Alla ricerca dell'alba

By CuoreAdElica

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๐—–๐—ผ๐—บ๐—ฝ๐—น๐—ฒ๐˜๐—ฎ โœ”๏ธ ๐™ฝ๐šŽ๐š  ๐™ฐ๐š๐šž๐š•๐š ๐Ÿ’š 2/2 Isabella Arese รจ in cerca di emozioni. รˆ in cerca di albe e tra... More

Cast
Premessa
Come un pittore - Parte Uno
Prologo
1. Odio l'estate
2. Anti-eroe
3. Gelati indesiderati
4. Le tipologie variopinte del silenzio
5. Maschere fragili e Mr. Convinzione
6. Fratello maggiore
7. Incarnazione del principio eracliteo
8. Avere diciott'anni
9. Troppo sensibile
10. Heroes - Pt. 1
11. Heroes - Pt.2
12. Che poi da te non รจ Versailles
13. Carpe diem
14. Baby & Johnny
15. I miracoli esistono
16. Cerasรฌ
17. Dieci ciliegie, dieci desideri
18. Non sei come dicono loro
19. La casa in riva al mare
20. Mistica, come le sirene
21. La leggenda di Celentano
22. Colorare i sentimenti - Pt. 1
23. Colorare i sentimenti - Pt. 2
24. Cosa รจ successo il quattro luglio?
25. Cicatrici di ricordi
26. L'abbiamo scoperta noi, Ischia
27. Il marinaio e la sua bussola
28. Ritorno alla realtร 
La lettera
Come nelle favole - Parte Due
29. Einstein รจ a Roma
30. Tribunale d'amore
32. Sfiorare manco con una rosa
33. Stessa stazione? - Pt. 1
34. Stessa stazione? - Pt. 2
35. Dirsi ti amo senza dirselo
36. Il filo rosso di Arianna
37. Albori
Epilogo
Ringraziamenti

31. Maledetto tempo

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By CuoreAdElica





"Abbiamo perso troppo tempo ad occupare il tempo."
— Greta, Gazzelle.



Roma.
Autunno.



Passò quasi un mese dall'ultima volta che io ed Elia ci rivedemmo. Tre settimane. In realtà erano tre settimane che non avevamo alcuna notizia dell'altro. Ogni mattina mi svegliavo con l'intento di scrivergli, ma non riuscivo mai.

Credevo di essere stupida.

Non avevo alcuna intenzione di farmi viva. Sarebbe stato umiliante, sarebbe stato fraintendibile.

«Tu sei la ragazza più imbecille che io abbia mai conosciuto!», gridò Iolanda, accostata contro lo stipite della porta del mio ufficio, con il suo caffè al ginseng stretto in mano. «Che ragionamento di merda è?»

«Iolanda, che senso avrebbe? Non posso mandare tutto all'aria d'improvviso, non mettermi strane idee in testa.» Chiusi un fascicolo.

«Strane idee? Si tratta della tua felicità, Isa. Lo vuoi capire che l'unica cosa che non ha senso è il fatto che tu voglia sposare un uomo che non ami e che ti tradisce da quasi sei mesi?» Sussurrò tra i denti, «Mi è servito Elia per fartelo uscire di bocca?»

Sospirai, passandomi le mani sulla fronte. Rimasi in silenzio per due lunghi minuti, fissando il nome sul fascicoletto della casa di affidamento del bambino che sarei dovuta andare a visitare quel pomeriggio. Sentivo le spalle pesare, la testa esplodere.

«Iole, una paternale non è quello di cui ho bisogno in questo momento. Si sarà dimenticato di me. E per quanto riguarda Leonardo non voglio né parlarne, né pensarci, né discuterne. Sono giorni che dorme sul divano e non gli rivolgo la parola.»

«Il coglione non ce la fa a chiedere scusa, si vede che la madre non lo abbracciava abbastanza da piccolo...», borbottò, sorseggiando.

Le lanciai uno sguardo di fastidio, ma lei fece spallucce e se ne andò nel suo ufficio.

Fissai la casella dei messaggi, pensierosa, e poi la fotografia alla mia destra raffigurante me e Leonardo. Sapevo stessi facendo una cosa orrenda, ne ero più che consapevole.

Stavo per sposarmi con un uomo che non mi amava, con la consapevolezza che non fosse quello giusto e, per di più, con in testa un altro uomo. Probabilmente Dio mi stava mettendo a dura prova. Decisi che prima di recarmi alla casa di affidamento, sarei passata in Chiesa. Erano mesi che non ci andavo.

Volevo disfarmi di tutti quei pensieri, volevo essere serena per una mezz'ora, almeno una mezz'ora senza pensare a quanto facessi pena e senza pensare ad Elia.

Fu la giornata peggiore della mia vita.

Avevo parcheggiato di fretta l'auto, rischiando di tamponare quella davanti e di salire sul marciapiede con una ruota. Uscii di corsa, sbattendo la porta, offuscata dalle lacrime. Sentivo mille spine soffocarmi, il respiro che veniva a mancare ad ogni passo e le dita delle mani che tremavano esageratamente.

Spinsi con forza la porta d'entrata, asciugandomi le lacrime sulle guance con il dorso della mano.

Mi avvicinai al bancone, alla receptionist avevo chiesto singhiozzante: «Buon pomeriggio, sa dirmi dove posso trovare Elia Delle Donne?»

La signora dalla capigliatura sistemata, un completo nero e le unghie smaltate, mi scrutò per qualche secondo nella mia incompostezza e poi annuì. «È in riunione in questo momento, sarà disponibile tra un'ora—»

«Ho bisogno solo di sapere in che ufficio lo trovo.» Farneticai.

«Nella sala stampa, numero B38.»

«Grazie infinite.»

Mi diressi verso l'ala B, camminando lungo il corridoio che odorava di caffè e detersivo per i vetri alla menta, leggendo sopra ogni imposta il numero degli uffici, alcuni uomini in giacca e cravatta e profumati mi lanciarono occhiate in tralice, confusi.

Quando riuscii a trovare la sala stampa, un uomo massiccio, con un auricolare all'orecchio e una divisa del medesimo colore della receptionist, davanti all'uscita, mi bloccò.

«Mi scusi, signorina, è una riunione privata.» Mi prese per le spalle, allontanandomi.

Guardai oltre il suo capo rotondo, all'interno della stanza enorme, attorno ad un tavolo ovale e lunghissimo, sedevano circa cento uomini, dai trent'anni in su.

Tutti i loro occhi erano rivolti verso una direzione: Elia, in piedi davanti ad un leggio di legno massello. Indossava una camicia bianca — mi domandai quante ne avesse nell'armadio — ed un pantalone elegante blu gli evidenziava i fianchi.

«Tra quanto posso parlare con...», deglutii, senza sapere come chiamarlo in maniera opportuna, «Con... Elia

«Il dottore sarà disponibile solo quando i rappresentati andranno via. Lei può attendere seduta su una di quelle poltrone.» Mi indicò un angolo su cui vi era una poltrona blu, comoda e invitante, ed io indossavo dei tacchi alti, perciò era un invito ben accetto.

Aspettai per circa un'ora. Nel frattempo mi ero fatta un altro pianto, in silenzio, la guardia mi aveva passato un fazzoletto con fare riservato, un po' dispiaciuto. Mi soffiai il naso e trattenni alcuni singhiozzi, ringraziai Marcel — scoprii si chiamasse così — e lui mi alzò un pollice, tornando in posizione rigida.

Non riuscivo a vedere quello che stesse succedendo nella sala, ma dal vociferare sembrava che la riunione stesse per finire. Marcel premette l'auricolare e con uno scatto si spostò da davanti la porta.

Tirai su col naso e cercai di togliere i residui di mascara dalle guance, attraverso la mia ombra sul cellulare. Gli uomini in giacca e cravatta, fatti con lo stampino, si riversarono fuori dalla sala come formiche, chiacchierando animatamente fra loro con ammirazione e accordo.

Alla fine dell'infinita serie di uomini, scorsi la figura fresca, mascolina e sistemata di Elia. Corrugò la fronte quando Marcel gli parlò all'orecchio, per poi indicarmi con l'indice, rimanendo serio.

Elia si voltò nella mia direzione, con le maniche della camicia arrotolate sui gomiti, e la sua espressione di perplessità e scetticismo si trasformò in incredulità quando posò le iridi su di me.

Ancor di più quando si rese conto stessi piangendo; in due falcate si avvicinò, inebriandomi col suo profumo: «Cos'è successo?» Istintivamente, il suo pollice asciugò una mia lacrima vicino l'angolo della bocca.

Bastò guardarmi nei suoi occhi per crollare di nuovo. Scossi il capo, stringendo le labbra e trattenendo il respiro, una miriade di lacrime mi invasero: «Puoi abbracciarmi, per favore?», sussurrai, mordendomi il labbro per non sussultare.

Elia si accigliò, portando una mano dietro il mio capo e l'altro braccio ad avvinghiarmi al suo petto, tenendomi per le spalle. Serrai le palpebre e piansi deliberatamente tra le sue braccia, lasciandomi andare.

Mi accarezzò i capelli e mi cullò delicatamente, incitandomi a calmare il respiro. Non mi disse più niente, mi abbracciò solo fortissimo, come se fossi fatta di pezza, come se fossi stata creata per stare là in mezzo: fra cuore e respiro.

Una volta apparentemente più tranquilla, Elia sussurrò un: «Ti va di parlarne?»

«Sì», risposi, ancora provata.

Si allontanò piano, pianissimo, sapeva meglio di me che mi sarei potuta disintegrare da un momento all'altro. Mi sentii debole davanti a lui, in quel modo così spudorato e indecoroso. «Marcel, portala nel mio ufficio», poi si rivolse a me, che provavo ad asciugarmi il viso, oppure ottenere un briciolo di dignità, «Segui lui. Io vengo subito, mettiti comoda.»

Annuii, in imbarazzo per le mie condizioni. Mi sorrise teneramente cercando di capire se fossi veramente sicura, per poi lasciarmi con Marcel, superandomi a passo svelto.

«Prego, mi segua.» Mi intimò Marcel.

Gli andai vicino, seguendolo. Attraversammo un paio di corridoi che davano su un giardino ordinario e sofisticato, fino ad arrivare davanti una porta che Marcel aprì con un leggero scatto.

«Grazie», gli dissi, accennandogli un sorriso.

Non appena da sola nel suo ufficio, sentii l'odore di cocco e menta che lo distingueva ovunque mettesse piede. Una scrivania era posta al centro della stanza luminosa, con alle spalle una vasta vetrata che specchiava gli edifici gemelli, tutti uguali. Dinanzi ad essa vi erano due sedie bianche, su una ci poggiai la mia giacca.

Con curiosità, osservai i suoi effetti personali sulla scrivania: il portatile era chiuso, non mi permisi di aprirlo, ma ai bordi erano presenti tre fotografie. La prima vedeva come protagonisti i suoi fratelli, più cresciuti di quanto ricordavo, Flavio somigliava spaventosamente a Simona e Ilaria era quella che somigliava di più ad Elia: ricci castani e due occhi mandorlati che nascondevano tanto.

Un'altra cornice catturava Elia, Francesco e Gaetano ancor prima che io li conoscessi, probabilmente qualche anno prima. Sorridevano, sereni e spensierati. Non riuscii a smettere di guardare Elia.

Nella terza, più piccola, era presente una sola persona: nonno Gioele. Non ebbi neanche il bisogno di capire il motivo per il quale avesse una sua foto, dentro di me già lo sapevo.

Sfiorai le varie penne, tutte nere, nell'apposito contenitore e mi sorpresi dell'ordine presente in quell'ufficio. Non appena sentii dei passi vicinissimi alla porta, corsi a sedermi sulla prima sedia libera.

Elia sbucò da dietro con entrambe le mani occupate da due tazze, chiuse la porta con il tallone, come se fosse abituato a farlo. Mi cercò con lo sguardo, trovandomi accovacciata su me stessa. Mi sorrise senza nemmeno pensarci, porgendomi una tazza fumante.

«Dovevo prendermi un caffè, ricordavo che non lo prendessi così t'ho preso un tè, almeno ti riscaldi un po'.» Disse, sedendosi sulla sedia opposta alla mia.

«Non dovevi», tenni la tazza con entrambe le mani, riscaldandomi sul serio, «Anzi, sono tremendamente dispiaciuta per averti fatto trovare impreparato.»

Elia negò col capo dopo aver preso un sorso di caffè, «Non dovresti scusarti per essere qui, più che altro per non esserti più fatta sentire.» Sollevò una sopracciglia.

Era diventato più sfacciato e schietto di quanto previsto. Pensai fosse per il suo lavoro, o forse perché era semplicemente cresciuto e, a mio malgrado, cambiato. Non che mi dispiacesse, ma era ancor più pericoloso.

«Sono sincera...», guardandolo negli occhi non seppi più cosa dire, «Hai ragione, ma credevo di rubarti del tempo e mi sentivo stupida. Ti giuro, volevo scriverti, anche stamattina, ma non ho avuto il coraggio.» Spiegai, sperando di dimostrargli il mio dispiacere.

«Non preoccuparti. Ci saremo visti prima o poi, o almeno di questo passo ti avrei fatto gli auguri di Natale, ma fortunatamente — o sfortunatamente — tu sei qui.» Mormorò, stirando le labbra con l'intento di farmi cogliere la sua ironia sagace, «Posso chiederti cos'è successo?»

Poggiai la nuca sul poggiatesta della sedia, sospirando, «Credo che io abbia passato le settimane più brutte della mia esistenza...»

«Addirittura?» Si accigliò.

«Sì», girai il mento per guardarlo, sentendomi sempre meglio ad ogni sguardo, «Sto seguendo un caso di un ragazzino di origini senegalesi, ha quasi quindici anni, ed è da inizio settembre che non riesco a trovare una famiglia che riesca a tenerlo definitivamente», iniziai, catturando la sua attenzione all'istante, «Me ne sono capitati di casi particolari, eppure ne sono sempre uscita. Ma, mio Dio, questo mi sta distruggendo. Oggi sono andata dalla famiglia che lo teneva da circa due settimane, ho pregato fosse quella buona, ma ho trovato Asa — il bambino — completamente fuori luogo, a disagio, e mi è caduto il mondo addosso», mi asciugai una lacrima, dispiaciuta, «Vorrei solo che trovasse una famiglia, se lo merita.»

Elia sembrò ragionare mentre i suoi occhi mi studiavano intensamente dalla sedia. Io aggrottai la fronte quando lo vidi alzarsi, posando la tazza sulla scrivania e facendo il giro di essa per afferrare un pezzo di carta, con una delle penne nere cominciò a scrivere una serie di numeri.

«Cosa fai?»

Piegò il foglio e me lo porse tra due dita, «Chiama questo numero non appena ne hai la possibilità.»

Lo guardai stralunata, sistemando la tazza sulla scrivania, presi il foglietto ripiegato per poi leggere il nome: "Marco Fabrizi". «Che significa?»

«È un mio ex compagno di azienda, è in Francia in questo momento. Sono anni che lui e sua moglie stanno provando ad avere un bambino. Digli che sono stato io a darti il suo numero, poi fammi sapere.»

Alternai lo sguardo fra il numero ed Elia, senza parole. «Fai sul serio?»

«Ti sembro uno che non fa sul serio?», aprì le braccia a mezz'aria, rifacendo successivamente il giro della scrivania per poi reggersi contro il bordo, dirimpetto a me.

Infilai il foglietto nella tasca, più sollevata e soddisfatta, speranzosa. Era incredibile come la presenza di Elia migliorasse sempre in meglio le cose.

«Grazie, sinceramente. Ti devo un favore.»

Elia schioccò la lingua, «Non mi devi proprio niente. Lo faccio per il bene del mio amico e per il bambino. Per te.» Il suo sorriso si affievolì flemmaticamente, abbassando lo sguardo. «Se posso essere indiscreto...»

«Mh-hm.»

«A me non sembra sia successo solo questo.» Strizzò un occhio, arricciando il labbro, «O mi sbaglio?»

Ci riesci sempre, a leggermi.

«Non voglio assillarti con i miei piagnistei, già mi sento abbastanza in colpa per essere qui, vorrei dormire serena almeno stanotte, libera dai sensi di colpa.» Sdrammatizzai.

«Non hai alcun motivo di sentirti in colpa, Isabella. Io sono felice di vederti qui, solo che adesso che siamo qui vorrei parlare con te e sapere se stai bene.» Propose, finendo il caffè.

«Non voglio assumerti come psicologo.»

Strozzò una risata, «Lo faccio da una vita, cerasì

Non lo sentivo chiamarmi in quel modo da fin troppo tempo, così tanto che percepii il cuore fermarsi un attimo nel petto. Non volevo lui se ne accorgesse, perciò mi passai una mano tra i capelli e respirai a fondo.

«Ho discusso con Leonardo.»

«Pesantemente?»

«Dorme sul divano da quasi una settimana.»

Elia fece un'espressione di dolore, leggermente divertito. «Come mai? Se posso chiedere.»

«Non vuole che io esca il sabato sera. Che poi uno dice che ha pure ragione, ma io esco una volta sì e le altre cento no, perciò mi sembra veramente assurdo che voglia impormi questa cosa. È infantile, sciocco, incoerente.» Mi sfogai, «Per di più tra una settimana abbiamo una cena con tutti i nostri amici e so che mi sentirò tremendamente in imbarazzo.» Sbuffai, all'orlo di una crisi di pianto.

«In imbarazzo? Perché mai?»

«Perché...», mi bloccai, consapevole che lo stessi per ammettere ad alta voce per la prima volta da un anno, «Perché ci sarà anche colei con cui mi tradisce da mesi, e tutti lo sanno. Pensano sia l'unica a non saperlo, pensano sia stupida.»

La mascella di Elia guizzò, divenne serio, serio da far paura. Ecco, adesso pensi anche tu che sia stupida. «Che vuoi dire che ti tradisce da mesi...?»

Abbassai il volto, vergognata di me stessa. «Sì, lo so. Ma... ma i nostri genitori ci tengono alle calcagna. Abbiamo provato a creare qualcosa, a stare bene, ma siamo incompatibili. Siamo arrivati ad odiarci», ridacchiai, amareggiata, «E dobbiamo ancora sposarci.» Evitai il suo sguardo.

Elia si abbassò sulle ginocchia. Tirai su col naso, spazzando in fretta una lacrima sulla gota, «Perché ti fai questo?», mi chiese, in un sussurro.

«È più complicato di così, Elia.» Borbottai, «Me lo dicesti anche tu: spesso ci innamoriamo delle persone sbagliate. Ho provato davvero ad amarlo, te lo giuro.»

Nei suoi occhi lessi mille parole che non volevano uscire. Nei suoi occhi vidi chi potevamo essere se solo non fosse stato tutto così difficile. Se solo t'avessi incontrato prima.

«Ma adesso, Isa, adesso, tu lo ami?»

Mi rifiutai di rispondere. Mi alzai dalla sedia, «Non—», mi si bloccò la voce in gola, sentii una folata di voci investirmi completamente, persi la ragione. «Devo andare, grazie davvero.»

«Isabella, per favore, rispondimi.»

Agguantai la giacca, «Mi dispiace averti fatto perdere tempo.»

«Cristo Santo, lo ami

Mi diressi verso la porta, «Ti lascio in pace—»

Elia mi afferrò per il braccio, costringendomi a tornare indietro, ad un solo centimetro dal suo viso. Schiusi le labbra per lo spavento e non riuscii a guardarlo. La mano di Elia si posizionò sulla mia guancia, facendomi fremere il respiro nello sterno, fu più forte di me: andai incontro al suo palmo, cercando vividamente il contatto con la sua pelle.

«Te lo sto chiedendo per piacere, non lasciarmi in pace, io non ci voglio stare in pace», mormorò, sentii i suoi occhi camminare sulle mie labbra, «Rispondimi con sì o no, e poi si vedrà.»

Io negai, un'altra lacrima a scendere rovinosamente sul mio mento. «Non posso. Non posso.»

«Sì o no.»

«Elia, non posso.»

«Tu lo ami? Adesso, Isa, adesso lo ami?» Insistette, facendomi pesare quella domanda sul petto.

«Devo andare via.»

«Guardami negli occhi e dimmi che non lo ami.» Continuò, cocciuto, testardo. Qualcosa dentro di me diventò caldo, caldissimo, facendomi andare a fuoco le guance, «Per favore

Sollevai le palpebre, facendo unire le nostre iridi, ed entrambi riprendemmo a respirare. Il suo pollice si sfregò sul mio zigomo, ed io, dopo essermi cercata nelle sue iridi, riuscii a pronunciare: «Non posso amarlo, Elia... come potrei?» Ammisi, triste.

Lui sembrò rasserenato. Le nostre labbra si sfiorarono pericolosamente, riuscii a sentire il suo respiro sopra il mio labbro, ma mi bastò pensare cosa stesse per succedere che regressi. Senza riuscire a parlare per un secondo, investita da un tornado di emozioni sovrastanti, provai a dire qualcosa ma fuoriuscirono solo monosillabi.

«Devo andarmene.»

Ero appena uscita dalla doccia bollente che avevo fatto, con il turbante che mi raccoglieva i capelli bagnati, che mi ritrovai stesa sul letto con il computer sulle cosce e una buona candela accesa sul comodino.

Immobile sulla chat con Elia da quindici minuti. Avevo rimuginato attentamente a cosa scrivergli, dovevo solo trovare il coraggio di realizzarlo e muovere le dita sui tasti.

Iniziai titubante: "Ciao, sono io. Volevo scriverti tante di quelle cose che adesso me ne sono completamente dimenticata. So che non faccio altro che scusarmi, ma è inevitabile: mi dispiace se quello che scriverò sarà disconnesso, ma voglio inviarlo senza rileggerlo. Di una cosa sono certa, Elia, cioè che non sono più una ragazzina e, da adulta, vorrei sapere cosa voglio davvero dal mio futuro e a che genere di felicità aspiro. Dentro di me so che cosa voglio, chi voglio. Ma vorrei del tempo, vorrei conoscere chi sei adesso per distaccarmi dall'idea di te di dieci anni fa, di cui ammetto essere ancora innamorata. Ti chiedo solo questo. Spero sia una scelta matura. Voglio serenità, credo sia una cosa che cerchiamo entrambi. Perciò, cosa ne pensi? Ci sentiamo?"

Inviai, di getto, senza pensarci nemmeno una seconda volta.

Chiusi il portatile di scatto, correndo in bagno ad asciugarmi i capelli: così mi sarei distratta e avrei avuto il sottofondo rumoroso a non farmi sentire il suono delle notifiche.

Passai venti minuti davanti allo specchio, dove fantasticai sul messaggio e su come avrebbe potuto rispondermi. Quando spensi il phon, il silenzio invase casa.

Sistemai il bagno e con pacatezza mi diressi verso il letto, credendo non mi fosse arrivato alcun messaggio. Mi sbagliavo.

"Sono d'accordo. Credo sia la cosa migliore per entrambi. Hai tutto il diritto di avere dubbi, di essere scettica. Non so se quello che ti sto per scrivere sia perché muoio dalla voglia di rivederti e convincerti a fidarti di me, ma Elia che conosci adesso non è tanto diverso da quello di dieci anni fa. Ha solo una laurea, più coraggio, una casa e, si spera, più muscoli. Non mi importa quanto ti ci vorrà, ma sappi che, a tuo malgrado, sarò sempre innamorato di te, perché sono fermamente convinto di appartenerti.
Ci vediamo."

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