Carnivorous

Galing kay Mari_Blackstar

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[COMPLETA] La vita è fragile quanto la morte è tenace. Maeriyel impara questa lezione da bambina, quando mani... Higit pa

EXTRA - Premesse & Moodboard
Prologo
Capitolo 1 - Mietitura
Capitolo 2 - Un cadavere tra i cadaveri
Capitolo 3 - Per il bene di Hedea
Capitolo 4 - Uccidere o essere uccisi
Capitolo 5 - Macabri trofei
Capitolo 6 - Il suo fiato sul collo
Capitolo 7 - Mostro senza cuore
Capitolo 8 - Come il fuoco
Capitolo 9 - Ane, urisma
Capitolo 10 - L'hai voluto tu
Capitolo 12 - Paradiso
Capitolo 13 - Pianta carnivora
Capitolo 14 - Morte e vita
EXTRA - Ringraziamenti & Curiosità
Capitolo Extra - Fare la differenza

Capitolo 11 - Lacrime, dolore e sangue

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Galing kay Mari_Blackstar

Il mondo era sottosopra. Maeriyel sapeva che il suo corpo si stava muovendo nello stesso modo in cui un'informazione appariva chiara in sogno eppure inconcepibile durante la veglia. Sapeva di star respirando, perché non aveva ancora perso conoscenza, però non sentiva nulla; la sua gola era ostruita e sembrava che non vi fosse aria da inalare o che i muscoli del suo petto fossero stati bloccati da un qualche Naru.

Sapeva di essere tornata nella sua stanza, perché il profumo intenso del gelsomino le stuzzicava le narici, ma non riusciva a percepire molto altro. Non vedeva i rampicanti che rivestivano le pareti né l'erba sfiorarle le caviglie mentre vagava avanti e indietro - o forse non si muoveva affatto, forse era solo un'idea nella sua testa.

Ne aveva fin troppe, così tante che non riusciva ad afferrarne una che subito le sfuggiva. Voci confuse si affollavano come rovi spinati nella sua testa, germogliando dai suoi ricordi o dalla sua coscienza, mentre immagini sfocate scorrevano davanti ai suoi occhi in lampi improvvisi, scene che mutavano in continuazione.

Aveva sei anni e sua madre l'aveva schiaffeggiata per la prima volta - o forse era solo la prima di cui conservasse memoria. Maeriyel si era rifiutata di mangiare lo stufato di pollo e Lisaëlle le aveva urlato contro cose che una bambina non era in grado di comprendere, che ora esistevano nei suoi ricordi come suoni confusi tra le urla rauche. L'aveva costretta a finire il suo pasto, ignorando le sue lacrime e le sue suppliche, e l'aveva schiaffeggiata di nuovo quando aveva rimesso ogni cosa. L'aveva lasciata a digiuno fino a sera, quand'era tornato Eumeric: suo padre le aveva chiesto quale fosse il problema, poi l'aveva consolata con pane e formaggio. Adesso che non c'era più, quel ricordo bruciava più degli schiaffi.

Era estate e il sudore le appiccicava i capelli sulla fronte e contro la nuca. La zolletta di zucchero che Boyaque aveva lasciato per terra aveva attirato un tale numero di formiche da spaventare Eliette, che non la smetteva di lamentarsi. Maeriyel ne era affascinata e seguì volentieri la scia nera fino al formicaio insieme a Boyaque, ma lui aveva altri piani: coprì di terra ogni ingresso al nido tranne uno, poi appiccò il fuoco. Maeriyel gli urlò contro, colpendogli la schiena e le braccia, ma lui la ignorò: rideva mentre osservava i piccoli insetti rinsecchirsi e morire, con una tale soddisfazione da far attorcigliare le viscere. Maeriyel non l'aveva mai notato prima, ma lo sguardo con cui ammirava le fiamme era lo stesso che adesso rivolgeva a lei. Come aveva fatto a dimenticarlo?

La Repubblica era appena nata e Maeriyel intrecciava un cesto all'ombra di un frassino. Il vento d'inverno le sfiorava le gambe coperte da calze troppo leggere, ma non sentiva freddo; il cerchio di vimini che aveva tra le mani splendeva come il sole e le sembrava persino di sentirne il calore. Era sufficiente quell'idea a scaldarla, la più brillante che avesse mai avuto, un modo per salvare ogni vita nel paese. Era certa che sarebbe andato tutto bene, ma avrebbe dovuto capire già allora che non avrebbe funzionato; da quando era morto Hervé, ogni cosa non aveva fatto che peggiorare. E lei aveva rimosso dalle sue speranze un sottile strato alla volta, sempre convinta che sarebbe stato l'ultimo, finché non era rimasto più niente.

Maeriyel si tuffò sul letto, affondando la testa nel cuscino per soffocare un urlo. Gridò con tutte le sue forze, stringendo il tessuto tra le mani e agitando le gambe, fin quando non scacciò ogni voce che sussurrava al suo orecchio e ogni immagine che si sovrapponeva alla realtà.

Solo allora si quietò. Aprì gli occhi e si girò su un fianco, singhiozzando nel riprendere fiato. Le dita tremavano quando sollevò una mano davanti al viso, ma non riuscì a farle smettere neanche quando le raccolse al petto, sfiorando con i polpastrelli il merletto che decorava la parte alta del vestito.

Anche se non le sentiva più, le urla di Eliette non le lasciavano tregua. Rimbombavano tra le sue ossa, spezzandole il respiro. Maeriyel non desiderava farle del male: non l'avrebbe mai aggredita, se non avesse minacciato i capperi. Voleva solo fermarla, evitare che facesse loro del male, voleva...

Chiuse gli occhi. No, voleva che capisse cosa si provava. Voleva che provasse sulla sua pelle ciò che le piante dovevano sopportare a causa loro. Voleva che tutti sentissero le sue urla così come Maeriyel era costretta ad ascoltare quelle dei rami spezzati e dei frutti raccolti. Voleva punirla, perché era ciò che si meritava.

"E invece non hai fatto altro che peggiorare le cose."

Aveva oltrepassato il limite. Se i suoi amici l'avevano odiata senza una ragione, adesso ne avevano una per farlo. Forse non avrebbero denunciato la cosa ai Sovalye, poiché Maeriyel non aveva ancora compiuto sedici anni, ma non l'avrebbero perdonata. Avrebbero confermato a tutto il paese i sospetti che fino ad allora erano rimasti sussurri nel buio, e nessuno avrebbe più voluto sentir parlare di accordi.

Li avevano già rotti, dopotutto. Quale che fosse il motivo con cui intendevano giustificarsi, lei gliene aveva appena fornito uno più che valido. Non aveva importanza quanto quel patto fosse conveniente per loro: di fronte alla possibilità che Maeriyel potesse perdere la ragione come sua madre, chiunque si sarebbe rifiutato di assecondarla.

Nessuno avrebbe ascoltato le sue scuse, già lo sapeva. Forse avrebbero mostrato un po' di morbidezza per rispetto del lutto, ma non si aspettava un'indulgenza maggiore di questa. Eliette aveva ceduto alla rabbia tanto quanto lei, ma aveva minacciato solo una pianta e nessuno avrebbe giudicato la sua reazione esagerata. Maeriyel, invece, era fuori di testa e pericolosa. L'aveva detto Paver e presto sarebbe diventato il parere di tutto il paese - no, l'aveva detto Boyaque per primo e gli altri lo pensavano già da tempo, solo che non l'avevano mai detto ad alta voce.

Era stato lui a convincerli o ne aveva solo alimentato le paure? Aveva solo ipotizzato che avrebbero rotto gli accordi o sapeva che sarebbe successo? Maeriyel si rifiutava di credere che i suoi compaesani avessero preso una simile decisione in così poco tempo, come frutto di una rivelazione improvvisa. Se ci aveva pensato lui, dovevano averci pensato anche gli altri; doveva essersi creato un dissenso che attendeva il momento giusto per esplodere. Da quanto tempo stavano progettando di farlo?

Non avevano fatto altro che prenderla in giro, tutti quanti. Suo padre era morto e la prima cosa che avevano pensato di fare era tornare a coltivare i campi di nascosto. Maeriyel aveva dato a Vou-la-Forêt tutta se stessa, tutto ciò che aveva, e loro non avevano esitato a pugnalarla alle spalle.

E Boyaque...

Siamo rimasti tu e io, Mae-mae.

Maeriyel sentì il petto avvampare di una tale rabbia da non riuscire a respirare. Come aveva potuto anche solo pensare di potersi fidare di lui? Aveva permesso a solitudine e dolore di offuscare i suoi sensi, facendole dimenticare persino ciò che era sempre stato ovvio. Gli aveva permesso di entrare nel suo letto, nella sua mente e nel suo corpo, pur di riempire quel vuoto che lui stesso aveva contribuito a scavare.

E dov'era adesso? A vantarsi del suo successo, ostentando la sua verginità rubata quasi fosse un trofeo? Attendeva che Maeriyel corresse da lui dopo aver scoperto cos'era successo ai campi, per consolarla di nuovo? O forse era andato a rassicurare i compaesani, certo di poterla convincere a partire come l'aveva persuasa a concedersi a lui?

Così Vou-la-Forêt sarebbe stato libero della sua presenza. Una pazza isterica in meno di cui preoccuparsi.

Maeriyel si alzò dal letto in un impeto furioso, pestando i piedi nudi sull'erba. Le sabot dovevano esserle cadute poco prima, ma non si preoccupò di recuperarle; invece uscì dalla stanza e corse in bagno, chiudendo la porta a chiave dietro di sé. Le mattonelle erano gelide, eppure lei si sentiva bruciare, tanto che il sangue ribolliva nelle vene. Ardeva nel centro della pira, come i cadaveri di Hervé e di suo padre, come la legna e le foglie secche usate per accenderla, ardeva finché di lei non sarebbe rimasto altro che cenere.

Si strappò il vestito di dosso, aprendo il corpetto con tanta foga da far schizzare via i bottoni. Non sopportava più neanche quel sottile strato di cotone e il solo posare lo sguardo sulla gonna le provocava un tale disgusto da dover trattenere i conati. Voleva solo distruggerla, far sparire quell'abito quanto l'immagine delle mani di Boyaque che si insinuavano sotto la stoffa per ghermirle i fianchi.

Si liberò dell'intimo e si infilò nella vasca, posizionandosi sotto il soffione della doccia. Quell'installazione era comune in città, ma a Vou-la-Forêt la famiglia di Maeriyel era l'unica a possederne una. L'avevano acquistata grazie al suo lavoro, ai suoi sforzi, ma sua madre non l'aveva mai ringraziata. Mai, neanche una volta.

Maeriyel girò la manopola e il getto d'acqua fredda si schiantò contro la sua testa con una tale pressione che ogni goccia picchiava come un frammento di ghiaccio. Avrebbe potuto diminuirne la potenza, ma non lo fece; afferrò invece la saponetta e cominciò a sfregare gambe e braccia con energia, come se lavando via lo sporco avesse potuto cancellare anche tutto il resto, ma era una cascata che non riusciva a frenare.

Il pianto dolorante di Eliette. I falcetti che tranciavano spighe su spighe. Canti e preghiere innalzate come una sola voce. La schiena di Hervé che saltava giù dall'orociondolo. Il sorriso di Forois, sfumato insieme alle sue speranze. La mano di suo padre stretta attorno alla sua. Il fusto morto del primo basilico che avesse mai piantato. La musica distorta del rondò. Sua madre che la strattonava per un braccio, urlante. I corvi decapitati appesi ai rovi. Boyaque che premeva la bocca contro la sua. Legno scoppiettante nel fuoco, carne e sangue, bisbigli e volti celati nell'ombra. Occhi azzurri che si spegnevano e occhi neri che la fissavano, ancora, ancora e ancora.

Maeriyel strofinava senza sosta, e ad ogni pensiero intrusivo che si affacciava nella sua mente strofinava più forte, come a voler scorticare la pelle. L'avrebbe fatto, se avesse potuto spegnere una volta per tutte la sua mente.

Finì invece col rannicchiarsi sul fondo della vasca, con le ginocchia piegate al petto e la base della nuca esposta al getto ghiacciato. La saponetta le scivolò dalle mani, ma non la raccolse; si abbracciò le gambe e respirò piano, in affanno, lasciando che l'acqua grondasse dai suoi capelli mentre li stringeva tra le dita.

Chiuse gli occhi e aspettò che lo scrosciare violento diventasse l'unico suono che riusciva a sentire, concedendole finalmente un po' di pace.



Maeriyel strinse le palpebre, rigirandosi nel letto per sfuggire alla lama di luce che le sferzava il viso. Sfilò il cuscino da sotto la nuca e lo premette sulla faccia, ma ormai era sveglia: faticava a tenere chiusi gli occhi e qualunque posizione assumesse le sembrava scomoda.

Sbuffò, abbandonandosi a pancia in su con il cuscino stretto tra le braccia. Aveva sempre amato il modo in cui il glicine pendeva dal soffitto, facendo ondeggiare al vento i petali violacei, ma neppure quello le era di conforto. Somigliavano al pendolo di un grande orologio che scandiva in lenti rintocchi gli ultimi istanti prima della morte.

Un brivido corse sulle gambe, risalendo la schiena. Aveva paura di pensare: quando lo faceva, le idee sfuggivano alla sua presa come lucertole impaurite, I ricordi si accavallavano ai ragionamenti e ogni filo che Maeriyel cercava di seguire si annodava con uno diverso, e poi un altro ancora, finché non si ritrovava con le dita intrappolate dalla matassa senza neppure ricordare da dov'era partita. Avrebbe voluto provare a sbrogliarla, a distendere un braccio e districare i nodi, ma non riusciva a muoversi. Non riusciva mai a muoversi. Ogni volta che credeva di aver fatto un passo avanti, scopriva di essere immersa nel fango ancora più di prima.

Inspirò a fondo e trattenne il fiato, contando fino a venti. Poi si alzò. Abbandonò la camicia da notte sulla sedia e scelse tra i suoi abiti neri il più differente da quello del giorno prima, con il taglio sotto il seno e mezze maniche a palloncino. Lo indossò comunque di malavoglia: non voleva mancare di rispetto al ricordo di Eumeric scegliendo altre tinte, ma tenere quel colore addosso le faceva prudere la pelle di un fastidio che non avrebbe saputo spiegare a parole.

Si intrecciò i capelli con cura e si fermò davanti allo specchio, sospirando di fronte al viso smunto con gli occhi rossicci cerchiati da aloni scuri. Suo padre aveva indossato espressioni come quella così tante volte da quando aveva memoria, ma mai di fronte a lei. Non era importante quanto fosse stanco, arrabbiato, sofferente; quando incrociava lo sguardo di sua figlia, sorrideva sempre.

Ricorda sempre qual è il tuo obiettivo, il centro di tutto: la vita va rispettata e protetta. Non dimenticarlo mai, d'accordo?

Maeriyel piegò le labbra all'insù in un sorriso stanco, tirato. Osservò una lacrima scivolare sulla guancia del suo riflesso, così leggera che non la sentiva sulla pelle.

«Te lo prometto, papà» mormorò, la voce spezzata. «Andrà tutto bene.»

Strinse quelle parole tra le mani, aggrappandosi ad esse con tutte le sue forze. Non doveva dimenticarle, per nulla al mondo; non doveva dimenticare che c'era ancora qualcosa, lì fuori, che aveva bisogno di lei. Il suo dolore era irrilevante, perché ciò che aveva sussurrato a Hervé il giorno prima era ancora valido.

Qualunque cosa accada, aveva detto.

Non era ancora finita. Non aveva idea di come convincere i suoi compaesani a darle ascolto, ma non avrebbe lasciato che tornasse tutto come prima senza fiatare. Non si sarebbe arresa senza aver provato qualsiasi soluzione le sfiorasse la mente, persino se non riusciva a vedere un esito positivo.

Scese le scale con cautela e cercò di raggiungere l'ingresso in silenzio, ma sua madre si accorse di lei quando passò di fronte alla cucina. Lisaëlle la chiamò in un sussulto e si alzò dalla sedia su cui era accasciata, ma era così debole che barcollò: sarebbe caduta a terra se Geneviève non avesse abbandonato i fornelli per sorreggerla, rimettendola a sedere.

Maeriyel dedicò alla giovane donna un'occhiata fugace. Non somigliava ad Hervé, ma aveva gli stessi occhi azzurri del fratello e lei non riusciva a guardarli senza che le si attorcigliasse lo stomaco. Restò allora con lo sguardo su sua madre, che in pochi giorni aveva perso così tanto peso da infossare le guance un tempo piene.

«Che hai fatto, Maeriyel?» Le labbra di Lisaëlle tremavano. La voce era soffocata e rauca, come se riuscisse a malapena a venir fuori, graffiando contro la gola. «Che hai fatto? Quella povera ragazza...»

Maeriyel serrò le labbra, sentendo i muscoli farsi tesi. Doveva immaginare che la notizia non avrebbe tardato a giungere alle orecchie di tutto il paese. Forse era stata proprio Geneviève ad avvisare sua madre: teneva lo sguardo basso e tornò subito ad armeggiare con le pentole sul fuoco, dando loro le spalle.

«Mi dispiace» sussurrò Maeriyel, tenendo gli occhi fissi sulla tovaglia ricamata che copriva il tavolo. «Non volevo farle del male, abbiamo litigato e ho perso il controllo. È stato un incidente, non... Non succederà più.»

«Tu sei un demone» sibilò sua madre a denti stretti, battendo una mano sul tavolo. «Sei deviata e crudele. Eumeric non mi credeva, ma tu sei figlia della Dama della Notte, non nostra. Non mia!»

Maeriyel deglutì, chiudendo gli occhi. Afferrò la stoffa nera tra le mani e strinse più forte che poteva, sentendo il collo pulsare ad ogni battito del suo cuore.

"Non ci pensare, non ci pensare. Non devi pensare a niente. Puoi farcela, se tieni tutto fuori."

«Te lo meriti, Maeriyel» proseguì Lisaëlle, sibilando di una soddisfazione perversa. «È tutta colpa tua. Hai rovinato tutto, tu e le tue maudites piante. Non mi interessa se è anche il mio orto, è la giusta punizione: meriti tutto quello che ti hanno fatto.»

Gli occhi di Maeriyel si spalancarono in un sussulto, ma incrociare quelli di sua madre non fu di alcun aiuto. Una sgradevole sensazione si artigliò al suo petto e strisciò come un serpente lungo tutto il corpo, sedimentando nel suo stomaco.

Cosa c'entrava l'orto?

Maeriyel si precipitò fuori, ignorando le lamentele di sua madre che aveva ricominciato a parlare. Respirava in affanno mentre aggirava il perimetro della sua abitazione, il cuore che martellava nel petto, tra le orecchie, nella gola.

Pregò di essersi sbagliata, che la sua intuizione fosse solo frutto delle sue paure. Sua madre delirava, vedeva e sentiva cose che non esistevano, i suoi ragionamenti non seguivano alcun filo logico. Non sapeva di cosa stava parlando, di sicuro.

Non poteva essere vero. Non potevano averlo fatto.

"Signore della Luce, ti prego. Ti prego, ti prego..."

Maeriyel svoltò l'angolo, affacciandosi sul retro. Una staccionata bianca delimitava un appezzamento di terra di discrete dimensioni che Eumeric aveva seminato personalmente. Lì aveva insegnato a sua figlia come prendersi cura delle coltivazioni, piantando con lei ortaggi e spezie, e insieme avevano continuato ad occuparsi di ciò che cresceva anche quando sfruttare i frutti dell'orto non era più necessario.

Di tutte le piante a Vou-la-Forêt, quelle erano state le preferite di Maeriyel. Erano state quelle che aveva imparato ad amare per prime, di cui aveva sentito la sofferenza sin da bambina, tanto che Harvestide era sbocciato in lei proprio in quel luogo. Erano state quelle di cui conosceva ogni foglia, che aveva visto nascere e fiorire, accompagnandole nella crescita come una madre fa con un figlio.

Erano state.

Perché adesso non restava più nulla.

Sul terriccio smosso giacevano radici estirpate, fusti spezzati, foglie ridotte a brandelli. Resti di una carneficina che non aveva risparmiato alcunché: ovunque posasse lo sguardo, Maeriyel vedeva il teschio fracassato di una zucca, la pelle squarciata delle lattughe, sangue schizzato via dai pomodori spiaccicati. I rami sottili delle spezie si ammassavano l'un l'altro come corpi abbattuti e squartati, gli arti martoriati che penzolavano lungo tutto il campo.

Cadaveri su cadaveri. Un groviglio di membra morte che la fissava con occhi vacui, che un tempo erano stati azzurri.

Maeriyel boccheggiò, incapace di respirare. Non sentiva più il corpo, come fosse sospesa a mezz'aria, schiacciata dalla pressione che premeva contro il suo petto e la spingeva contro il suolo. Vi schiantò le ginocchia, liberando un singhiozzo dalle labbra tremanti.

Urlò. Gridò così forte da perdere la voce, setacciando l'orto in un raptus violento: si gettò per terra e scansò le spoglie esanimi cercando tracce di vita, una singola radice ancora intatta, qualcosa, qualunque cosa che fosse sopravvissuto alla carneficina. Scavò fino a far sanguinare le unghie, sorda persino al battito del suo cuore, scavò con la vista appannata e il respiro che graffiava la gola in singhiozzi veementi, ma più proseguiva e più moriva pezzo dopo pezzo anche ciò che restava della sua anima.

Te lo meriti, Maeriyel, sibilò sua madre nella sua mente. Meriti tutto quello che ti hanno fatto.

Lacrime sgorgavano senza sosta dai suoi occhi mentre gemeva e urlava, fin quando non vennero meno anche le forze per muovere le braccia. Li avevano uccisi tutti quanti, tutti quanti, solo per farla soffrire. Centinaia di vite strappate per vendetta. Maeriyel aveva promesso di proteggerli, invece erano tutti morti per causa sua.

Maeriyel urlò di nuovo, crollando tra le piante prive di vita. Si abbandonò tra i cadaveri come fosse una di loro e strinse quei resti tra le mani sanguinanti, il petto scosso da un pianto rabbioso che non riusciva a fermare. Tale era la sofferenza che persino il suo cuore sembrava essersi fermato: non lo sentiva più, non sentiva niente che non fosse quell'oscurità che le era entrata dentro e l'aveva svuotata di ogni cosa.

Era tutto scomparso. Hervé se n'era andato, Eumeric se n'era andato, le piante che aveva cresciuto come figlie e sorelle se n'erano andate e quelle che aveva giurato di proteggere avrebbero fatto presto la stessa fine.

Non restava più nulla, forse nemmeno lei. Era morta un poco alla volta ed era rimasta solo la cenere. Restavano solo lacrime, dolore e sangue.

Lacrime, dolore e sangue.

E poi, le tenebre inghiottirono anche quelli.



Questa settimana un capitolo un pelino più breve, ma ricco di introspezione ♥

Maeriyel sta continuando ad accumulare, accumulare, accumulare, e la sua mente già in pezzi non riesce più a stare al passo. Non riesce neanche ad elaborare lucidamente quello che è successo, pensieri ed emozioni si mescolano tra presente e passato, senza lasciarle tregua.

Riuscite a sentire il suono di Maeriyel che si rompe del tutto? Io sì. Adesso abbiamo davvero toccato il fondo, era rimasto un filo sottile a sorreggerla e i suoi "cari amici" hanno spezzato persino quello.

Certo, si tratta "solo di un orto", ma se uniamo il legame che Maeriyel ha con le piante al fatto che quello è l'orto che coltivava con suo padre... Insomma, è stata una vendetta proprio da stronzi, diciamocelo.

Non dimentichiamo che la signorina qui non è innocente, ha spezzato le dita a Eliette e le ha lussato la caviglia, ma questo basta a giustificare un atto del genere? O guardandola dall'altro lato, basta a far "dimenticare" l'aggressione di Maeriyel?

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