Alla ricerca dell'alba

By CuoreAdElica

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๐—–๐—ผ๐—บ๐—ฝ๐—น๐—ฒ๐˜๐—ฎ โœ”๏ธ ๐™ฝ๐šŽ๐š  ๐™ฐ๐š๐šž๐š•๐š ๐Ÿ’š 2/2 Isabella Arese รจ in cerca di emozioni. รˆ in cerca di albe e tra... More

Cast
Premessa
Come un pittore - Parte Uno
Prologo
1. Odio l'estate
2. Anti-eroe
3. Gelati indesiderati
4. Le tipologie variopinte del silenzio
5. Maschere fragili e Mr. Convinzione
6. Fratello maggiore
7. Incarnazione del principio eracliteo
8. Avere diciott'anni
9. Troppo sensibile
10. Heroes - Pt. 1
11. Heroes - Pt.2
12. Che poi da te non รจ Versailles
13. Carpe diem
14. Baby & Johnny
15. I miracoli esistono
16. Cerasรฌ
17. Dieci ciliegie, dieci desideri
18. Non sei come dicono loro
19. La casa in riva al mare
20. Mistica, come le sirene
22. Colorare i sentimenti - Pt. 1
23. Colorare i sentimenti - Pt. 2
24. Cosa รจ successo il quattro luglio?
25. Cicatrici di ricordi
26. L'abbiamo scoperta noi, Ischia
27. Il marinaio e la sua bussola
28. Ritorno alla realtร 
La lettera
Come nelle favole - Parte Due
29. Einstein รจ a Roma
30. Tribunale d'amore
31. Maledetto tempo
32. Sfiorare manco con una rosa
33. Stessa stazione? - Pt. 1
34. Stessa stazione? - Pt. 2
35. Dirsi ti amo senza dirselo
36. Il filo rosso di Arianna
37. Albori
Epilogo
Ringraziamenti

21. La leggenda di Celentano

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By CuoreAdElica




Ischia.
Estate.






Mistica, come le sirene. Avevo ripensato a quella mattinata per tutta la notte, non riuscivo a prendere sonno per colpa di Elia che continuava a tormentarmi.

Restammo nella casa di Gioele finché non ricevetti messaggi ripetitivi da parte di mia madre che mi chiedeva di ritornare. Avevamo mangiato della pizza che Elia era corso a prendere con solo i bermuda addosso e avevamo sfogliato varie fotografie dagli scatoloni.

Alla Villa discussi con mio padre sul fatto del: "se ti ammali finisci sotto i farmaci di nuovo, sii più responsabile!"

Lo sapevo perfettamente che se mi fossi ammalata sarebbero stati guai, per me e per i miei, ma cosa c'era di sbagliato nel fingere che tutto quello che mi faceva male, in realtà, mi faceva bene? Volevo solo pensare di essere normale per qualche mese, senza preoccuparmi troppo, senza avere troppe responsabilità.

Quindi, non gli diedi ascolto. Atteggiamento maturo, già. Mi richiusi in camera mia con le cuffiette nelle orecchie.

L'unica a cui avevo raccontato qualcosa era Monica e inutile dire che reagì in una maniera un tantino esagerata.

«Cosa?!» Gridò, sbattendo la porta e guardandomi con gli occhi spalancati, «Come, quando e perché?» Sbottò, scandendo ogni parola.

«È successo stamattina, come non lo so, è successo e basta. Perché... perché...», riflettei, sorridendo, «Perché mi piace, non mi sono nemmeno chiesta se fosse quello giusto, perché lo sapevo. So che sembrerà sciocco o affrettato–»

«Affrettato?», Monica si gettò sul letto di nuovo, «Era pure ora! Ti ha proprio conquistata: primo bacio e prima scopata, ammazza, dev'essere bravissimo a tombola.»

«Spiritosa», alzai gli occhi al cielo, «E non urlare.»

Monica scosse il capo, sistemandosi e mangiucchiando una caramella, mi domandò: «Quindi? Com'era?»

Aggrottai la fronte, «Mh?»

«Ce l'aveva grosso?»

«Non ci credo! Monica!» Scoppiai a ridere, portandomi le mani sul viso, «Non intendo risponderti.»

«Che palle che sei», ridacchiò. Mi domandò cose futili a cui risposi senza problemi. Parlare con Monica di queste cose era sempre stato facile, era pur sempre mia sorella maggiore.

Nei giorni consecutivi io ed Elia non ci vedemmo. Mi aveva avvisato che Ilaria fosse malata, perciò le doveva stare vicino perché Simona non poteva restare a casa tutto il giorno.

Un pomeriggio, verso le tre, mentre ero impegnata in un rebus sotto all'ombrellone, il cellulare squillò. «Pronto?» Filomena mi schizzò dalla piscina.

«Impegnata?»

Mi venne spontaneo sorridere non appena la sua voce arrivò al mio orecchio. «No, non sono impegnata.»

«Ti scocci di venire con me dalla nonna?»

«Certo che no», ridacchiai, alzandomi dalla sedia a sdraio, «Quanti minuti ho?»

«Facciamo sei.»

«Ti raggiungo tra sei minuti», corsi in camera.

Mi preparai alla velocità della luce, infilando un abitino bianco di lino, legai i capelli in una coda ordinata e uscii dal cancello canticchiando. Passeggiai lungo il tratturo giallognolo e secco, calciai qualche sassolino finché non giunsi a tre metri da casa di Elia, bloccandomi di scatto.

Una lucertola mi passò davanti, io rimasi fossilizzata mentre il Sole di luglio mi infuocava le spalle. Il motivo per il quale non riuscii ad avvicinarmi era che sentivo delle urla, urla maschili e forti, rozze. Non avevo mai sentito quella voce, era potente, cupa.

Nonostante la maggior parte delle frasi che fuoriuscivano da casa sua fossero in napoletano, in qualche modo riuscii a concepirne il significato: «Vedi di andartene a fare in culo, sei inutile qua dentro!»

La risposta di Elia fu chiara. «Ah, io sarei inutile? Qua dentro l'unico che non fa un cazzo sei tu! E, credimi, se non fosse per te io me ne sarei già andato via, già non mi avresti più davanti ai coglioni!»

«Pezzo di merda, tu mi devi portare rispetto!» L'uomo gridò più forte, facendomi sobbalzare. «Sono io che comando, non devi alzarmi la voce, quante volte te l'ho detto?»

Subito dopo, Simona intervenne con tono spaventato: «Giovà, lascialo stare, ti prego! Lascialo!»

Intravidi Elia scendere rapidamente le scale che portavano in giardino, il volto basso e la maglietta sgualcita sul colletto. I miei occhi corsero di nuovo all'uscio della porta di casa sua, dove c'era un uomo alto, massiccio e con la barba, che veniva tirato indietro da Simona — con le guance rosse e gli occhi acquosi —.

«Sei solo un figlio ingrato!», urlò in napoletano, «Ingrato e pure stronzo t'aggio fatto!»

Elia gli rispose, ancora, «So' pur sempre tuo figlio, dovevo prenderla qualche cosa da te!»

Giovanni, il padre di Elia, fece per raggiungerlo, ma Simona lo afferrò da dietro, minuta ma forte, e urlò al figlio: «Elì, vattene, per favore!»

Solo a quel punto Elia aprì il cancello e lo sbattette alle sue spalle con un'imprecazione. Due secondi dopo, Simona serrò anche il portone e il silenzio della campagna invase nuovamente ogni anfratto.

Istintivamente, non riuscii più a staccargli gli occhi di dosso. Elia afferrò il pacchetto di sigarette, ne prese una con rabbia e se la ficcò tra le labbra. Provò ad accendersela, ma l'accendino non dava la scintilla che permetteva al mozzicone di prendere fuoco. «Vaffanculo», sbottò, lanciando sul tratturo polveroso sia la sigaretta sia l'accendino.

Con un sospiro rumoroso e nervoso fece recedere il capo all'indietro, portandosi le dita sull'attaccatura del naso. Senza rendermene conto avevo preso a camminare verso di lui, mi chinai a raccogliere ciò che aveva lanciato e li pulii.

«Tieni.» Mormorai, delicata, avvicinandogli gli oggetti sul mio palmo della mano.

Elia abbassò il viso confuso, si rese conto fossi io e ritornò nella mia stessa dimensione, era di nuovo in sé. Ma la confusione dal suo volto passò al mio. Il suo sguardo si incupì quando capì il motivo per cui lo stessi osservando in quella maniera così preoccupata, gli occhi mi pizzicavano.

«Merda.» Si voltò e andò verso il motorino per guardarsi allo specchietto. Tastò il livido violaceo e che non prometteva affatto bene sullo zigomo, indurì la mascella facendomi capire gli facesse male e non poco. E, infine, si asciugò il sangue che perdeva sia dal naso, sia dal labbro, «Pezzo di merda, che pezzo di merda.» Bofonchiò, tra sé e sé, sperando che suo padre potesse sentirlo in qualche modo.

«Elia–»

«Non è niente, andiamocene.»

Mi ignorò.

Non ignorarmi, bastardo.

«Elia, ascolt–»

«Passerà.»

Con un passo mi avvicinai e, senza che lui potesse prevenirlo, gli presi il mento tra le dita e lo portai a guardarmi. Elia spirò, rilassò le spalle e i suoi occhi si persero nei miei. Gli accarezzai la guancia con il pollice, inducendolo a sciogliersi e tranquillizzarsi.

«Ehi...», sussurrai, ma Elia negò, abbassando lo sguardo. Riuscii comunque a riottenere la sua attenzione, «È tutto okay.»

Elia scosse di nuovo il capo, chiudendo gli occhi e adagiando maggiormente la guancia sul palmo della mia mano. Quando risollevò le palpebre aveva la sclera arrossata e le lacrime che premevano di uscire.

Ammorbidii lo sguardo quando provò a trattenerle, «È tutto okay, Elia.»

«Scusa», mormorò, con la voce spezzata, «Scusa, non volevo.» Gli vibrò il labbro inferiore prima che una lacrima gli solcò la guancia, «Scusami, per favore.»

Gli cinsi le spalle in un abbraccio, mi venne naturale stringerlo, come si fa con i bambini dopo che sono caduti e si sono sbucciati le ginocchia. Elia mi afferrò la schiena tra le mani, affondando il viso nell'incavo del mio collo.

Mi lasciai avvolgere e inghiottire dal suo corpo, «Non è colpa tua.» Mormorai, tenendolo stretto, «Mi hai sentita?»

Elia annuì, accarezzandomi i capelli tra le mani e dandomi un bacio sulla spalla, stringendomi più forte. «Scusa, scusa, scusa.»

Non ci dicemmo più niente, lo aiutai ad asciugarsi le lacrime, sorridendogli piano.

Nel tragitto in motorino, non mi mantenni a lui ma lo abbracciai. Sorpassò qualche macchina e mi guardò dallo specchietto, io incrociai il suo sguardo pensieroso e gli feci la linguaccia riuscendo a farlo ridere lievemente.

Parcheggiò nel primo posto libero, sistemammo i caschi ed Elia mi allungò la mano per raggiungerlo e attraversare la strada.

Una volta percorso il lunghissimo viale, salimmo le scale per raggiungere l'appartamento di nonna Silvia, prima di bussare due volte, Elia mi guardò da sopra la spalla: «Mi uccide», mormorò.

Nonna Silvia sbucò da dietro il portone. Il sorriso che aveva spillato tra le rughe del viso pallido sparì quando notò cosa decorava il viso di suo nipote.

«Ciao nonnì.»

«Disgraziato!» Urlò, prendendolo per il braccio, costringendolo ad entrare, «Dimmi che non è quello che penso io.»

Ma Elia non le rispose, si abbassò ad accarezzare Mina che si stava strofinando sul suo polpaccio. Io chiusi il portone con calma. «Vado sul balcone.»

«Fammi vedere, torna qua! Elia Delle Donne! Non farmi urlare!», sbuffò, per poi guardarmi, mi accarezzò la spalla, «Ciao, gioia, scusami ma non sto bene quando lo vedo conciato così.» Mi diede un bacio sulla fronte e corse claudicante verso il balcone, urlando di nuovo il nome del ragazzo.

La seguii e mi affacciai — nonna Silvia che provava a farlo parlare, ma Elia non fiatava nemmeno un po', ignorando ogni domanda —, «Silvia, scusami, dov'è l'acqua ossigenata?»

«In bagno, primo sportello a destra», mi rispose prontamente, «Elia, che miseria, dimmi che cosa ti ha detto almeno!»

Mi procurai l'acqua ossigenata, dei dischetti d'ovatta e ritornai da loro. Nonna Silvia era seduta al suo posto ed Elia aveva le braccia incrociate al petto e il viso rivolto al cielo.

Bagnai l'ovatta, «Forza, vieni qua», gli presi il mento e la premetti dolcemente sul taglio infiammato sotto al labbro.

Elia si lamentò in un mugugno, «Ce n'è bisogno?», borbottò, socchiudendo le palpebre per lanciarmi un'occhiata in tralice.

«Sì, idiota, a meno che tu non voglia delle infezioni è necessario disinfettare.» Strinsi le labbra, pulendo il taglio minuziosamente. Elia alzò le sopracciglia nervoso; passai al taglio sotto alla narice, «Dopo ti conviene mettere del ghiaccio.»

«Io gliele taglio quelle mani maledette. Si deve togliere quel brutto vizio di usarle, è un mostro.» Sputò con astio la nonna, guardando suo nipote soffrire.

«Lascia perdere, no'», borbottò Elia, «L'ho istigato io.»

«Elì dici sempre così, quand'è che smetterai di difenderlo?»

«Non lo difendo, nonna.»

«Però fai sempre finta di niente, Elì, ch'è peggio!»

«Non ne voglio parlà, mi fa male la testa.» Disse Elia, massaggiandosi la tempia, io — senza manco rifletterci — gli massaggiai l'altra.

«Dai, fatemi contenta e mangiatevi un po' di tiramisù», iniziò nonna Silvia, «Ve lo metto, sì?»

Elia ed io ridemmo all'unisono, «Sì, va bene, nonna», pronunciò, facendola scattare in cucina.

«Grazie», le dissi io, guardandola per sorriderle.

Silvia sventolò la mano entrando in casa, «Grazie a te, Isabè! Che qua, se non ci stavi tu, 'sto disgraziato mi avrebbe fatto solo incazzà e spaventà!»

Elia annuì, strizzando un occhio e stringendo le labbra in un ghigno storto, «C'ha ragione.» Sussurrò.

«Vado a prendere il ghiaccio, tu non toccarti la guancia che hai le mani sporche.» Lo avvisai, indicandolo, per poi girarmi.

Elia mi afferrò il polso per farmi voltare verso di lui. «Posso avere un bacio?»

Scossi il capo, divertita, per poi chinarmi a dargli il bacio che tanto voleva. Elia sorrise sulle mie labbra e mi pizzicò il fianco.

Mi allontanai e raggiunsi nonna Silvia in cucina, che impiattava l'ultima fetta di tiramisù in un piattino. «Serve del ghiaccio», le sorrisi, timidamente.

«Oh, sì, prendi quello nel congelatore.» Me lo indicò con un gesto della mano ed io mi apprestai a prenderlo. «Allora?» Mi chiese, facendomi girare a guardarla. Sorrideva.

«Come?» Richiusi il congelatore.

«C'avevo visto lungo?»

«Forse», abbassai lo sguardo, «Forse sì.» Mi corressi, con più sicurezza.

Silvia annuì, mostrandomi un sorriso di soddisfazione che le alleggerì l'incarnato e gli occhi vispi.

«Ti dispiace darmi una mano?», mi chiese, lasciando cadere il coltello nel lavabo.

Afferrai un piattino e la seguii in balcone. Mi accomodai accanto ad Elia, «Tieni, premi il ghiaccio sul livido e sul naso.» Lui lo fece, senza dire né A, né B.

Elia e la nonna chiacchierarono di varie convenzionalità di famiglia, tipo che aveva visto la cugina di secondo grado in giro con il nipote di una sua amica o che la figlia del primo marito di sua nipote aveva tradito il compagno. Cose che nemmeno Elia riuscì a capire, infatti le sue espressioni concentrate e sconcertate mi fecero ridere un paio di volte.

«Incredibile, vero?» Chiese Silvia, cercando apprensione da Elia.

«Eh, sì.» Annuì lui, stringendo le labbra.

Quando il silenzio riempì l'aria, si sentì il suono lento e premuroso di una famosissima canzone di Elvis Presley.

Elia si accigliò e guardò sua nonna, «Cristo Santo, ma funziona ancora quella radio?»

«Ovvio che funziona, Elia, vedi che quella radio morirà quando morirò io.»

«Quindi mai?», rise lui.

«Quindi mai.»

Sorrisi mentre accarezzavo il pelo aranciato di Mina, accucciatasi sulle mie gambe. La mano di Elia si interpose, facendomi alzare lo sguardo su di lui. «Che?»

«Fai vedere alla nonna se t'ho insegnato qualcosa.»

Voleva ballare. Lì.

«Ma no... non mi sembra il caso–»

«Sì, forza, non vedo ballare qualcuno da fin troppo tempo.» Lo incoraggiò, nonna Silvia.

Guardai Elia di sbieco, che sorrideva di sottecchi, invitandomi ad afferrargli la mano. Quindi posai Mina sulla sedia alla mia destra, facendola svegliare e miagolare. Mi scusai e le diedi un'altra carezza.

Con un sospiro imbarazzato decisi di alzarmi e aggrapparmi alla sua mano.

Like a river flows surely to the sea, darling, so it goes. Some things are meant to be.

Cantava Presley, io mi agguantai al suo braccio per nascondere il viso sulla sua spalla. L'altro suo braccio scivolò dietro la mia schiena, un po' troppo in basso. «La prossima volta che provi a mettermi ancora in imbarazzo, giuro che parto per Roma senza neanche salutarti.» Sussurrai, vicino al suo orecchio.

Elia poggio le labbra sul mio capo, sorridendo piano, «Tu non te ne torneresti mai a Roma senza salutarmi.»

Ridacchiai, nervosamente, «Mi ero dimenticata di star parlando con Mister Convinzione.»

«Non è colpa mia se non sai dire le stronzate», sussurrò, facendomi fare una giravolta.

Quando ritornai a un centimetro dal suo viso, Elia aveva un ghigno beffardo sulla bocca. Fossetta. «E smettila di farmi fare le giravolte ogni qualvolta che mi verrebbe da risponderti male.» Gli diedi un pugnetto sulla spalla.

«Preferisci un casqué?»

«No.» Alzai gli occhi al cielo.

Elia ridacchiò, «Dai, possibile che dobbiamo discutere pure quando facciamo qualcosa di carino?»

«Sei tu che mi fa innervosire.»

Alla luce del Sole, i suoi occhi verdi diventavano ancora più chiari, talmente da sembrare trasparenti. Restai incantata per qualche secondo, finché non disse: «Allora non parlo più.»

Deglutii, poggiando il mento sulla sua spalla. Ondeggiammo per altri minuti, a tempo con la musica, con Mina che ci passava tra i piedi e i cinguettii degli uccellini sugli alberi.

Take my hand, take my whole life too. For I can't help falling in love with you.

Riflettei sul testo della canzone. Immaginai all'imprevedibilità del fatto che io potessi seriamente innamorarmi di uno come Elia. Ci ragionai su, e arrivai alla conclusione che se fosse accaduto sarebbe stato piuttosto pericoloso, potrei dire sbagliato. Ma non ero preoccupata perché non volessi o perché non fosse un buon partito, più che altro perché la possibilità che potessi provare qualcosa per lui poteva esistere. E quest'ultimo aspetto era quello che mi spaventava: provare qualcosa.

Non sapevo nemmeno come si iniziasse a provare qualcosa, né tantomeno come si finisse. Ed ero più che certa che finire di provare qualcosa era più difficile di iniziare.

I miei occhi si spostarono sulla nonna, che si stava asciugando gli occhi con un fazzolettino sgualcito.

«Oh mio Dio», sussurrai, «Elia, sta piangendo...»

Elia voltò il capo ed entrambi la guardammo imperterriti, senza sapere cosa dire. Nonna Silvia si rese conto la stessimo fissando e abbozzò un sorriso, soffiandosi il naso e premendosi le guance con le dita, «Scusatemi, ho rovinato tutto...»

«Ma no», intervenni subito, «Non sono per niente brava a ballare, quindi è normale piangere.»

Elia scosse il capo roteando gli occhi verso l'alto, gli diedi una gomitata per poi correre ad accomodarmi di fronte a lei. «No, gioia, tranquilla, non sto piangendo per questo», mi rassicurò, sospirando, «È che mi avete ricordato i vecchi tempi.»

«Andiamo, nonna...» Borbottò Elia, sedendosi accanto a me.

«Elia, dai», sussurrai. Perciò, lui, alzò le mani a mezz'aria e mi lasciò parlare. «I vecchi tempi? Che vecchi tempi?» Appoggiai i gomiti sul tavolo e il mento sulle mani congiunte, in procinto di ascoltarla.

«Di quando ero giovane, alla vostra età. Col mio Gioele, l'inizio della mia esperienza», tirò su con il naso, sistemandosi i capelli colorati di nero.

Si accese una lampadina nei miei ricordi. «Oh, sì! Mi stavi accennando qualcosa, la scorsa volta. Ti va di raccontarmela? Sempre se ti va...», domandai, con tutta la gentilezza di cui ero predisposta.

Nonna Silvia fece per parlare, poi si ammutolì nel guardare suo nipote. Io lo guardai, mordicchiandomi il labbro, speranzosa che non avrebbe interrotto come aveva precedentemente fatto.

Elia le fece cenno di continuare con un colpetto del mento. Si mise comodo contro lo schienale e allungò il braccio dietro la mia sedia. Sorrisi come una bambina a cui era stato consentito di andare alla fiera.

«Bene», iniziò, tossendo per un secondo, schiarendosi le idee. La vidi infilare una mano dentro la tasca per recuperare qualcosa, tirò fuori un foglietto ingiallito, lo osservò con un sorriso malinconico e gli diede una carezza con la punta del pollice. Me lo passò, scoprii fosse una fotografia.

Al tatto era ruvida da una parte e liscia dall'altra. Rappresentava due giovani ragazzi, giovanissimi. Una donna e un uomo in bianco e nero. «Siete tu e...»

«Gioele, sì», annuì, sorridendomi con dolcezza. «Guardalo, non trovi che fosse identico ad Elia?»

Io mi concentrai, osservai bene l'immagine sbiadita di quell'uomo che avrà avuto circa la nostra età ad allora. Ricci ordinati, sicuramente neri corvino, pece. Un sorriso da far invidia al mondo intero e due occhi grandi e che emanavano un'allegria che rendeva persino da una fotografia vecchia come quella.

Ci riconobbi molto di Elia.

«Sì, decisamente. Stesso identico sorriso.» Ridacchiai.

Silvia rise assieme a me, «In quella foto non si capisce, ma avevano gli stessi occhi. Se io guardo negli occhi di Elia, io ci vedo Gioele.» Mormorò, stringendo le labbra.

Per qualche motivo volevo provare la sensazione di immaginarmi Gioele, lì, accanto a me. Così mi voltai a osservare Elia. Aveva nascosto la bocca con una mano, ma gli occhi erano tutti lì.

Se erano veramente come quelli di Elia, allora, pensai, è normale tu ti sia innamorata.

Elia spostò le iridi nelle mie, aveva lo sguardo decisamente intristito, o forse smarrito nei suoi ricordi, in qualche oblio personale in cui non avevo ancora accesso.

«Ci credo», gli sorrisi.

Intravidi Elia sorridermi a sua volta da dietro il palmo. Riportai la mia attenzione su Silvia anche se sapevo che lui avesse continuato a fissarmi.

«Questa fotografia l'abbiamo realizzata all'entrata della nostra primissima casa.»

«Sul serio?», domandai, osservando nuovamente la foto. «Così giovani?»

Silvia annuì piano, ripercorrendo quegli anni. «Ci siamo incontrati quando i tempi erano difficili per entrambi», cominciò, «Era appena dopo la guerra, i miei s'erano impoveriti e io m'ero messa dietro al bancone del bar di famiglia — quello che c'è ancora a Ischia Ponte, vicino al molo —. Avevo appena diciott'anni, sapevo a stento cosa c'era fuori il mare di Ischia, Gioele aveva all'incirca vent'anni. Me lo ricordo ancora...», le venne da sorridere, alzò lo sguardo sul cielo, «Entrò nel bar con questa macchina fotografica al collo, questi capelli ricci, folti e sistemati e con questi due occhi profondi che si guardava attorno come se da un momento all'altro avrebbe potuto rivoltare il mondo intero», si portò una mano sulle labbra, «S'avvicinò al bancone, io ero tutta un fremito perché era un bell'uomo ed io mica c'avevo il coraggio di parlà ai begli uomini, facevo fa' tutto a mia sorella...», la cadenza dialettale le aggrovigliava la lingua, facendo suonare il racconto come una filastrocca. «Così lo servì lei, io me ne restai in disparte», ridacchiò, «Ma quello, il Gioele mio, c'aveva l'occhio più lungo della gamba. M'aveva vista canticchiare una canzone che stava venendo riprodotta dalla radioncina là vicino», mi guardò, lasciandomi col fiato sospeso, «"Azzurro", disse. Io lo guardai perché ero l'unica rimasta dietro al bancone e lui era l'unico davanti. Pensavo ce l'avesse con me, pensavo fosse pazzo. Poi vide il mio sgomento e tutto ridente mi disse: "È la canzone. Azzuro, di Adriano Celentano, ha vinto Sanremo"», quella storia addolciva persino il sale e lo sguardo di meraviglia di Silvia la rendeva ancor più speciale. «Io sapevo che Sanremo lo vedessero i ricchi che si potevano permettere l'antenna satellitare, quindi non sapevo come rispondergli, eppure lui continuò e mi spiegò tutto ciò che dovevo sapere su Sanremo. Fu in quel momento che capii che lui poteva spiegarmi tutte le cose che io non sapevo, dalle più banali alle più difficili. È stato il mio unico primo amore, ci siamo innamorati nell'esatto secondo in cui ci siamo guardati. Era destino, lui, prima o poi, sarebbe entrato in quel bar nello stesso giorno in cui c'ero io e c'era Celentano con quella benedetta canzone.» Spiegò, facendomi venire la pelle d'oca.

Immaginai due ragazzi sconosciuti, provenienti da due mondi paralleli per poi incontrarsi inaspettatamente perché nati per stare assieme.

«Sarà stato meraviglioso...», mormorai, quasi senza farmi sentire.

«Lo era. Lui e quello che ci univa. Mi insegnò a coltivare le mie passioni, i miei sogni. Mi insegnò ad amare me stessa. Mi insegnò a ballare...», ridacchiò, «Nessuno m'aveva mai chiesto di ballare prima, di solito lo si faceva alle feste in paese, ma lo chiedevano tutti a mia sorella, e non mi impegnavo più di tanto. Lo fece per la prima volta nella sua casa sulla spiaggia, la prima in cui coabitammo. Ero scoordinata come un palo della luce, gli pestavo sempre i piedi, ero pessima», ridacchiò con gli occhi umidi, «Cheek to cheek. Ballavamo sempre quella, ed è con quella che ho insegnato anche ad Elia a ballare.»

«Nonna...!», sbottò lui, sbuffando divertito, «Tanto gliel'ho già detto, non c'è modo di mettermi in imbarazzo.» Ribattette.

«Sì? Quindi le hai raccontato già di come vomitasti per i troppi casq–»

«No, quello no perché fa schifo persino a me. Grazie mille, nonna.» La bloccò sul nascere, facendoci scoppiare a ridere.

Io ed Elia ci scambiammo una lunga occhiata, trovai una sensazione confortevole e di serenità nel suo sguardo, che rilasciava ed emanava solo luce, come i diamanti riflessi al Sole.

«Vuoi sapere il primo complimento che gli feci?» Domandò Silvia, accendendo la mia curiosità.

Annuii senza nemmeno darle il tempo di pensare. Silvia si umettò le labbra screpolate, giocherellò con i bordi del suo vestito. «Profumi d'alba

Eravamo tornati a casa nello stesso momento in cui il cielo si tingeva di porpora. Pensai al racconto di Silvia per tutto il tempo.

La verità era che mi immedesimavano fin troppo in lei. Capivo i suoi stati d'animo e la sua trasparenza nelle emozioni. Mi era piaciuta inequivocabilmente molto la loro storia, era degna di un libro di Sparks.

Elia mi accompagnò fino al cancello della Villa. Scesi dalla sella slegando il casco, glielo porsi e mi pettinai i capelli con le dita.

Quando incrociammo gli sguardi ci sorridemmo a vicenda. L'uno lo specchio dell'altro. «Sicuro di voler rientrare? Puoi restare a cenare da me, li convinco i miei...» Tentai.

«Stai tranquilla», mi rassicurò, «Non è di certo la prima volta che succede una cosa del genere. Non è niente.»

Io abbassai lo sguardo, dispiaciuta di non poter fare nulla. «Sì, lo so e—», ritornai a guardarlo, «E mi dispiace tantissimo, Elia, che tu non immagini.»

Io non volevo crederci, e sono stata una stupida a non cogliere i segnali d'allarme.

«Non ci pensare, non è compito tuo. È lui lo stronzo, no?» Fece spallucce, minimizzando.

Ha ragione Silvia, perché lo giustifichi? Cos'altro c'è che nemmeno lei, tua nonna, sa?

«Sì, ma... Elia, non lo meriti, non capisco...»

«Non c'è nulla da capire. Nessuno lo merita.»

«Ma tu no. Tu non lo meriti, si tratta di te.» Continuai a contestare, «Perché non riesci a capire la differenza?»

Tagliò corto. «Facciamo che ti scrivo per farti sapere se non m'ha ammazzato.»

Sì, certo, usa pure il sarcasmo da idiota indifferente.

«Non fai ridere», scossi il capo, triste. Elia non rispose, così io mi morsi l'interno della guancia e pensai un secondo, «Chiamami. Non scrivermi, ma chiamami.» Puntualizzai.

«Okay, ti chiamo.» Annuì.

«Giura?»

«Giuro.»

«Vedi che t'aspetto sveglia...» Gli puntai il dito contro, facendolo solo sorridere, «Sto facendo la seria.»

«Isa, ti chiamo, lo giuro solennemente.»

«Perfetto», incrociai le braccia al petto. Guardai la punta dei miei piedi, «È bella la storia di tuo nonno e tua nonna», ammisi, «Perché non volevi che me la raccontasse?»

Elia si leccò il labbro, osservò il tramonto. «Non è che non volessi», mormorò, «Non ero pronto a sentirgliela raccontare ad un'altra persona che non fossi io o i miei fratelli. Perché non l'ho superata, Isa, perché mi manca tanto.» Strinse le labbra per non farmi notare che sarebbe potuto scoppiare a piangere.

La prima cosa che feci fu avvicinarmi per accarezzargli le guance di velluto e morbide, «Ci eri tanto legato?»

«Tanto da volere fosse lui mio padre.» Confessò, sfiorandomi lo zigomo con la nocca e scrutandomi con una dolcezza che mi fece sciogliere lentamente, «Tanto da essere geloso dell'infanzia di mia madre.»

Abbozzai un sorriso debole e triste, affondando con il viso sul suo petto e abbracciarlo come se potesse svanire in uno sfarfallio di ciglia. Infilai una mano tra i suoi capelli sulla nuca, asciugandomi una lacrima con il polso dell'altra.

«Mi dispiace, Elia», ripetetti, desolata e mortificata di non sapergli dire nient'altro. «Non mi sarei mai immaginata che tu stessi affrontando una cosa del genere.»

Lui sentì, probabilmente, il mio tentativo di trattenere i singhiozzi, così mi prese il viso fra le mani, baciandomi le guance per togliere le mie lacrime, per cacciare via i miei mostri e i suoi. «Non piangere.»

Non pensavo portassi il piombo dentro di te.

«Lo so, sono una stupida, dovrei essere io quella a consolarti.»

«No», sorrise, fragile nei miei occhi, «Non c'è n'è bisogno.»

«Perché?»

«Perché so che non è colpa mia. Le persone, a volte, si innamorano di persone sbagliate.»

Non ci dicemmo null'altro. Il silenzio valeva più di mille parole, valeva più di qualsiasi altro gesto.

Riuscii solo a baciarlo. Provai a prendere con me un po' del suo mostro fatto di piombo, sperando sarei riuscita a distruggerlo almeno un po', ma sapevamo entrambi che fosse un'impresa gigantesca.

Ci sono mostri fin troppo grandi per essere combattuti persino in due. Ciononostante, ci avrei provato.

«Elia», lo richiamai, ad un passo dal cancello, facendolo girare. «Volevo farti sapere che anche tu profumi d'alba.»

È l'unico profumo che ti si addice di più. L'inizio di ogni cosa e la primavera di ogni giorno della vita di chiunque: l'alba, con la forza di voler rivoluzionare ogni legge dell'universo.

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