Alla ricerca dell'alba

By CuoreAdElica

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๐—–๐—ผ๐—บ๐—ฝ๐—น๐—ฒ๐˜๐—ฎ โœ”๏ธ ๐™ฝ๐šŽ๐š  ๐™ฐ๐š๐šž๐š•๐š ๐Ÿ’š 2/2 Isabella Arese รจ in cerca di emozioni. รˆ in cerca di albe e tra... More

Cast
Premessa
Come un pittore - Parte Uno
Prologo
1. Odio l'estate
2. Anti-eroe
3. Gelati indesiderati
4. Le tipologie variopinte del silenzio
5. Maschere fragili e Mr. Convinzione
6. Fratello maggiore
7. Incarnazione del principio eracliteo
8. Avere diciott'anni
9. Troppo sensibile
10. Heroes - Pt. 1
11. Heroes - Pt.2
12. Che poi da te non รจ Versailles
13. Carpe diem
14. Baby & Johnny
15. I miracoli esistono
16. Cerasรฌ
17. Dieci ciliegie, dieci desideri
18. Non sei come dicono loro
19. La casa in riva al mare
20. Mistica, come le sirene
21. La leggenda di Celentano
22. Colorare i sentimenti - Pt. 1
23. Colorare i sentimenti - Pt. 2
24. Cosa รจ successo il quattro luglio?
25. Cicatrici di ricordi
26. L'abbiamo scoperta noi, Ischia
27. Il marinaio e la sua bussola
28. Ritorno alla realtร 
La lettera
Come nelle favole - Parte Due
29. Einstein รจ a Roma
30. Tribunale d'amore
31. Maledetto tempo
33. Stessa stazione? - Pt. 1
34. Stessa stazione? - Pt. 2
35. Dirsi ti amo senza dirselo
36. Il filo rosso di Arianna
37. Albori
Epilogo
Ringraziamenti

32. Sfiorare manco con una rosa

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By CuoreAdElica





Roma.
Autunno.




Il calore della tazza mi colpì in pieno viso mentre sorseggiavo una camomilla alle otto del mattino, prima di recarmi in ufficio.

Seduta al tavolo di casa, con Le città invisibili di Calvino tra le mani, leggevo coi pensieri occupati. Leonardo entrò in cucina, con il suo camice da tutti i giorni e il cappotto fra le mani.

Si avvicinò alla macchina del caffè, inserendo la cialda e sistemandosi, successivamente, i capelli biondi di lato. Lo percepii fissarmi di sbieco, ma non alzai lo sguardo. Girai una pagina, sospirando.

Nella quieta composta della nostra casa, Leonardo si avvicinò al tavolo, a me. Lo ignorai, sperando che quella fosse la volta buona che pronunciasse un "mi dispiace", ma non lo fece.

Con una mano a scivolare sulla superficie del tavolo, Leonardo si chinò per lasciare una scia di baci, dalla fronte sino alla guancia. Fece per poggiare le sue labbra sulle mie, ma io mi scostai, imperterrita.

In tutta risposta, lui proseguì a baciarmi la mandibola, il collo e sempre più giù. «Questo è il tuo modo di chiedere scusa?» Borbottai, allontandolo con il braccio.

«Scusa? Mi hai fatto dormire sul divano ed io dovrei chiederti scusa?» Chiese, con un tono divertito.

I miei occhi incontrarono i suoi, ma nessuna scintilla illuminò i nostri sguardi. «Lo dici davvero? Hai veramente il coraggio di dire questo?»

«Per cosa dovrei scusarmi? Per aver chiesto alla mia futura moglie di non tornare tardi a casa il sabato sera, visto che c'è il suo futuro marito che l'aspetta? Eh?» Domandò, con la fronte corrucciata e arrabbiato.

Rimasi in silenzio, fissandolo e basta, sperando capisse quanto sbagliato fosse tutto quello. «Allora, se la pensi così, non abbiamo niente da dirci.»

Ritornai a leggere, sorseggiando la mia camomilla.

Leonardo rimase in piedi, immobile a osservarmi come se fossi un cane bastonato, un'intrusa in casa sua. «Sai che c'è?», mi afferrò per il polso, togliendomi la tazza di mano, «Tu adesso la finisci di fare la stronza.»

Mi costrinse ad alzarmi dalla sedia, «Leonardo, mi fai male—»

Mi portò fino alla camera in cui lui non entrava da giorni, «Forse la finirai così», sbottò, spingendomi sul letto, «Dobbiamo sposarci e non scopiamo seriamente da tre mesi, almeno ti si leva l'acidità di dosso.»

«Ma io non voglio, devo andare a lavoro.» Feci per alzarmi ed andar via, ma Leonardo era testardo, e si era già tolto la maglia.

«Non me ne frega assolutamente niente. Almeno io sto provando a salvare un matrimonio!»

Detto ciò, prese a slacciarsi la cintura, per poi sovrastarmi. «Leonardo, non è il momento giusto, ti prego.»

«Per te non lo è, per una volta possiamo pensare per il bene di entrambi?», afferrò i bordi del mio jeans, intimandomi di levarlo. «Che tu sia d'accordo o meno, una scopata farà bene ad entrambi.»

S'incastrò veementemente nel mio corpo, schiacciandomi contro il materasso, premendo il suo viso sulla la mia spalla. Ad ogni spinta sentivo il bisogno di piangere, la mia voce interna diceva di credergli, che forse ci avrebbe fatto bene.

Ma più lo sentivo ansimare, più provava a baciarmi, più provavo dolore. E nella mia mente leggevo solo una scritta: "A tuo malgrado, sarò sempre innamorato di te, perché sono fermamente convinto di appartenerti."

Arrivai in ufficio in ritardo e di corsa. Iolanda mi aveva telefonata più volte ed io le avevo scritto un semplice messaggio che diceva "sto arrivando", mi aveva aspettata all'entrata, con aria preoccupata.

Non volevo parlarle, sapevo mi avrebbe tartassata di domande e mi avrebbe fatto solo più innervosire, avevo la necessità di una sedia, della mia quiete e pace.

«Che fine hai fatto?», chiese, seguendomi a passo svelto, «Pensavo fossi malata e non mi avessi detto niente.»

«Sto bene, mi sono solo svegliata tardi.» Mentii, sorridendo a Micheal che mi diede il buongiorno. «La sveglia non è suonata.»

«Ah, bene, che sollievo...», si poggiò una mano sul petto. «Volevo avvisarti che alle otto e dieci è arrivato un regalo per te.» Mi informò, assumendo un tono misterioso.

«Un regalo per me?» Mi accigliai, «Non ho ordinato niente.»

«No, infatti non l'hai ordinato tu, te l'hanno spedito.» La guardai sempre più confusa, Iole mi fece un occhiolino e sorrise melensa. «È sulla tua scrivania. A dopo!», si dileguò con allegria.

Scossi il capo, facendomi uscire una risatina. Entrai nel mio ufficio, chiudendomi la porta alle spalle. Mi tolsi il cappotto, sistemandolo sull'appendiabiti.

Mi bloccai sul posto, sulle mie stesse gambe, con le mani a mezz'aria e uno sbigottimento a farsi strada sul mio viso. Adagiato con cura sulla mia scrivania, un mazzo di fiori, di rose rosse e bianche, giaceva morbido tra i miei fogli.

Balbettai un: «Ma che diavolo...»

Portai una ciocca dietro l'orecchio, guardandomi attorno come se temessi sbucasse qualcuno da un angolo. Mi avvicinai nascondendo un sorriso, sedendomi sulla sedia odorai una rosa e cercai un bigliettino o qualcosa che mi potesse aiutare a capire.

Lo trovai al centro del mazzo, lo aprii velocemente e lessi: "Ti stavo pensando. Sei libera a pranzo? Chiamami." E con sotto il suo numero di cellulare.

Mi mordicchiai il labbro, coprendomi gli occhi con il foglietto e trattenendo una risata. Mi allungai verso il cellulare nella borsa, digitai il suo numero e prima di premere la cornetta verde, respirai piano.

Rigirandomi una rosa fra le dita, attesi di sentire la sua voce. «Pronto?» Rispose, distratto.

«Sei serio? Un mazzo di rose rosse e bianche?», ridacchiai, appoggiandomi contro lo schienale. «Come ti è venuto in mente?»

Riuscii a vederlo sorridere. Mi era mancata quella sensazione, «Mi hanno sempre detto che le donne non si toccano manco con una rosa, e che si corteggiano. Se non ti piacciono le rose, posso farti arrivare sempre delle margherite, girasoli, peonie, gerani—»

«Mi vanno bene le rose. Grazie, non dovevi.»

«Dovevo eccome.» Mormorò, «E poi— Sì, Marcel, dammi tre minuti.»

«Ti sto disturbando?» Chiesi.

«No, no. Ho un colloquio di venti minuti con dei colleghi dal Canada, non mi disturbi proprio per niente.» Disse, facendomi sorridere, «Mi sai dare una risposta alla proposta?»

«Se sono libera a pranzo?», ripetetti, pensierosa, «Sì, sono libera.» Avevo bisogno di svagarmi, di farmi una sana risata e stare in buona compagnia.

«Perfetto. Ti passo a prendere per...?»

«L'una e mezza?» Proposi.

«Va benissimo. A più tardi, allora.»

«A più tardi. Buon colloquio.»

Attaccai. Con una stramba leggerezza a divampare per tutto il corpo, mi misi a lavoro aspettando l'ora di pranzo. Iolanda era venuta a prendermi in giro per qualche minuto, dicendomi che sembravo una quindicenne alle prese con la sua prima cotta.

Agli ultimi minuti prima dell'una e mezza, sentivo il cuore battere a mille come quando sei sotto al palco ad un concerto. Velocemente, afferrai il cappotto e il cellulare ed uscii dal mio ufficio, salutai Iolanda e controllai se mi fosse arrivata qualche email mentre aprivo la porta dell'edificio.

Il rumore graffiante di un motore mi stranì, perciò alzai il mento dal display, curiosa. Quando mi resi conto da cosa provenisse spalancai leggermente le labbra, ridendo. Mi avvicinai lentamente, infilando il cellulare nella tasca del cappotto, «Ciao...?», dissi, sbalordita.

Elia si tolse il casco, mostrandomi un sorriso storto, «Ciao», mi porse un casco piuttosto grande, «Spero tu sia affamata perché io sto morendo.» Mi allacciò il casco senza chiederlo nemmeno.

«È bellissima...!», scoppiai a ridere, indicando la moto del tutto nera.

«Ah, grazie.» Poi si infilò nuovamente il casco, mi abbassò la visiera ridendo, «Ti ricordi ancora come salire su un mezzo a due ruote o devo insegnarti di nuovo?»

«No, idiota, so salirci. Ritieniti fortunato che io non abbia messo la gonna stamattina.» Al solo ricordo di quella mattina un brivido di fastidio mi percosse la schiena, ci pensò a scacciarlo via Elia, con una risata fragorosa, armoniosa.

Salii in sella, tenendo la giusta distanza dalla schiena sontuosa di Elia. «Ci sei? Posso partire?»

«Dove andiamo?» Gli domandai, con uno spicchio di palese allegria nella voce.

«In un posto lontano.»

«Lontano quanto?»

«Lontano abbastanza da farti dimenticare da dove provieni.»

Non gli domandai altro. Preferii scoprirlo da sola, godermi il viaggio. Credevo saremmo andati in un ristorante, o in un bar, ma credevo male. Non appena scivolammo fuori dalla città, giungendo in periferia, tutte le mie ipotesi sparirono.

Il cielo era di un celeste pastello, macchiato da qualche sbuffo di bianco, il Sole un pallino luminoso in alto. Elia intraprese una strada ghiaiosa, rallentò piano sentendo il terriccio grumoso. Giusto in tempo per farmi godere del panorama periferico che avevo davanti.

Una vasta campagna verdeggiante planava tutt'intorno a noi, in lontananza pascoli di pecore e mucche e alti, altissimi alberi sempreverdi. Proseguì per altri cinque metri circa, mettendo poi il cavalletto.

Tolsi il casco, meravigliata, scesi dalla sella quasi inciampando nei miei stessi piedi. «Come conosci questo posto?» Domandai, dandogli il casco.

«Dovevo pur trovarlo un posto che mi ricordasse casa.» Mi confessò, posando entrambi i caschi.

Mi incamminai sul prato, schiacciando l'erba coi tacchi. Decisi di restare scalza, così da non rischiare di inciampare. Osservai le fronde degli alberi, tra cui passavano cinguettanti dei pettirosso, i fusti degli alberi erano pieni di vitalità.

«Effettivamente assomiglia alla campagna di Ischia.» Gli confessai, ancora con lo sguardo puntato verso l'alto, il cielo era immenso, infinito. Quando mi voltai a guardarlo, Elia stava stringendo in mano una cesta di vimini. Mi sorrisero gli occhi, «Facciamo un pic-nic?»

«Ho avuto una buona idea?»

Corsi da lui, aiutandolo con il cesto, «Sì, non l'avevo mai fatto.» Ammisi, felice come una Pasqua.

«No?» Ripetette, sbigottito, «Credevo di sì.»

«C'è sempre una prima volta per tutto.»

E guarda caso, la maggior parte delle mie sono tutte con te.

«Giusto.» Sorrise, ed insieme allestimmo la tovaglia che in realtà era una lenzuolo bianco, perché aveva solo quello e mi limitai a ridacchiare, apprezzando l'idea che avesse cercato per casa qualcosa che assomigliasse ad una tovaglia.

«A chi l'hai rubato il cibo?», domandai, seduta a gambe incrociate mentre mi coprivo la bocca.

«Rubato?», chiese, facendomi diventare serissima. Elia rise per la prima espressione, portandosi la mano sulla pancia.

«Dimmi che stavi scherzando e che non hai cucinato tu tutta questa roba. Ti prego!» Alzai le sopracciglia e nel frattempo lui si ricomponeva.

Saresti fin troppo perfetto.

«Okay, sì...», arricciò le labbra, sarcastico, «Non l'ho cucinata io. Non sono ancora così bravo, il mio massimo è un'omelette al pomodoro. Hai conosciuto Marcel, no?», domandò, umettandosi l'angolo della bocca, io annuii interessata, «Sua moglie è una cuoca. Io e Marcel ci conosciamo da tanti anni e, senza volerlo, siamo diventati amici. Secondo me, se conoscessi i suoi figli, ti potrebbero piacere. La più piccola, Ginevra, ha un caratterino che ti piacerebbe parecchio.» Annuì, convinto.

Mi appoggiai contro il tronco dell'albero, sorridendo, «Dovrai avere un bellissimo rapporto se ti ha cucinato tutto questo.»

«Non so se posso permettermi di dire che sono quasi di famiglia, però è da... sei anni, sì, che passo il Natale con loro.»

«Davvero?», domandai, stupita, «Che cosa bella.»

«Sì, in effetti dovrei ringraziarlo per avermi aperto alla sua famiglia in quel modo. Ha sdoganato la mia immagine di datore di lavoro sempre in giacca e cravatta.» Ridacchiò, «Però, non è che non ho contribuito, ho portato la parte migliore...», sfilò dal cesto una bottiglia di vino, «È bianco, tranquilla.»

Io alzai gli occhi al cielo, «Mio Dio, per quanto tempo dovrò scusarmi ancora?»

«Finché non riuscirò a rubarmi un tuo bacio.» Disse, inclinando appena il mento con un'espressione compiaciuta.

Scossi il capo, trattenendo un sorriso, «Allora non lo saprò mai.»

Elia rise, un fascio di luce gli illuminava solamente lo sguardo, facendo esaltare spaventosamente le sue iridi, «Cazzo, che basse aspettative che c'hai su di me.»

Gli lanciai un fazzoletto in faccia, ridemmo entrambi. Avevamo finito di pranzare con calma, chiacchierando del più e del meno, raccontandoci della nostra giornata e, io, lo informai della chiamata avvenuta tra me e Marco. Sarebbero tornati a Roma tra tre giorni, e insieme avevamo prefissato un incontro con Asa. Non appena avevo pronunciato il nome di Elia, il suo tono nei miei confronti cambiò totalmente.

Ero stesa a pancia all'aria, con gli occhi puntati sul cielo e il profumo di erba fresca sotto al naso mischiato a quello di Elia. Che, mantenendosi su un gomito, si attorcigliava una mia ciocca tra le dita, si era sbottonato i primi bottoni della camicia e l'aveva fatta uscire dal pantalone.

«Sai...», sussurrai, assottigliando le palpebre, pensierosa, «Sto avendo seri dubbi sulla tua identità.»

«Che vuoi dire?», borbottò, accompagnato da un cinguettio di un uccellino nascosto tra i rami dell'albero che ci copriva.

«Che credo tu sia tipo... Batman, o una cosa del genere.»

«Cosa? Ma lo reggi il vino?» Chiese, ridendo lievemente.

Sorrisi, guardandolo negli occhi. Erano talmente vicini da potermici nascondere, «Se ci rifletti, uno lo può pensare. Hai una moto nera, indossi sempre camicie immacolate, avrai un armadio tutto nero e bianco o, al limite, grigio, sei quasi il capo di un'azienda internazionale e scommetto che casa tua è un mausoleo.» Elencai, persa nei miei nodi di pensieri.

Beccai Elia sorridere ed osservarmi meticolosamente, «Vedo che mi hai pensato parecchio.»

«— no, aspetta, no. Non in quel senso, ma ci stavo riflettendo.» Diventai rossa quando annuì e si morse il labbro per non ridere.

«Va bene. Se ti fa stare più tranquilla, non sono Batman, non ho nessuna identità segreta. E, seppure fosse, non riuscirei mai a mantenere un segreto con te.»

I nostri occhi pudici si guardarono come se non si fossero mai abbandonati. Eravamo l'uno la calamita dell'altro, non appena ci sfioravamo, eravamo destinati a stare accorati per sempre, uniti.

Si accese una lampadina improvvisamente nella mia mente, portandomi ad alzare l'angolo delle labbra, «Non mi hai mai detto che significa "cerasì".»

Elia si fece sfuggire una risata: «Deriva dal tardo latino, in napoletano si usa ancora. Cerasia, cerasium, vuol dire ciliegia.»

«Ciliegia...», gli feci eco, annuendo, «Per i capelli?»

«Forse. Non so dirti perché m'è venuto di chiamarti così. È stato spontaneo.» Ammise, con sincerità, continuando ad accarezzare i miei capelli, «Ricordi quel gioco?»

Mi venne da sorridere. Annuii, alla mente la scena del nostro primo bacio. «Sì, me lo ricordo.»

«Posso farti una domanda?», borbottò.

«Qualsiasi.»

«Credevi davvero in me?»

«Più di quanto credessi in me stessa.» Risposi, francamente, «Posso fartela io una domanda?»

«Qualsiasi.»

«Era vero che mi amavi?»

Ci fu un attimo in cui non proferì parola. Solo silenzio, la natura viva a parlare.

«Mi hai conosciuto in un momento cruciale della mia vita», disse, sentivo il rumore delle campane delle mucche da lì, «Lo so, avevamo diciott'anni e certi sentimenti si possono fraintendere a quell'età, ma sono certo che quello fosse amore. Lo sentivo, lo provavo, lo toccavo. E ogni volta che mi guardavi, io ritornavo a pensare che forse era un bene fossi vivo.»

Lessi un cruda e brutale verità nei suoi occhi. Nel mio cuore rinacque una strana sensazione, una di quelle che si prova poche volte nella vita. Avrei giurato che se fosse stato possibile, quel momento sarebbe stato degno di una canzone. Probabilmente una dolce, dalla melodia angelica e i violini morbidi. Io e lui, noi, generavamo continuamente musica.

«Sono grata di averti incontrato.»

«Sono grato di averti vissuta.»


Non appena giunta a casa, dopo essermi fatta una doccia rigenerante di circa un'ora e mezza, mi sedetti sul pavimento con una scatola candida e profumata, rimasta a poltrire nel mio armadio per tutto quel tempo.

Ingoiai il grumolo d'ansia ed emozione bloccato in gola e mi passai le dita fra i capelli. «Okay, forza Isabella...», mi incoraggiai da sola, «È solo una scatola dei ricordi.»

Quindi, afferrati i manici laterali, sollevai il coperchio, lasciando che le cose rimanessero alla luce per qualche istante prima di rovistarci dentro.

Più che scatola dei ricordi era la scatola di un'estate da dimenticare. Credevo che se avessi rinchiuso tutti i miei ricordi in qualcosa di materiale, probabilmente me ne sarei dimenticata. Ma mi sbagliavo, un'altra volta.

Ai ricordi spassionati non si sfugge.

La lettera di Elia, ben conservata, l'avevo aperta un'unica volta e mai più ripresa. I vari diari di quei mesi, i vari quaderni di poesie e varie cianfrusaglie infilate lì dentro solamente perché il mio cervello le collegava a lui. Costumi, magliette, libri, fotografie, l'MP3, il plettro della sua chitarra. E, in fondo, in un angolo recondito, giaceva isolato l'anello regalatomi da nonna Silvia.

Lo presi tra le dita, ispezionandolo, e una certa nostalgia amara mi colpì il cuore. Decisi di volerlo indossare, incaponita. Mi misi a cercare tra i miei gioielli una catenina d'oro, così da poter infilarci l'anello. Quando la trovai e riuscii a metterla al collo, sentii come se un pezzo di me fosse ritornato al suo posto.

Me la accarezzai, sistemandola sotto alla maglietta del pigiama di seta. Il suono del portone che si apriva mi fece scattare a chiudere la scatola e nasconderla nell'armadio.

«Isabé?»

«Ci sono!»

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