava l'occhio. Sapeva che tanti erano davvero dei bravi ragazzi e che molti lavoravano sodo per mantenersi gli studi.

Una brava persona, il signor Marcowitz. Aveva vissuto due guerre e perso troppo presto entrambi i genitori. Potevi leggere sul suo viso tutte le pene di questo mondo e forse proprio per questo la sua umanità andava ben oltre la semplice simpatia. Chiunque avesse grossi problemi poteva contare sui suoi consigli e a volte sul suo aiuto economico. Non navigava certo nell'oro e aveva una famiglia numerosa, ma non aveva mai negato una mano al più bisognoso di lui.

Entrai nel bar. Le luci erano quasi tutte spente e il signor Marcowitz stava finendo di pulire prima di andarsene a casa. Erano le undici e trenta e finalmente la giornata lavorativa era terminata, lui poteva fumarsi l'ultima sigaretta in pace prima di chiudere il locale. Sapevo che aveva quell'abitudine da quando mi ero trasferito da Emily, due anni prima, e avevo iniziato a frequentare il bar. Non di rado la mia insonnia mi aveva reso compagno di quell'ultima sigaretta e spesso lo avevo aiutato a chiudere bottega. Parlare con lui mi faceva bene. Era un uomo curioso e attento. Vivendo con i ragazzi dalla mattina alla sera aveva una mente continuamente aggiornata, sapeva cosa andava di moda, cosa i tempi richiedevano e cosa i giovani si aspettavano dagli adulti come me e lui. Lui aveva sessantatré anni e io trenta di meno, eppure mi accomunava spesso a lui quando si trattava di improvvisare una ramanzina a qualche studente particolarmente vispo e turbolento. Uno di quelli che alzava il gomito con la scusa di avere raggiunto la maggiore età.

«Dixon, torni dal lavoro? Posso offrirti un caffè? Sembri uscito da un romanzo di Bram Stoker!» disse offrendomi una sigaretta. Mi sfotteva sempre in quel modo, con quella sua faccia tranquilla sulla quale gli occhi vispi e furbi contrastavano come il sole a mezzanotte.

«Grazie signor Marcowitz, ma non questa sera. Credo di avere fumato anche troppo. Un caffè però lo accetterei volentieri.»

«Guai in famiglia?» chiese soffiando il fumo e socchiudendo gli occhi come chi la sa lunga sui rapporti umani e sentimentali. Aveva capito che ero cotto di Emily da subito, da quando lei mi aveva portato al bar in una delle rare occasioni in cui le offrivo la colazione per ricambiare le mille gentilezze che aveva lei per me. Il signor Marcowitz mi aveva sorpreso a fissarla con lo sguardo di un pesce lesso, come se in quel momento esistesse solo lei. Alla prima occasione mi aveva fatto un lungo discorso, su come l'uomo non dovrebbe rendersi ridicolo adorando letteralmente un altro essere umano, in particolare una ventenne, e sul fatto che le donne in genere corrono dietro a chi scappa e molti altri bei discorsi da uomini.

C'era una certa confidenza tra noi e data la sua età poteva permettersi di sfottermi un po'. Non era comunque mai stato indiscreto sull'amicizia che legava Emily a me e non aveva mai insinuato nulla sulla nostra convivenza. Era chiaro che fossimo solo amici visto che Emily andava spesso da lui con Bill o con qualcun altro della sua età.

«Più o meno, signor Marcowitz. Mi sono perso Emily e... non è che l'ha vista da queste parti?» ero molto agitato e lui se ne accorse.

«Figliolo, non credi che sia grande abbastanza per badare a se stessa? Emily non mi sembra il tipo di persona che possa perdersi. Sarà con qualche amica.»

«No, non è uscita con un'amica. Era a casa e... insomma credevo che fosse scesa a fare due passi. Non mi sento molto tranquillo a saperla in giro a quest'ora.»

«No, certo» disse preoccupato il signor Marcowitz. «Sei sicuro che sia uscita? Per caso avete litigato voi due? Ultimamente mi sembrate come il gatto che rincorre il topo, solo che non saprei dire chi di voi faccia il gatto.»

Sorrisi a quell'immagine. Emily era senz'altro il gatto, solo che non rincorreva affatto me. Nell'ultimo anno era uscita con quattro ragazzi e l'ultimo era stato Bill. Tutti belli, atletici, muscolosi e senza cervello. La mia magrezza quasi efebica e io potevamo anche andarci a nascondere.

«Sai che le ragazze vanno pazze per i tipi intellettuali come te? Ti sottovaluti» diceva Emily ridendo quando la mattina ci scontravamo mentre io uscivo dal bagno con l'asciugamano addosso e lei andava a farsi il caffè.

Già, i tipi intellettuali come me. Quelli che Emily neanche guardava! Avevo perfino schivato l'arruolamento per colpa della mia magrezza.

Il signor Marcowitz spense la sigaretta e si avviò all'uscita, dopo aver indossato cappello e cappotto.

«Torna a casa Dixon. Sei troppo giovane per farle da padre. Vedrai che non le è successo nulla. Sicuramente la troverai già in camera sua, in camicia da notte e sotto le coperte. È una brava ragazza Emily» disse sorridendomi.

Lo salutai e tornai a casa come suggerito e come aveva previsto lui Emily era lì, in cucina e stava tirando fuori dal frigo della carne. Indossava la vestaglia.

«Si può sapere dove diavolo...» ma non terminai la frase. Emily non stava preparandosi la cena; aveva preso il pezzo di carne e se lo era messo sull'occhio. Di quei tempi, quello non era certo l'uso più adeguato del costoso nutrimento.

«Emmy, cosa ti è successo?»

Ero riuscito a vedere il livido prima che ci mettesse sopra la fettina di carne. Andai verso di lei per aiutarla, ma Emily si scostò.

«Nulla, ho sbattuto contro il comodino» disse voltandosi verso l'acquaio.

«Quale comodino, non eri nemmeno in camera tua fino a dieci minuti fa. Dimmi la verità, chi ti ha conciato così? Non è stato spero il mastino!»

Bill era abbastanza manesco. Misurava la sua forza tirando pugni ai ragazzi con i quali aveva dei problemi di comunicazione e non solo a quelli. Una volta lo avevo visto schiaffeggiare una ragazza e non doveva essere certo la prima che Bill trattava in quel modo. Avevo tentato di dissuaderlo dall'adoperare le mani per altri scopi che non fossero igienici, dopo aver espletato i bisogni corporali, ma Bill era scoppiato a ridere e mi aveva voltato le spalle come se avessi raccontato la barzelletta più divertente degli ultimi tempi. Non aveva neanche preso in considerazione di arrabbiarsi per quella che per lui era stata una battuta. In ogni caso Bill aveva soggezione di me se non altro per il mio ruolo. Malgrado la nostra confidenza non perdeva mai di vista il fatto di essere dall'altra parte della cattedra.

«No, non è stato Bill. E poi non lo vedo da qualche giorno.»

«Cinque mesi, dice lui» dissi indicando il telefono.

«Cos'è questa storia? Cosa c'entra Bill?» disse Emily furente. Nel parlare (urlare) aveva scostato la fettina di carne dall'occhio e io avevo visto meglio quel brutto livido sullo zigomo.

«L'ho chiamato perché ero preoccupato. Non eri nella tua stanza e io...»

«Chi ti ha autorizzato a entrare in camera mia? Il fatto che dividiamo l'appartamento non fa di te mio padre. Io non metto il naso nelle tue faccende e tra i tuoi filosofi, tu fai altrettanto.»

«Emily» dissi prendendola per le spalle, proprio come avrebbe fatto suo padre e mi odiai per questo. I tipi come me sono paterni e leali, generosi e sinceri, ma mai affascinanti. Avrei voluto possedere un carattere diverso, di quelli che Emily considerava una sfida, un invito alla competizione, ma riuscivo solamente a comportarmi come un anziano genitore, sempre in procinto di sculacciarla per le sue bravate.

«Emily» ripresi «ero preoccupato. Volevo scusarmi per avere alzato la voce e quando non mi hai risposto io ho creduto che un malore...»

«Basta. Ti prego, risparmiami le tue preoccupazioni. Non sono di ceramica. E poi, non succede nulla se litighiamo ogni tanto e non facciamo subito la pace» disse l'ultima frase con fare più dolce.

«Non vuoi proprio dirmi cosa ti è successo?» le chiesi approfittando di quello sprazzo di tolleranza nei miei confronti.

«Non servirebbe. Ho sonno adesso» disse annoiata avviandosi verso la porta della sua stanza che subito richiuse dietro di sé.

Rimasi impalato in cucina, come un ebete. Niente e nessuno le dava il diritto di trattarmi così. In fin dei conti, avevo solo cercato di aiutarla. Mi ero preoccupato per lei come qualsiasi amico avrebbe fatto... o forse come avrebbe fatto un genitore, va bene, ma in ogni caso chi le dava il diritto di...

«Cos'altro vuoi da me!?» sentii urlare Emily. Mi precipitai verso la porta della sua camera e la spalancai. Emily era in piedi, vicino al letto e con le mani sul viso.

«Emmy, che succede?»

Si voltò verso di me e mi guardò come se vedesse un fantasma.

«Cosa?» mi chiese con lo sguardo perso nel vuoto.

«Ho detto: che ti sta succedendo? Ti ho sentita urlare.»

Emily sollevò le coperte e s'infilò nel letto.

«No, ti sbagli. Ora ho sonno, è tardi. Buonanotte.»

Approfittai di quell'attimo di distrazione, per non dire estraniamento di Emily per guardarmi intorno. La stanza era vuota, c'eravamo solo noi due.

«Sì, devo aver capito male. Buonanotte Emmy.»

Mi sorrise e in quello sguardo lessi molto più della disperazione. Stavo per dirle qualcosa quando spense la luce. Rassegnato chiusi la porta della sua stanza, pensieroso e perplesso. Che stesse dando fuori di matto? Forse aveva iniziato a prendere qualche pillola. Bill ne faceva uso fin troppo spesso.

«Per tenermi su» diceva, ma quella roba lo faceva sembrare uno schizzato e basta. Avevo cercato di adoperare la mia influenza su di lui e di dissuaderlo dall'usare pillole o altro, ma Bill rideva e giurava e spergiurava che era un pezzo che non s'impasticcava. Naturalmente era vero, era passato alla cocaina. Non ero suo padre e la fiducia e la stima che mi ero conquistato tra gli studenti avevano una motivazione su tutte: la discrezione.

In ogni caso, forse ne aveva procurata un po' a Emily. Forse negli ultimi tempi si era sentita talmente giù - e lo avevo notato - tanto da prendere qualche pilloletta rigenerante. Eppure, non mi sembrava Emily il tipo da prendere quella roba. Tantomeno la coca. Alzai le spalle. In fin dei conti aveva ragione lei. Non ero suo padre e tantomeno il suo ragazzo. Era fin troppo evidente che non gradiva il mio intervento e non desiderava che mi preoccupassi oltre del suo stato d'animo. Feci per tornare in camera mia quando udii la sua voce parlare nuovamente.

«Non so perché ti lasci fare tutto questo.»

Rimasi immobile nel punto in cui mi ero bloccato quando avevo di nuovo sentito la sua voce. Doveva essere proprio fuori di sé. Stava parlando da sola, avevo capito bene. Le sue stranezze erano sempre state motivo di risata, ma non in quel caso. Decisi che il giorno dopo le avrei fatto un discorso serio e tranquillo, tenevo troppo a lei perché mi comportassi come se nulla fosse successo. Emily aveva bisogno di aiuto, era innegabile. Forse avevo esagerato anch'io nel ritenerla capace di ingerire pillole di quel tipo: Emily non ne sarebbe stata capace e poi soffriva di asma e non prendeva alcuna medicina che non fosse chiaramente in grado di tollerare. Il massimo era per lei stato fino a quel giorno l'aspirina. Non aveva mai preso nulla di più forte.

Così, a poco a poco, anche la spiegazione dell'allucinogeno era venuta meno per lasciare spazio all'unica ipotesi plausibile: Emily si era beccata un esaurimento nervoso con i controfiocchi. E se si fosse reso necessario uno strizzacervelli non c'era problema, ce l'avrei portata di peso.

Quella fu l'ultima considerazione della serata. Me ne andai in camera mia, rimandando il problema al giorno dopo.


Continuer la Lecture

Vous Aimerez Aussi

1.3M 51.9K 200
In questo libro scriverò le frasi che mi piacciono.Date un occhiata..
1.6K 335 49
Poesie, racconti, pensieri. Piccoli frammenti sparsi di esistenza. Quando scrivo, mi ritrovo, e spesso piango.
369K 16.6K 34
Raccolta di brevi storie che vi faranno venire i brividi...
1.5K 198 40
Quando Alice, insieme alla madre e alla sorella, si trasferisce in Florida per lavorare all'acquario della nonna, non si aspetta di trovare un legame...