I need you

By eleonore_hensley

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Dopo l'arresto del padre, Isabel sembrava aver finalmente ritrovato la sua pace interiore. Dedicò tutta la su... More

Avvertenza
Dedica
Prologo
Logan (2)
Isabel (3)
Isabel (4)
Isabel (5)
Logan (6)
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Logan (23)
Isabel (24)
Isabel (25)
Epilogo
Ringraziamenti
CAPITOLO BONUS

Isabel (1)

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By eleonore_hensley

"Ora mi sento come se stessi aspettando qualcosa che so che non arriverà mai, perché adoro illudermi e sperare, ti senti più vivo mentre lo fai."
Charles Bukowski

Erano passati ormai quasi due anni dall'arresto di James. E nonostante per me lui non contasse nulla, mi sentivo smarrita.

Iniziai a pensare che forse la colpa fosse la mia; non ero mai stata la figlia modello che pretendeva, il mio rendimento scolastico non era dei migliori, mi truccavo troppo e secondo il suo pensiero mi vestivo in un modo poco consono.

Avrei potuto fare qualsiasi cosa, ma per lui sarei sempre stata sbagliata e forse lo ero davvero. Nell'ultimo periodo l'unica cosa che era realmente in grado di farmi sentire bene era la lettura.

Con il tempo, insieme alla scrittura, era diventata una vera e propria valvola di sfogo. Le amavo perché mi davano la possibilità di esprimermi in qualsiasi modo io volessi e soprattutto dar spazio alla mia immaginazione.

Non avevo limiti, potevo inserire qualsiasi cosa mi passasse per la testa, dalle idee più strane a quelle più originali. Era qualcosa di mio, che nessuno avrebbe mai potuto portarmi via. Scrivevo romanzi in cui i protagonisti non si giuravano amore eterno perché la loro era una storia impossibile, dolorosa. Un qualcosa destinato a finire prima ancora di poter germogliare.

Ormai la stesura di questo tipo di trame era diventata il mio pensiero costante, non riuscivo più a farne a meno. Proprio per questa ragione, mi iscrissi alla facoltà di lettere, con una durata triennale. Avevo intenzione di diventare una scrittrice di successo, di diventare conosciuta per qualcosa che era frutto del mio duro lavoro.

Sarebbe stato il mio libro, con la mia copertina e le mie parole, a volte belle come la luna, altre taglienti come lame di un coltello. E con esse, ambivo a far sentire speciali tutti i miei lettori. Avrei voluto farli sorridere ed essere il loro posto sicuro, quello dove avrebbero potuto rifugiarsi in qualsiasi momento.

La storia che stavo scrivendo narrava di una ragazza che non aveva avuto un'infanzia semplice per via del malsano rapporto con la figura paterna. Odiava il mondo intero perché gliel'avevano fatto vedere nel peggiore dei modi. Non riusciva a mettere piedi fuori di casa perché sentiva lo sguardo delle persone puntato su di sé, aveva paura che potessero giudicarla per il suo modo di vestire o per la sua forma fisica.

Lottava contro l'autolesionismo, l'unica cosa che apparentemente la faceva sentire viva. Sembrava che tutto procedesse per il verso giusto, ma finì per scontrarsi con Adam: il classico ragazzo in grado di far cadere ai suoi pieni qualsiasi essere femminile dotata di un organo riproduttivo.

Tuttavia, sembrava essersi interessato alla protagonista. Sembrava intenzionato a intraprendere una relazione di tipo sentimentale e a concederle tutte le attenzioni necessarie per una sana relazione. Insomma, l'unica fonte di salvezza a cui la ragazza si sarebbe potuta aggrappare nella speranza di un futuro migliore.

Così, si fidò di lui donandogli mente e corpo. Gli concesse tutto ciò di cui disponeva, ma si rivelò un perfetto stronzo.

L'aveva tradita per una stupida scommessa. E quando lei lo venne a scoprire, si infuriò con il mondo intero, ma anche con sé stessa per avergli concesso un'opportunità.

In tante l'avevano avvisata sul carattere del ragazzo, ma lei si era sempre schierata dalla sua parte, come se avesse degli enormi prosciutti sugli occhi e dei tappi nelle orecchie.
Ovviamente, nonostante i suoi inutili pianti da coccodrillo, lei non lo perdonò.

Voglio dire, chi sarebbe così idiota da perdonare una tale mancanza di rispetto? Tradire non è un errore ma una scelta. Perché l'amore non ha ripensamenti. Per quella ragazza però, il mondo non riservò speranza e la storia per i due finì nel peggiore dei modi. Si lasciò andare, abbandonando il mondo terreno.

E solo in quel momento, Adam capì che in realtà l'unica donna che avrebbe voluto per sempre al suo fianco sarebbe stata sempre e solo lei. Ma ormai non si poteva più tornare indietro.

Bisogna sempre pensare due volte a ciò che si dice e a quali potrebbero essere le conseguenze delle proprie azioni. Lui lo aveva capito, tardi, ma l'aveva capito.

L'avrebbe ricordata come il suo più bel rimpianto, un bene prezioso di cui non poteva più disporre. Avevo quasi terminato il finale, ma la mia mente si concentrò sulla presenza di mia madre che faceva avanti e indietro per tutto il salotto, sembrava essere parecchio agitata.

Posai lo sguardo su di lei per poi riportarlo sul mio portatile, dovevo rimanere concentrata su ciò che stavo facendo o avrei perso tutta l'ispirazione. Inspirai e continuai a digitare la mia storia. «Isabel», mi richiamò e in quel momento, la sua voce parve un grosso rumore nella mia dolce melodia. Decisi di non risponderle, mi avrebbe solo deconcentrata dal mio obiettivo.

Lei però non si scoraggiò; si posizionò di fronte a me con le braccia incrociate, stava chiaramente aspettando che la degnassi della mia attenzione. Sbuffai e salvai il mio manoscritto prima che potessi perderlo e mi concentrai su di lei.

Mi rivolse un sincero sorriso e si sedette al mio fianco. «Ti devo parlare di una cosa molto importante» mi comunicò e si assicurò che la stessi ascoltando. Prestando attenzione ai dettagli, notai che stava giocherellando con il suo braccialetto preferito, come se stesse per dirmi qualcosa di molto importante, ma soprattutto di serio.

«Ti ascolto», affermai, per incitarla a parlare. Non avevo molto tempo, avrei dovuto portare a termine ciò che avevo iniziato.
«Beh... Ricordi l'avvocato Smith?»
Come dimenticarlo, quell'uomo era stato l'unico in grado di aiutare me e mia madre nella causa contro James.

Lui finì subito in carcere, condannato a ventun anni di reclusione, senza cauzione. Inoltre, si occupò dei documenti del divorzio che inizialmente James non volle firmare, solo sei mesi dopo decise di compilare tutte le carte necessarie e mia madre diventò a tutti gli effetti una donna libera.

Ma non era finita lì, perché quando lo arrestarono intervennero anche gli assistenti sociali che ritenevano anche mia madre colpevole. Insinuavano che lei sapesse tutto e che glielo lasciasse fare, come se fossi il suo giocattolo personale. Inutile dire che non era affatto così, il motivo per cui mia madre non aveva mai proferito parola era solamente perché era convinta che questa cosa succedesse solo a lei.

E come se non bastasse, era a capo di un brand di gioielli molto conosciuto e si ritrovava a viaggiare molto spesso per questioni lavorative, il tempo che trascorrevamo insieme era davvero pochissimo.

Nell'ultimo periodo avevo notato che, nonostante la causa tra lei e James fosse finita, l'avvocato Smith e mia madre si vedevano spesso. Diceva che era per motivi di lavoro e che la stava aiutando con alcuni documenti burocratici per il suo brand.

Non ero stupida, avevo capito benissimo che la loro era una frequentazione a tutti gli effetti. Tuttavia, non mi ero mai espressa perché pensavo fosse una cosa passeggera ed oggettivamente, era un uomo con un certo fascino.

«Sì, me lo ricordo», confermai e le mie orecchie si prepararono a sentire il peggio. Avevo già capito cosa avesse intenzione di dirmi e la cosa non mi piaceva per niente. Non volevo un altro uomo al suo fianco, non volevo che trascorresse meno tempo con me per stare con lui, non volevo condividerla con nessuno.

«È lui l'uomo con cui mi frequento, da circa sei mesi» mi confessò. Me l'aveva davvero nascosto per tutto questo tempo? «Sei mesi? stai scherzando, mamma?» le chiesi, incredula. Non riuscivo a realizzare che mi avesse nascosto una cosa del genere. «Capisco che sei arrabbiata Isabel, ma prova a capirmi, avevo paura che ti facessi di nuovo del male» mi rivelò, sull'orlo di un pianto.

In quel momento la trovai davvero patetica, talmente tanto che scoppiai in una grossa risata. Stava dando la colpa ai disturbi che mi avevano diagnosticato circa due anni fa: l'ansia e l'autolesionismo. Il giudice, prima di stabilire la condanna di James, chiese un confronto psicologico. Avevo bisogno di parlare con qualcuno e stupidamente le confessai tutto.

Di conseguenza, dovette riferire tutto sia a mia madre che al giudice. Lo psicologo in realtà ha l'obbligo di mantenere il segreto professionale, ma quando si verifica una qualsiasi situazione che può mettere in pericolo la vita del paziente o di altre persone a lui vicine, è autorizzato a romperlo.

Ed io le dissi che provavo piacere ad infliggermi dolore, una confessione abbastanza pesante che la obbligò a parlare. Mia mamma non fu molto sorpresa dalla notizia, aveva già capito che gli ultimi anni avevano suscitato in me pensieri intrusivi. Una mamma riconosce quando il proprio figlio sta male o sta affrontando qualche difficoltà.

Nonostante i vari disguidi che si possono affrontare, la mamma è pur sempre la mamma.

Quindi, dopo la conferma della mia evidente instabilità mentale, ritenne indispensabile farmi iniziare una terapia. Nel mio caso durò un lunghissimo anno, fino al compimento dei miei diciotto anni. Ero contraria a questa sua iniziativa, la trovavo priva di senso, ma non voleva ascoltarmi.

E in quanto minorenne, non potevo oppormi più di tanto. Inoltre, mi ripeteva in continuazione che mi faceva seguire questo percorso solo per il mio bene. Sosteneva che un giorno l'avrei ringraziata. Così, seppur controvoglia, mi recai ad ogni singolo incontro. C'era solo una regola: non parlare. In questo modo, non avrebbe potuto mettere mano nei miei pensieri.

Varcata la soglia d'ingresso del suo patetico studio, la mia voce cessava di esistere. Non riuscivo a confidarmi con la stessa persona che aveva tradito la mia fiducia tempo prima. Per carità, sapevo benissimo che stava semplicemente svolgendo il suo lavoro ma non ne volevo saperne nulla. Non potevo rischiare che i miei segreti venissero allo scoperto.

Lo stesso ragionamento lo applicavo per le persone con cui mi frequentavo. Non parlavo per paura che riuscissero a comprendere ciò che avevo subito. Non volevo che mi vedessero come una stramba e mi vergognavo terribilmente del mio passato perché non avevo mai fatto niente per far sì che mi aiutassero.

Non avevo mai spiaccicato parola e mi sentivo così in colpa, ero convinta che se ne avessi parlato prima, mia mamma non avrebbe mai subito la mia stessa condanna. La colpa era solo mia.

Tuttavia, dovevo ammettere che lei ebbe la forza di riprendersi quasi subito. Iniziò una terapia con la mia stessa psicologa e riuscii a liberarsi da tutto il male che la affliggeva. Spesso e volentieri mi sollecitava a riprenderla, cosa che non avrei mai fatto.

Ero stanca di parlare dei miei problemi, non avrebbe risolto nulla, avrebbe solo riportato a galla tutti i mostri che cercavo di nascondere nell'armadio. «Oh no, no, non provare minimamente a dare la colpa a quello. La verità è che non hai avuto il coraggio di parlarmene, non vuoi ammettere a te stessa che mi hai mentito per sei fottutissimi mesi!» sbottai, fuori di me.

Misi le mani fra i capelli, intenzionata a tirarli tutti, uno ad uno. Deglutii e presi un bel respiro, l'ansia mi stava divorando. Vedendo ciò, si precipitò istintivamente su di me provando a impedire che mi facessi del male, cingendomi tra le sue braccia. Contatto che rifiutai senza pensarci due volte, doveva stare lontana da me.

Non amavo le dimostrazioni d'affetto, soprattutto in momenti come quelli, dove la rabbia prendeva il sopravvento. Non le diedi neanche il tempo di commentare la mia azione che corsi nella mia stanza e chiusi la porta a chiave. Volevo la mia privacy.

Mi accasciai sul pavimento, poggiai la schiena sulla fredda superficie della porta e con le braccia avvolsi le gambe. Per un attimo ebbi la sensazione che il cuore stesse per uscire dal petto, lo sentivo dritto in gola. Respirare diventava sempre più difficile.

Era come se sentissi le mani di qualcuno stringere sul collo. Avevo paura di perdere il controllo. Iniziai a sudare a freddo mentre il mio corpo non smetteva di tremare. Tremavo dalla testa ai piedi: dovevo assolutamente far qualcosa per cercare di fermare questa opprimente sensazione.

E l'assoluto bisogno di farmi del male prese il sopravvento. Non riuscivo più a reggere il peso di quelle fottute emozioni, il dolore fisico era molto più semplice da gestire rispetto a quello psicologico. Il dolore psicologico scava dentro l'anima, ti prende il cuore e lo sgretola in mille pezzi. Quello fisico invece, dura solo qualche frazione di secondo, esattamente come uno schiaffo.

E io di schiaffi ne avevo ricevuti così tanti da averne perso il conto.

Anche se oggi mi hanno resa la persona più fredda del mondo, erano molto più semplici da tenere a bada. Sentivo tanti piccoli chiodi dentro di me che, secondo dopo secondo, si spingevano sempre più in profondità. Ero nel panico più totale e iniziavo a temere per la mia vita. Il mio obiettivo in casi come questo era solo uno: farmi più male di quanto potessero procurarmene.

Solo dopo sentivo il bisogno di curarmi, di prendermi cura di me stessa, del mio corpo e delle mie ferite. In poche parole, mi liberavo del dolore con altro dolore. Sfilai l'orecchino dal lobo sinistro che utilizzavo spesso per farmi del male, poiché la sua struttura era appuntita e ben affilata, perfetta per i miei scopi.

Lo afferrai e iniziai a sfregarlo velocemente sul braccio. La pelle delicata si squarciava subito, creando una sensazione di bruciore su tutta la zona interessata. Sangue, avevo bisogno di vedere uscire del sangue. E così feci, strizzavo gli occhi e stringevo le gambe mentre la punta dell'orecchino faceva movimenti veloci sulla mia pelle.

Lo facevo con forza, con l'intento di lasciare più segni possibili, in quel momento avrei solo voluto strapparmi la pelle di dosso. Continuai finché il mio braccio non fu inondato dalle goccioline rosse. Una meravigliosa sensazione di leggerezza si addentrò dentro di me, facendomi sentire rinata. Come se fossi su una soffice nuvola, morbida e confortevole.

Questo succedeva perché il mio corpo aveva appena iniziato a rilasciare delle endorfine. Quelle piccole sostanze che produceva il mio organismo, erano in grado di farmi sentire quasi viva.

Non appena riuscii a calmarmi guardai i segni, dovevo controllare se avessi fatto un buon lavoro. Tracciai con il pollice tutto il contorno e mugolai quando il bruciore mi pervase.

Sospirai e mi tolsi la maglietta, avevo bisogno di fare una bella doccia, dovevo far affogare i pensieri nell'acqua. Tolsi i vestiti e aprii il getto, avvertendo una sensazione di totale relax. Afferrai il bagnoschiuma e iniziai a spargerlo su tutto il corpo. Strofinavo la pelle con pochissima delicatezza, sentivo la necessità di togliermi lo sporco che sentivo addosso.

La mia pelle ormai era diventata tutta rossa, ero certa che se avesse potuto urlare l'avrebbe fatto. Dopo circa un'ora e mezza trascorsa in doccia, indossai l'accappatoio e uscii fuori. Presi il telefono, aprii la rubrica e in fretta e furia digitai "Allison", avevo bisogno di parlare con lei. Grazie a Dio, dopo un solo squillo mi rispose.

Lo poggiai sopra il lavandino e impostai il vivavoce. «Stasera, solo io e te, al Movice Club.» Le comunicai, mentre con la pinzetta mi sistemai le sopracciglia. Il luogo che avevo appena indicato era la discoteca più conosciuta di Vancouver, il posto per eccellenza dove potersi divertire senza limiti.

Avevo bisogno di uscire e divertirmi, di mettere a tacere tutti quei brutti pensieri che avevo nella testa. «Ci sarò», ci mise solamente un secondo per confermare i miei piani, facendomi sentire soddisfatta.

La conobbi alle scuole elementari e da quel momento, abbiamo legato sempre di più, fino a diventare inseparabili. Era l'unica persona con cui mi confidavo. Al suo fianco mi sentivo al sicuro, dava un senso anche alle mie giornate più buie.

Mi conosceva così bene che non mi chiese neanche il motivo per la proposta inaspettata. Aveva già intuito che stessi male e che avevo solo bisogno di distrarmi. Le avrei raccontato tutto non appena ci saremmo viste. Dopo esserci messe d'accordo sull'orario e il posto in cui avremmo dovuto vederci, corsi a prepararmi. Indossai un vestito nero con le maniche lunghe, esso metteva in risalto tutte le mie curve che, con il tempo erano diventate sempre più evidenti.

Era ricco di brillantini e aveva un'ampia scollatura a forma di V, che personalmente adoravo. Le spalline erano più sottili, ma la cosa non mi dispiaceva affatto. Anzi, lo rendeva ancora più particolare. L'abito terminava poco prima del ginocchio, di conseguenza, non potevano mancare gli accessori.

Scelsi una collana d'argento lunga che cadeva all'interno della scollatura e degli orecchini, anch'essi molto lunghi, abbinati alla collana. Solo dopo passai al trucco, con il pennellino stesi l'ombretto bianco su tutta la palpebra e per completare, misi dell'eyeliner nero.

Quando mi guardai allo specchio non fui soddisfatta di ciò che vidi, era fin troppo semplice. Così, decisi di frugare ancora nel cassetto dei trucchi e a mia sorpresa trovai una cosa che mi ero completamente dimenticata di avere: i brillantini. Ovviamente, non potevo non aggiungerli al make-up.

Li posizionai sull'ombretto e il risultato era un qualcosa di pazzesco. Sulle labbra invece, applicai un rossetto rosso. Infine, sistemai i capelli raccogliendoli in una coda e lasciai cadere due ciocche sul volto. Spruzzai il profumo ovunque; sul vestito, sul collo e sui polsi. Era così forte che la camera rimase impregnata di quella dolce fragranza.

E dopo aver infilato i tacchi, ero pronta per uscire. Ero proprio uno spettacolo. Presi la borsa e all'interno ci misi il telefono, i fazzoletti, le Marlboro, l'accendino e il portafoglio.

Onestamente penso che noi donne abbiamo una dote: riuscire a far entrare tutto in un piccolissimo spazio. E dopo la guerra con quella minuscola borsetta, scesi giù in cucina e trovai mia madre impegnata in una conversazione telefonica.

Sembrava essere molto concentrata, non si era neanche accorta della mia presenza. Emisi un falso un colpo di tosse che richiamò la sua attenzione e non appena si voltò verso di me, interruppe in modo brusco la chiamata.

Per un attimo ebbi la sensazione che non potesse farmi sentire l'argomento di cui stava parlando e la cosa mi preoccupò parecchio perché non mi aveva mai nascosto nulla, o almeno, non prima di qualche ora fa. Non c'erano segreti fra di noi, era la nostra regola.

«Io sto uscendo con Allison. Non aspettarmi, faccio tardi» la avvisai, esercitando un'eccessiva indifferenza. Sapevo che non avrebbe obiettato, tra di noi funzionava così. Ad ogni piccolo litigio o incomprensione, uscivo la sera e tornavo a casa la mattina seguente.

Lei in realtà ormai non osava più neanche opporsi perché sapeva già che non le avrei dato ascolto, l'unica cosa che voleva sapere era con chi fossi oltre al luogo.

«Dove vai?», mi domandò, studiando con molta attenzione il mio abbigliamento. In particolare, si soffermò sulla scollatura superiore, dal suo sguardo mi fece comprendere che non le piaceva ciò che stava osservando. «Al Movice Club», risposi.

Le anticipai che ci avrebbe accompagnato la signora Walker, la mamma di Allison, dato che era molto lontano da casa nostra. Quella donna era così gentile da essersi messa a disposizione per riaccompagnarmi, tutto ciò per far stare più tranquilla mia madre.

Conoscendola, avrei rischiato di ricevere telefonate ogni cinque secondi. «State attente», fu l'ultima cosa che disse prima di salire nella sua stanza. Uscii fuori di casa e mi resi conto che loro due erano già lì ad aspettarmi, in perfetto orario.

La mia amica era davvero bellissima, sembrava essere un angelo caduto dal cielo. Aveva indossato una gonna rosa che metteva in risalto il suo invidiabile fisico a clessidra. Era più bassa di me ma ben proporzionata, in più il top bianco dava luce al suo dolce viso.

Caratterialmente, era sempre disponibile. Insomma, era la definizione in persona di ragazza perfetta. Più la osservavo e più mi rendevo conto che io e lei in realtà, nonostante stessimo benissimo insieme, eravamo l'uno l'opposto dell'altra.

Lei amava, io non sapevo farlo.
Lei sperava, io trovavo la speranza un'arma inutile con cui distruggere la sanità mentale.
Lei splendeva, io mi spegnevo pian piano.
Lei era destinata ad avere un futuro brillante, io ero destinata a marcire nell'oscurità.

La signora Walker ci lasciò all'entrata del Club e andò via. Dall'esterno si poteva già sentire la musica a tutto volume provenire dall'interno. Afferrai la mano di Allison ed insieme superammo la soglia di ingresso.

Era incredibile che quel posto, talmente grande e lussuoso, non possedeva alcuna sicurezza. Nessuno controllava i documenti o si accertava che non entrassero ragazze al di sotto dei diciotto anni, cosa che la me adolescente avrebbe amato alla pazzia.

Entrata, mi ritrovai davanti ad un corridoio lunghissimo dove notai la presenza di parecchie stanze. Erano sei camerini, tre pubblici e tre per tutto il personale che lavorava lì. Noi decidemmo di entrare nel secondo, quello dove sembravano esserci meno capi, Ally aveva bisogno di sistemare il cappotto, io invece non mi ero neanche curata di indossarlo.

Sistemato ciò, ci dirigemmo in pista. Il dolce odore dell'alcool mi invase le narici e la voglia di assaporare qualcosa di pesante prese la meglio. E nonostante non fossi in grado di reggerlo, lasciai vincere il desiderio. Mi avvicinai al bar e ordinai un bicchiere di Chupito, un superalcolico.

Per Allison invece, un bicchiere di Beverly, una bevanda analcolica per santarelline come lei. Non amava bere e la maggior parte delle volte si accontentava di un semplice succo o in alternativa un tè alla pesca. In un solo sorso mandai giù tutto il contenuto del bicchiere.

Feci scivolare la bevanda dentro di me come se fosse dell'acqua. Poco dopo le vocine nella mia testa iniziarono a sparire per lasciare spazio al puro divertimento, quanto cazzo amavo quella sensazione.

Tornai nell'enorme pista circondata da persone di ogni età e il destino volle che in quell'esatto momento partì il remix della mia canzone preferita, 'Sacrifice' dell'artista The Weeknd.

La amavo, perciò, non persi tempo e mi feci trasportare dalle note musicali. Ondeggiai i fianchi a ritmo con una naturalezza che non avevo mai avuto, sembravo esser entrata in un sogno, un sogno in cui c'ero solo io e nessun altro.

Un sogno in cui per la prima volta, ero la protagonista. La sensazione di spensieratezza che provavo in quel momento era a livelli assurdi. Non mi ero mai sentita così bene con me stessa.

Continuai a scatenarmi fino a quando non notai un ragazzo tra la folla, incantato a fissare tutti i miei movimenti, dall'espressione del suo volto sembrava che mi stesse divorando con gli occhi.

Gli rivolsi un sorriso, soddisfatta di aver attirato l'attenzione di qualcuno fra i presenti e continuai a divertirmi, non volevo e non potevo assolutamente farmi venire i complessi mentali per un ragazzo che non conosceva neanche il mio nome.

Mi voltai per cercare il mio rifugio, l'avevo perso di vista. C'era una marea di gente e non riuscivo a capire dove si fosse cacciata, spostai di poco la testa di lato e la vidi. Stava parlando con un ragazzo. Rimasi a guardarla per un po' finché non si voltò verso di me, mi limitai a sorriderle e a farle un occhiolino, poi tornai a muovermi.

Era così bella la sensazione di vivere in piena libertà, senza pensieri per la testa. Ma soprattutto, ignorando il pensiero delle persone accanto a me. E nonostante non fosse la cosa più semplice da fare, quella sera, probabilmente per l'effetto dell'alcool, ci stavo riuscendo.

All'improvviso, mi arrivò un'incantevole ondata di profumo, sembrava essere menta. Subito dopo sentii due possenti braccia afferrarmi i fianchi e seguirne i momenti. Quando mi voltai, trovai lo stesso ragazzo che avevo sorpreso a fissarmi poco prima, ma non mi ero accorta di quanto fosse sexy.

Era decisamente più alto di me, perciò dovetti alzare la testa per specchiarmi nei suoi occhi marroni. I capelli corvini, sistemati con precisione, davano un aspetto formale al suo volto. Le sopracciglia invece, erano più scure di ciò che la mia anima nascondeva.

Le labbra erano molto carnose e il suo naso a mio parere era semplicemente perfetto. Indossava una camicia bianca dalla quale potevano trasparire gli addominali e dei jeans neri che sembravano nascondere la presenza di qualcuno al suo interno.

Mi incantai nel suo sguardo fino a che non mi rivolse un sorriso. Lo ricambiai per educazione e poggiai la mano sul suo collo continuando a seguire le note della canzone, ma questa volta vicino a lui.

Capitava spesso che mi finissero delle piccole ciocche di capelli davanti agli occhi e lui con molta delicatezza li spostava, non aveva distolto neanche per un secondo gli occhi dal mio corpo.

Sembrava uno di quei classici ragazzi all'apparenza innocenti ma con un immenso casino dietro le spalle. Provai una profonda attrazione nei suoi confronti e, in qualche modo, parve capirlo. Mi spinse contro il suo corpo, adattandosi completamente a me.

Il suo fiato, caldo e confortevole mi premette sul collo creando una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Ero così stordita da quell'emozione mai provata prima che non mi resi conto di quello che stava per succedere.

La tensione che ci avvolgeva aumentava a dismisura, perciò non esitò neanche un secondo di più. Premette le sue labbra sulle mie in un bacio che, istintivamente ricambiai posizionando le mie braccia attorno al suo collo.

Percepii la sua lingua sfiorare la mia, un'azione delicata che mi risvegliò dal sogno che stavo vivendo facendomi sussultare. Staccai le mie labbra dalle sue dando così fine al nostro contatto fisico. E solo in quel momento capii l'enorme cazzata che avevo appena commesso.

Senza rifletterci troppo corsi in bagno, lasciando quel ragazzo lì, privo di spiegazioni. Mi accasciai sul pavimento e rigettai tutte le sensazioni che avevo provato. Provai un enorme ribrezzo verso me stessa, ero stata una grandissima idiota.

Mi ero promessa che non avrei avuto alcun tipo di contatto fisico con gli uomini, perché sono tutti uguali. Nessuno escluso. Gli uomini per me sono un qualcosa che la natura ha progettato solo per poter evitare l'estinzione della nostra specie, nient'altro. Non sono in grado di trasmetterti nulla, se non la loro frustrazione.


Santo cielo, perché l'ho fatto?
Sospirai e tirai fuori un fazzoletto dalla borsa per potermi pulire le labbra, non riuscivo ancora a crederci. Per alcuni poteva sembrare un gesto banale, privo di significato, per me invece era l'esatto contrario.

Come sempre, non ero riuscita a rispettare la promessa che mi ero imposta. Non riuscivo mai a portare a termine niente. Sei proprio una nullità, Isabel. Mi sentivo, ed ero, un vero e proprio disastro. Uscii dalla porta del bagno per potermi lavare le mani, non volevo stare un minuto di più in quel posto. Avevo bisogno di uscire.

Quel posto era diventato troppo piccolo per i miei gusti. L'aria iniziava a mancare. Dovevo solo trovare la forza di uscire dal bagno per trovare Allison, ma avevo paura di trovarmi quel ragazzo davanti. Chissà che cosa aveva pensato di me. Che situazione.

Tirai fuori il telefono dalla borsa e le scrissi che l'avrei aspettata fuori. Successivamente, non sapevo neanche io come, presi coraggio e uscii fuori dal locale. Nicotina, avevo bisogno della mia fottuta nicotina. Sfilai una sigaretta dal pacchetto delle Marlboro e l'accesi. Continuavo ad aspirare il fumo e rigettarlo dalla bocca.

Avevo davvero tante dipendenze, ma quella mi fotteva per eccellenza era proprio quella. Ogni volta che mi agitavo, che facevo brutti sogni o mi innervosivo, bastava fumare. Sapevo che ciò comportava vari rischi, ma ad essere sincera, quello era l'ultimo dei miei pensieri. Ricordo che iniziai a fumare all'età di tredici anni, decisi di provare per scherzo dato che tutti i miei coetanei lo facevano.

Volevo sentirmi alla loro altezza quindi continuai a farlo tutte le volte che uscivo con loro. Ed eccomi qua, all'età di diciannove anni, schiava della nicotina. Ero già alla terza sigaretta quando finalmente vidi Allison uscire dal locale, se ci avesse messo più tempo non mi sarei fatta problemi a finire l'intero pacchetto.

Mi guardò confusa, era solo mezzanotte e mezza, la nostra permanenza era stata molto breve. Tuttavia, non ero in vena di dare spiegazioni a nessuno, mi limitai soltanto ad avvicinarmi a lei e afferrarle la mano. «Tutto okay Isa?» mi chiese, con un tono di voce che mi trasmise tranquillità.

Trattenni le lacrime e mi limitai a far cenno di sì con la testa. Sapevo che non mi aveva creduta, aveva la strana capacità di riconoscere quando le mentivo. Alcune volte mi capitava di riflettere sulla nostra società, la maggior parte delle volte siamo tutti troppo superficiali.

Basta sfoggiare un semplice sorriso e pronunciare un 'Sto bene' affinché ti credano. Nessuno va oltre quella banalissima frase. Il perché? beh è molto semplice, a nessuno importa realmente di come stai.
Siamo tutti troppo egoisti.

Camminammo per le strade di Vancouver fino alle due del mattino, era tutto buio. Allison era terrorizzata ed erano numerose le volte in cui l'avevo trovata aggrappata al mio braccio destro.

Mi faceva impazzire quel suo lato da bimba, era così adorabile. Un elemento a suo sfavore però era proprio l'ingenuità. Non era abituata a vedere il mondo per quello che è, era abituata a vederlo sempre rosa e fiori.

Ma non voglio soffermarmi su questo, preferisco elencare un'altra delle sue qualità: l'ironia. Non erano state poche le volte in cui mi ero ritrovata a piangere a dirotto tra le sue braccia e oltre il forte livello di empatia che provava nei miei confronti, cercava sempre di fare qualche battutina o di fare la stupida pur di strapparmi un piccolo sorriso, cosa che le riusciva alla perfezione.

Potevo fare la stronza con tutti, tranne con lei. Era davvero una ragazza fantastica. La cosa che la rendeva più felice in assoluto era aiutare il prossimo. Inutile dire che vederla felice faceva stare bene anche me.

Dopo esserci sgranchite per bene le gambe chiamammo la signora Walker che nel giro di cinque minuti ci raggiunse per poi accompagnarmi a casa. Salutai entrambe e ringraziai la mia amica per la magnifica serata trascorsa insieme.

Era stata come sempre magnifica e liberatoria. Mi sentivo molto più leggera dopo aver trascorso del tempo con lei, tralasciando la mia folle avventura con quel ragazzo. Cercando di fare il meno rumore possibile, aprii la porta posando le chiavi sul mobile.

Tolsi i tacchi e chiusi la porta. Nella casa regnava il silenzio più totale, quindi molto probabilmente mia madre aveva seguito il mio consiglio e si era messa a letto.

Percorsi l'enorme scalinata fino ad arrivare nella sua camera da letto, quando schiusi la porta notai che stava dormendo abbracciata ad un cuscino. Un sorriso involontario apparve sul mio volto.

Ero ancora arrabbiata con lei, ma ciò non significava che non le volessi più bene. Mi tolsi l'enorme quantità di trucco che avevo addosso e indossai la vestaglia, rigorosamente nera. Misi in carica il mio cellulare e poco dopo spensi la luce.

Il giorno dopo...
Erano le nove del mattino quando la sveglia iniziò a suonare come un disco rotto. Mi sentivo ancora distrutta dalla serata che avevo trascorso, ma decisi comunque di alzarmi presto perché avevo delle faccende importanti da sbrigare.

La domenica era l'unico giorno nel quale non ero impegnata con l'università; quindi, potevo permettermi di dedicare del tempo alle mie passioni. La scrittura, dovevo finire il romanzo. Infilai le pantofole e poi scesi giù in cucina dove trovai la tavola apparecchiata e la colazione sul tavolo. Mia mamma si alzava sempre presto e ci teneva ad aspettarmi per poter mangiare insieme.

Quella mattina aveva preparato le crêpes con la nutella, la mia colazione preferita. Sapevo l'aveva fatto per indurmi a perdonarla, cosa che avrei fatto molto volentieri, non si dice mai di no alle crêpes. Sorrisi e afferrai un tovagliolo, ne avvolsi una al suo interno e poi la assaggiai; era semplicemente fantastica.

La divorai in un nanosecondo. Un sapore squisito, come sempre. «Deduco che ti sia piaciuta!» esclamò mia madre, facendo il suo ingresso in cucina. Accennai un sorriso a trentadue denti e mi leccai le labbra, erano tutte sporche di nutella. Avrebbe dovuto farsi perdonare così più spesso, mi piacevano queste scuse.

«Mi dispiace non avertene parlato prima, Isabel» disse, prendendo posto accanto a me. Le rivolsi la mia più sincera attenzione. Ero abbastanza sorpresa della delicatezza con cui si stava scusando, non l'aveva mai fatto in questo modo. «Ti chiedo scusa, non accadrà più», mi promise.

Accarezzò il dorso della mia mano ed io non potei fare a meno di arrendermi, mi sporsi verso la sua guancia e le lasciai un dolce bacio per farle capire che l'avevo perdonata.

Lei, si alzò a sua volta per poi stringermi tra le sue braccia in un caloroso abbraccio. Quella volta però, non la mandai via. Era un bellissimo momento che purtroppo venne interrotto dal suono del campanello.

Dovetti staccarmi dall'abbraccio per andare a controllare chi fosse il rompicoglioni di turno. E non appena lo vidi, rimasi sconcertata. Erano l'avvocato Smith e cinque ragazzi, ma osservando con più attenzione, notai che uno di loro aveva un aspetto familiare, poi realizzai...

Era lui, il ragazzo della discoteca.

/Spazio autrice/

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