Alla ricerca dell'alba

By CuoreAdElica

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๐—–๐—ผ๐—บ๐—ฝ๐—น๐—ฒ๐˜๐—ฎ โœ”๏ธ ๐™ฝ๐šŽ๐š  ๐™ฐ๐š๐šž๐š•๐š ๐Ÿ’š 2/2 Isabella Arese รจ in cerca di emozioni. รˆ in cerca di albe e tra... More

Cast
Premessa
Come un pittore - Parte Uno
Prologo
1. Odio l'estate
2. Anti-eroe
3. Gelati indesiderati
4. Le tipologie variopinte del silenzio
5. Maschere fragili e Mr. Convinzione
6. Fratello maggiore
7. Incarnazione del principio eracliteo
8. Avere diciott'anni
9. Troppo sensibile
10. Heroes - Pt. 1
11. Heroes - Pt.2
12. Che poi da te non รจ Versailles
13. Carpe diem
15. I miracoli esistono
16. Cerasรฌ
17. Dieci ciliegie, dieci desideri
18. Non sei come dicono loro
19. La casa in riva al mare
20. Mistica, come le sirene
21. La leggenda di Celentano
22. Colorare i sentimenti - Pt. 1
23. Colorare i sentimenti - Pt. 2
24. Cosa รจ successo il quattro luglio?
25. Cicatrici di ricordi
26. L'abbiamo scoperta noi, Ischia
27. Il marinaio e la sua bussola
28. Ritorno alla realtร 
La lettera
Come nelle favole - Parte Due
29. Einstein รจ a Roma
30. Tribunale d'amore
31. Maledetto tempo
32. Sfiorare manco con una rosa
33. Stessa stazione? - Pt. 1
34. Stessa stazione? - Pt. 2
35. Dirsi ti amo senza dirselo
36. Il filo rosso di Arianna
37. Albori
Epilogo
Ringraziamenti

14. Baby & Johnny

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By CuoreAdElica



Ischia.
Estate.


Una volta, a lezione, il professore di filosofia disse che noi siamo tutti esseri singoli, di una diversità unica, talmente unica da essere spaventosa. Ed è proprio a causa di ciò che cerchiamo di colmare la nostra paura con qualcuno che sia più o meno simile a noi o del tutto diverso. La colmiamo per non sentirci talmente unici da sentirci soli.

Dopo quella lezione delle ore dieci e dodici di un giorno uggioso d'autunno, ho iniziato a vederla come il professore, a credere nelle sue parole: tutti cerchiamo qualcuno che riesca a colmare la nostra singolarità con la propria, per non sentirci soli.

Non mi sarei mai aspettata di trovare quella persona in un'estate noiosa come quella. In realtà non avrei mai pensato di trovarla e basta.

I giorni fluivano flemmatici tra la siccità di quell'estate e il suono delle cicale mischiato al profumo di grano.

«Non è giusto!» Sbottai ridendo guardando le spalle di Elia allontanarsi fra le spinte veloci delle sue ginocchia sui pedali della sua bicicletta.

Il Sole caldo del pomeriggio incendiava anche l'anfratto più recondito del campo secco, il rumore delle ruote riempiva l'aria assieme al cinguettio perpetuo degli uccellini.

La risata di Elia ghermì le mie orecchie quando si alzò dal sedile per pedalare ancor più repentinamente, lasciandomi dietro di qualche decina di metri.

Avevamo deciso di farci una pedalata per sbarazzarci della noia da campagna, c'era stato un temporale fortissimo nei giorni precedenti che aveva sfasciato quasi tutto, impedendo l'intento di vederci, così Elia se ne uscì con una proposta delle quattro del pomeriggio: "Tira fuori la bicicletta, ci andiamo a sperdere." Mi scrisse, senza aggiungere altro.

A me venne spontaneo acconsentire.

In quell'orario il silenzio abitava nella Villa, c'era chi riposava nella freschezza delle lenzuola pulite o chi si metteva a mollo in piscina. Io, invece, prima di precipitarmi in giardino a recuperare la bicicletta, ero intenta a leggere — in fondo era l'unica cosa che mi permetteva di evadere.

«Lo vedi quell'albero?» Mi pedalò di fianco.

«Sì.»

«Vuoi scommettere che c'arrivo prima io?»

«Non faremo alcuna stupida gara da bambini di sei anni, rischiamo di intrappolarci nel grano e l'ospedale è abbastanza lontano.»

«Cagasotto!» Borbottò dopo aver sbuffato. Fissai le sue spalle che giocavano con i raggi solari, i capelli irti che gli ricadevano sulla nuca mentre il vento li districava.

Le api germogliavano dai meandri più insidiosi del campo, una palpitazione di fervore mi spinse a raggiungerlo con un paio di pedalate.

Una volta giunti all'ombra della quercia, Elia fece scivolare la bici sul terriccio arido e verdeggiante, io lo imitai finché non si accomodò ai piedi di esso. Dinanzi a noi una distesa sciupata di grano d'oro.

Quando mi sedetti di fronte a lui a gambe incrociate, strappai una manciata di erbetta in un pugno ed Elia si accese una sigaretta.

Aprii il palmo della mano e lasciai che il vento si portasse con sé i straccetti d'erba; i miei occhi incrociarono quelli di Elia. Ci sorridemmo a vicenda ed io riabbassai lo sguardo sui miei piedi. Sentivo il Sole bruciarmi la schiena, ma non era spiacevole.

Il silenzio composto da cinguettii e frusciare del grano venne sovrastato dalla voce sottile di Elia: «Hai più lentiggini.»

Un alone di fumo si disperdeva sopra la sua testa, la sigaretta a penzolare dalle dita e un riccio tra le sopracciglia.

«Dici?», assottigliai le palpebre.

«Rispetto a qualche settimana fa, sì.»

Annuii, continuandolo a guardare, Elia fece lo stesso e si riportò la sigaretta tra le labbra. Aspirò e poggiò il capo al tronco della quercia.

«Perché non sei al mare?» Gli domandai dopo aver preso una profonda boccata d'aria pulita e satura di natura.

Elia, con le guance un po' arrossate dal caldo e gli occhi verdissimi, alzò il mento e fece uscire il fumo dalla bocca. Fissai quest'ultimo sciogliersi sotto la luce del Sole e poi mi incollai nuovamente al suo viso.

«Perché non mi piace.»

Assottigliai le palpebre, «Non ti piace?»

Annuì, Elia fece cadere la cenere tra il terriccio. Lo guardai male, gli ripetei più volte che mi desse fastidio quando lo faceva.

«Perché? Tu vuoi andare a mare?»

«Io?», m'indicai, le sopracciglia leggermente sollevate. «No, no. Non voglio.»

«Allora perché me lo hai chiesto?» Si riportò la sigaretta tra le labbra.

«Perché ricordo che la prima volta che ti ho visto stavi tornando dal mare.» Era una motivazione stupida, eppure non ci pensai due volte prima di porgli quella domanda. Un pezzo di me, di inconscio, desiderava di sentirgli dire qualcosa di preciso che non avevo il coraggio di ammettere.

«Non ci vado più tanto spesso.» Fece spallucce.

«Di solito ci vai con Francesco?», unii le ginocchia e le portai al petto.

«Quando capita, sì.» Si umettò il labbro e si tolse un riccio fastidioso dalla fronte.

«Ti dà fastidio se ti chiedo qualcosa sulla vostra amicizia?»

«No», sorrise stranito e scosse il capo. «Spara.»

«Quando vi siete conosciuti?»

Elia arricciò un po' il naso e riflettè, schiuse le labbra e poi rispose: «In prima media», tirò dalla sigaretta, «Era seduto da solo all'ultimo banco, non c'erano altri posti liberi se non quello vicino a lui. Gli chiesi se potessi sedermi e lui annuì immediatamente. Era molto più diverso rispetto a come lo hai conosciuto tu adesso, sia esteticamente che caratterialmente. Era molto freddo e sulle sue, questo perché c'erano degli stronzi che lo prendevano in giro.»

«Perché? Cosa gli dicevano?» Chiesi, confusa.

«Be', non era palestrato come adesso. Era più pienotto, insomma.» Fece spallucce, «Come se quei dieci kili in più non lo rendessero una persona qualunque.»

Pensai arditamente a quella informazione. Passò qualche secondo prima che ponessi la mia domanda: «A te non importava del suo aspetto, quindi?»

«Perché avrebbe dovuto fregarmene?» Sorrise divertito, sempre col capo poggiato al tronco e la sigaretta ferma tra le labbra. «A nessuno fregava veramente se pesasse tanto, volevano solo il divertimento assicurato. Un giorno lo trovai rannicchiato nel bagno della scuola che piangeva: era la prima volta che lo vedevo piangere; da quel momento capii che saremo diventati amici. Da quel giorno in poi, se c'era Francesco, c'era Elia e viceversa.»

Sorrisi con le labbra strette, «Dev'essere stato bello trovarvi. Soprattutto per lui.»

«Sì», annuì, abbassò lo sguardo da me, «Diciamo che ci siamo salvati a vicenda senza rendercene conto.» Mi riguardò: occhi negli occhi.

Per un attimo persi la capacità di parlare, un raggio di Sole solcò un'iride. Mi sembrò di avere davanti uno smeraldo chiarissimo.

Boccheggiai e deglutii prima di riuscir a pronunciare: «È stato difficile per lui? Per Francesco?»

«Sotto che punto di vista?»

«Superare una cosa del genere, da solo—»

«Non era da solo.» Mi fece un occhiolino, «Fidati, non l'ho mai lasciato solo. A volte abbiamo bisogno di una singola persona che ci ricordi il valore che abbiamo. Credo che adesso Fra sappia quanto vale.» Fece spallucce, «Quegli stronzi erano degli infelici del cazzo.»

Mi domandai se allora fosse vero che certi problemi si possono superare solamente con l'aiuto della persona giusta. Chissà quanto Fra è grato ad Elia.

«Soffre ancora per quello che gli dicevano?»

Elia scosse il capo, «No, per niente. L'hai visto com'è fatto: adesso è uno sbruffone con due bicipiti alla Johnny Bravo.»

Risi, lui sorrise. «Un po' c'assomiglia.»

«Vero?» Sollevò le sopracciglia. Aspirò. «Io glielo dico sempre», schiacciò la sigaretta sul terriccio arido.

Sospirai e lo osservai con un mezzo sorriso sereno, poggiai la guancia sulle ginocchia e lui socchiuse gli occhi prendendo un bel respiro. In quel silenzio pomeridiano si sentivano poche cose, tra cui il mio e il suo respiro, il calore che sentivo appiccicarsi alla pelle dal terreno e la luce che filtrava dai rami sopra le nostra teste.

«Ti hanno mai detto che sei noiosa?»

Risollevai lo sguardo su di lui. «Come?»

«Sì, noiosa.»

Sbattetti le palpebre più volte prima di trovare il coraggio di ribattere.

«Che significa?»

«Che non hai mai niente da raccontare.»

«Questo non è vero. Io ho tanto da raccontare.»

«Davvero?» Sospirò, grattandosi la guancia.

Indietreggiai con il mento e aggrottai la fronte, «Scusami, ma tu credi davvero che io venga a parlare a te di me?»

«No, non intendevo parlare di te, egocentrica.» Ammiccò un sorrisetto, uno di quelli che sanno di maleducazione.

Qualcosa dentro di me ribollì ardentemente. Era qualcosa di nuovo per me, sentivo l'anima bruciare sopra al cuore e nello stomaco. Mi sentivo... ferita? Da lui, poi? Da un ragazzo che conoscevo poco?

«E cosa dovrei dirti, sentiamo?», dissi, con un tono di sfida.

«Non saprei...», sbuffò pensieroso, «Qualcosa che ti identifichi come persona. So solo che il tuo film preferito è una stupidissima commedia romantica», alzò gli occhi al cielo, divertito.

«Vedi che posso tranquillamente andarmene se continui a comportarti da maleducato e infantile ragazzino di dodici anni.» Sbottai, incrociando le gambe, lasciando le mie spalle e le mie scapole esili esposte più che mai.

«E, infatti, sei liberissima di andartene quando vuoi. Non hai niente di meglio da fare ugualmente.»

Mi morsi la lingua e serrai le dita nelle ginocchia. «Perché, tu? Hai qualcosa da raccontare?»

«Eccome. Io sono come il vaso di Pandora.» Mormorò come se fosse un segreto, mio e suo.

Assottigliai le palpebre e lui sorrise, di nuovo in quel modo che mi faceva accapponare la pelle. Come se riuscisse veramente a leggere le mie lentiggini, come si fa coi fondi del caffè.

«Lo sai che al suo interno conteneva tutti i mali del mondo, vero?»

«Certo che lo so.»

Ovvio che lo sai.

Scossi il capo. Sospirai, impermalosita. «Cosa vuoi sapere?»

«Voglio sapere se hai mai fatto una cosa che non avresti mai pensato di fare.»

«Tu sì?» Ribattei.

«Non rigirare la frittata.» Mi puntò il dito contro.

A quel punto abbassai lo sguardo: «La sai la risposta...» Risposi, improvvisamente imbarazzata.

«Perché lo credi?»

«Perché me lo hai detto stesso tu: mi si legge tutto in faccia.» Giocherellai con i lacci delle converse rosa.

«Però non mi hai ancora risposto. Vorrei sentirtelo dire.»

«No, no che non ho fatto follie.» Sospirai, «Non sono quel tipo di persona. Non riesco a vederci divertimento in certe cose, a volte penso di essere nata sbagliata, con qualcosa di rotto. Quante volte ho desiderato poter dire che anch'io ho riso fino a piangere. Fidati, la risposta già la sapevi da un pezzo, sei solo cattivo nel chiedermi questo genere di cose.»

«Non sei rotta», mormorò, «Sei... diversa

Mi venne da ridere, forse per non piangere. Lo guardai con un sorriso che sapeva di tristezza e ironia, le sopracciglia leggermente sollevate e la voglia di correre via a farsi largo tra i miei pensieri. Volevo nascondermi, fuggire, seppellirmi ed essere dimenticata da tutti. Da lui. Non era possibile che riuscisse a vedermi per quella che ero sotto quelle mille maschere. Mi sentivo in trappola nei suoi occhi.

«Certo», sussurrai.

«Non c'è nulla di sbagliato nel sentirsi o vedersi diversi. Ciò non significa che tu abbia qualcosa in meno agli altri.» Raddrizzò la schiena, poggiò le braccia sulle ginocchia lievemente distanti.

«Questo lo dici tu.»

«Hai ragione, lo dico io», arricciò il naso per un secondo, «Ti dispiace?»

Deglutii. Smisi di guardarlo. Ci fu qualche secondo di silenzio. Fui sicura che lo avrebbe definito: "silenzio rancoroso".

«Sembra che tu sappia sempre tutto.» Esordii, lui non rispose. Le mie iridi saettarono nelle sue, «È così? Sai tutto

Quella domanda lo mise in difficoltà. Per un momento mi sentii fiera di me stessa.

«No, non so niente.» Disse, mordendosi l'interno guancia. «Né di me, né di te, né di nessun altro.»

«Però ci sembra.»

«Anche tu sembri uguale a tutti quanti, ma invece...»

«Sembra che sia un insulto da come lo dici», mormorai.

«Per te risulta un insulto. Perché vuoi omologarti con gli altri? Non credi sia figo essere diversi?»

«Non fin quando gli altri tendono a vederlo come un difetto. Non fin quando gli altri tendono a vederti come quella stupida, quella a cui non parlare, quella da tenere a distanza.» Spiegai, «Credi che sia stata io a voler essere così, credi che io abbia sempre voluto stare sola? No, perché io so che tipo di persona sei tu, l'ho capito troppo bene.» Non mi fermai, solo per prendere un respiro, «Tu non sai cosa significa essere scelta per ultima nelle partite di pallavolo, quelle rare volte che mi permettevano di giocare. Tu non sai cosa significa andare in panico quando il professore decide di assegnare dei lavori di gruppo e tu sai per certo che ti ritroverai a fare il lavoro da solo. Non lo sai che significa restare a casa tutto il giorno, anche nelle festività perché sai che nessuno ha intenzione di vederti, parlarti, sapere come stai al di fuori di quelle stupidissime quattro mura scolastiche. Tu non lo sai

Elia si alzò, prendendomi alla sprovvista. Si pulì i pantaloni dalla polvere e fili d'erba secchi. Dopodiché mi fissò dall'alto, sembravo un cane bastonato: ferito e illuso.

Mi porse la mano.

«Cosa c'è?»

«Facciamo una follia.»

Alternai lo sguardo tra le sue dita e i suoi occhi che non si mossero da me nemmeno per un istante. «Tu sei fuori di testa.»

«Hai detto che non l'hai mai fatta o ho sentito male io?»

«E cosa ti suggerisce che io voglia fare una... "follia" con te?»

«Con chi altro hai intenzione di farla?»

«È necessario farla?»

«Non sei brava a rispondere alle domande.»

«E tu non sei bravo a farle. Idiota.»

«Muoviti.» Fece per afferrarmi entrambe le mani, ma io mi sottrassi a quella possibilità prima che si realizzasse: scattai in piedi.

«No, me ne torno a casa. Fa caldo e ho bisogno di una vasca.»

«Non fare la rompipalle.» Gridò un po' alle mie spalle, quando ero già a cinque passi da lui.

«Ciao Elia!», afferrai i manubri della mia bicicletta e la tirai su.

«Che ti costa?» Continuò, «Vuoi continuare ad essere noiosa?»

«Potrei insultarti di nuovo se non la finisci.»

Elia rise veramente. Non seppi spiegarmelo, ma sentirlo ridere per alcune cose che dicevo mi faceva sentire bene, mi conferiva sollievo.

«Quindi fai così?» Sbottò, più forte dato che ero ormai lontana. «Quando non hai il coraggio di accettare qualcosa, scappi via al primo colpo? Nemmeno ci provi?» Non risposi, mi allontanai ancora. «Non potrai mai dire di aver vissuto davvero senza averci nemmeno provato!»

Inutile dire che qualche secondo dopo mi ritrovai nuovamente di fronte a lui a braccia conserte. Fu inevitabile. Era bravo a convincermi. Fu quasi naturale ritornare indietro.

In qualsiasi caso, avrei fatto di tutto pur di strappargli quella convinzione arrogante sul volto quando lo guardai con quell'aria di incomprensione e stizza. «Embè? Che ti ha detto di fare il cervello?»

Elia continuò a sorridermi, gli era impossibile non farlo. «L'hai mai visto Dirty Dancing?»

Mi accigliai: «Sì, chi non ha visto Dirty Dancing?», bofonchiai.

«Perfetto.» Cominciò a camminare verso una distesa arida e rasa.

Lo seguii senza capire. «Cosa vuoi fare?», chiesi confusa. Poi, mentre le sue spalle sembravano troppo vicine, capii. «Non se ne parla!»

Elia scoppiò a ridere, «Cosa c'è? È una follia fin troppo "poco follia" per essere ritenuta tale. Devi solo saltare e restare in equilibrio, non vedo nulla di pericoloso o infattibile.»

«Ma te lo scordi!», risi nervosa. «Se ti aspetti che io faccia una cosa del genere ti sbagli. È l'ultima cosa che mi verrebbe da fare in questa vita.»

«A maggior ragione dovremmo farlo.» Si girò verso di me.

«Sei uno dei più idioti che io abbia mai conosciuto, ed io di idioti ne ho conosciuti parecchi.» Lo giudicai, accusandolo con precisione.

«Allora è un onore per me.» Indicò uno spazio indefinito dietro di me, «Forza, vai lì.»

«Fai sul serio?»

«Mai stato più serio.» Si passò le mani tra i ricci, scompigliandoseli leggermente.

Lo fissai seria. Uno di fronte all'altro. «Non lo farò.»

Elia alzò gli occhi al cielo. «Sei noiosa.»

Boccheggiai e, prima che mi uscissero le parole di bocca, gli puntai il dito contro: «Smettila di chiamarmi in quel modo.»

«È inevitabile», ridacchiò, «Forza. Vai più lontano.»

«Lo sai che non lo farò.» Continuai. «Innanzitutto i protagonisti si sono allenati per fare questa cosa. Tu pretendi di farla su due piedi?»

«Sì.» Alzai le sopracciglia, scettica. Elia mi scambiò un altro sorriso, «Non ti faccio cadere.» Strinsi le labbra con l'indecisione a farmi sospirare. «Promesso.»

Poi mi guardò un secondo e congiunse le mani a mo di preghiera, tirò fuori il labbro inferiore e a me venne da ridere. «Okay! Okay...», gli diedi le spalle con le mani a mezz'aria. «Ma se mi faccio male sono guai.»

«Ricevuto.» Strofinò i palmi delle mani tra di loro. Arrivai a qualche passo da lui e mi rivoltai. «Ci sei?»

«Mi prendi?»

«Ti prendo.»

«Giura.»

Si baciò il pollice in simbolo di giuramento, «Giuro.»

Sospirai e sciolsi i palmi delle mani, mi mordicchiai l'interno guancia e sbuffai ancora. Elia mi incitò di nuovo, divertito.

Ci ragionai qualche secondo: «È una follia. Non posso.»

Elia sbuffò. Lo stavo snervando abbastanza. «Isa.» Esordì, serio. «Spegni il cervello.» Scandì, ferreo.

Per un mattino fu facile. Erano solo quattro passi, niente di trascendentale in fin dei conti. Forse era più l'idea di farmi stringere da lui a spaventarmi.

Un paio di falcate e ritornai indietro. Elia si passò una mano sul volto: «Che c'è adesso?»

«Mi guardi.» Sbottai.

Lui rise, non divertito. Era una sorta di tenerezza. Nei miei confronti? Chi lo sa.

«Eh, mi pare normale. Non devo?»

«No!»

«Piuttosto chiudi gli occhi, io devo guardarti per forza.»

«Lo sai che me la pagherai?»

«Io credo di no.»

«Facciamo velocemente.»

«Tu ci metti anni solo per sbattere le palpebre...»

«Non prendertela con me adesso.» Gli puntai il dito contro.

Lui alzò le mani a mezz'aria, arreso.

Senza rifletterci, perciò, chiusi gli occhi e i miei piedi si mossero per qualche secondo prima che sentissi le sue mani afferrarmi i fianchi e alzarmi contro la gravità. Spalancai le palpebre non appena non sentii il mio corpo stabile e in bilico, orizzontale.

Fu un secondo fin troppo lungo.

Ed il mio cuore strepitava nella gabbia toracica. Mi chiesi se Baby di Dirty Dancing si sentisse così quando ballava con Johnny. Attaccati, intimi, folli.

«Okay!» Mi scappò una mezza risata, «Mettimi giù, adesso.»

«In realtà pensavo di portarti a casa così», propose, ridendo.

«Portami giù, dai.» Le mie mani finirono sopra le sue spalle, gliele strinsi forte.

Allora lo fece: lasciò i miei fianchi e mi fece scivolare sul suo addome, costringendomi a stringergli forte il collo come appiglio, un braccio attorno ad esso e un altro contro la sua spalla.

Di nuovo. Attaccati, intimi, folli. Finii con il naso ad un soffio dal suo e i miei occhi si sbarrarono leggermente quando distinsi le sue iridi dalle sue pupille. Così vicino, così vivo. E quando rividi quel sorrisetto che mi rivolgeva la maggior parte delle volte sentii una morsa nello stomaco, ancor di più quando il suo sguardo sulle mie labbra mi fece dubitare di qualsiasi cosa, persino della mia esistenza.

E il profumo. E il colore della sua pelle. E la caratterizzazione dei suoi piccoli nei.

«Ti ho fatta cadere?»

«No.» Risposi, con voce sottile e priva di respiro per quella distanza ravvicinata. «Però non tocco ancora a terra.»

«Embè?» Sorrise ancor di più, facendo sbucare uno spicchio di denti bianchi. «Non è bello?»

Strinsi la bocca per non sorridere. Lui mosse febbricitante le iridi fra il mio mezzo sorriso e i miei occhi. «Cretino. Fammi scendere.»

«Se proprio ci tieni...» Si chinò leggermente e finalmente toccai il terreno.

Il tragitto verso casa fu silenzioso; io davanti a lui, lui dietro di me. Il Sole calava, si avvicinava l'ora di cena. Mi accompagnò fino al mio cancello, cosa che mi sbalordì dato che pensavo ci saremmo salutati all'incrocio di casa sua.

Mi girai per lanciargli uno sguardo non appena arrivata. Misi il cavalletto alla bicicletta. «Grazie per avermi accompagnata.» Sorrisi un po'.

«Non ci ho fatto nemmeno caso.»

Annuii. «E... grazie per la chiacchierata.»

«Prego.» Si strofinò il sopracciglio col mignolo. «Comunque», canzonò, «Domani sera c'è una serata, vuoi venirci?»

«... Serata?»

«Una festicciola tranquilla.»

Strinsi le labbra, poco convinta. «Non lo so se fanno per me questo genere di cose.»

«Dovresti imparare a dire sì a cose a cui diresti di no. Magari non si rivelano esperienze fallimentari come credi.»

«Non tirare fuori i tuoi insegnamenti filosofici adesso.» Alzai le sopracciglia. «Ti farò sapere.»

«Ci conto, eh.» Mormorò, «Mi annoierei senza di te», disse, con un falso sarcasmo.

«Te l'hanno mai detto che sei proprio idiota a volte?» Assottigliai le palpebre, senza riuscire a non sorridergli.

«Guarda, da quando stai qua me lo sento dire fin troppo spesso.»

«Vuol dire che tiro fuori il peggio di te», ridacchiai.

«Forse anche il meglio.»

«Forse.» Abbassai lo sguardo e feci per togliere il cavalletto e andarmene. «Buona serat—»

«Dovresti farlo più spesso.»

«Cosa?»

«Ridere.»

Scossi il capo dopo averlo fissato per qualche secondo azzardato. Quella che mi uscì dalle labbra fu una risata imbarazzata e nervosa. «Dinne di meno.»

«Ero sincero.»

«Buonanotte, Elia.» Mi affrettai a dargli le spalle.

«Notte, Isabè.» Anche se non riuscii a vederlo, riuscii comunque a immaginare il sorriso che gli scolpì le labbra.

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