Alla ricerca dell'alba

By CuoreAdElica

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๐—–๐—ผ๐—บ๐—ฝ๐—น๐—ฒ๐˜๐—ฎ โœ”๏ธ ๐™ฝ๐šŽ๐š  ๐™ฐ๐š๐šž๐š•๐š ๐Ÿ’š 2/2 Isabella Arese รจ in cerca di emozioni. รˆ in cerca di albe e tra... More

Cast
Premessa
Come un pittore - Parte Uno
Prologo
1. Odio l'estate
2. Anti-eroe
3. Gelati indesiderati
4. Le tipologie variopinte del silenzio
5. Maschere fragili e Mr. Convinzione
6. Fratello maggiore
7. Incarnazione del principio eracliteo
8. Avere diciott'anni
9. Troppo sensibile
10. Heroes - Pt. 1
11. Heroes - Pt.2
12. Che poi da te non รจ Versailles
14. Baby & Johnny
15. I miracoli esistono
16. Cerasรฌ
17. Dieci ciliegie, dieci desideri
18. Non sei come dicono loro
19. La casa in riva al mare
20. Mistica, come le sirene
21. La leggenda di Celentano
22. Colorare i sentimenti - Pt. 1
23. Colorare i sentimenti - Pt. 2
24. Cosa รจ successo il quattro luglio?
25. Cicatrici di ricordi
26. L'abbiamo scoperta noi, Ischia
27. Il marinaio e la sua bussola
28. Ritorno alla realtร 
La lettera
Come nelle favole - Parte Due
29. Einstein รจ a Roma
30. Tribunale d'amore
31. Maledetto tempo
32. Sfiorare manco con una rosa
33. Stessa stazione? - Pt. 1
34. Stessa stazione? - Pt. 2
35. Dirsi ti amo senza dirselo
36. Il filo rosso di Arianna
37. Albori
Epilogo
Ringraziamenti

13. Carpe diem

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By CuoreAdElica






Ischia.
Estate.



In quei giorni imparai la differenza tra rimanere soli e stare soli. Perché quando rimani da solo è perché gli altri lo hanno voluto, sono stati gli altri a lasciarti da solo. Mentre stare da soli è un concetto totalmente diverso, perché decidi tu di stare da solo, è la conseguenza alla compagnia: dopo aver passato un pomeriggio con una persona, è normale stare da soli.

Nella mia testa si ripetette in continuazione la frase che mi disse su quel marciapiede Elia, come un disco rotto, un frisbee che torna indietro. "Non devi avere paura di parlare se vuoi essere una mia quasi amica", più la ripetevo più assumeva toni diversi dalla volta precedente.

Mi chiesi cosa volesse dire, mi chiesi come avesse fatto a capirlo che avevo paura di aprire bocca. Allora è vero? È vero che mi si legge in faccia? Non ero mai stata una con la parola facile, una con cui attaccare bottone alla prima occasione.

Piuttosto ero quella che rimaneva in silenzio nell'angolo più buio e oscurato della stanza. Non perché non fossi capace di intraprendere una conversazione con una qualsiasi persona, ma perché ero spaventata da quello che una sola parola sbagliata poteva scaturire.

A me bastava l'intonazione, bastava un verbo o un'espressione diversa dalla mia aspettativa e sarei scappata. Mi avrebbero invasa mille pensieri che, a loro volta, mi avrebbero fatto dubitare persino della mia voce e di ogni piccolezza.

Ero una di quelle che si fasciava la testa prima di rompersela. Credevo di non essere inclusa nel mondo e di non sapermi includere. Avevo provato sulla mia stessa pelle quella sensazione di scomodità durante delle circostanze oggettivamente normali; come ad esempio ritrovarmi in un gruppo di persone ed avere il sentore di non essere presente, di non essere accettata quando, magari, a quelle persone manco importava.

Mi ero illusa che quella sensazione non sarebbe più tornata, che fosse temporanea e che lontana da Roma e dal mio quartiere non sarebbe potuta traboccare.

Elia mi chiamò all'una, avevo sentito il cellulare squillare prima di scendere a pranzare in giardino.

«Che c'è?» Chiusi la porta guardando se nel corridoio ci fosse qualcuno.

«Manco buongiorno si dice?», ribattette fingendosi deluso.

«Sono di fretta. Buongiorno. Cosa c'è?», poggiai la schiena sulla superficie della porta.

«Stasera suoniamo ad una festicciola, devi venire», aveva ancora la voce assonnata, segno che fosse sveglio da poco.

«Festicciola?» Sospirai, «Descrivimi il tuo prototipo di festicciola.»

«È una cagata. Ci saranno solo vecchi e qualche famigliola in vacanza. Il padre di Gaetano la fa ogni anno per pubblicizzare la sua pasticceria.» Sembrò stiracchiarsi quando finì di parlare, «Non ci viene mai nessuno di solito.»

«È un peccato perché siete parecchio bravi.» Borbottai, «Ti faccio sapere fra poco.»

«Se mi dai un coprifuoco cercherò di rispettarlo e di portare Cenerentola a casa il prima possibile.»

«Ah-ha, stupido.»

Elia ridacchiò, «Non dimenticarti del nostro accordo.»

«No, non mi dimentico.» Sentii i miei chiamarmi ancora dal piano inferiore.

«Volevo solo avvertirti, ciao.»

«Ciao.»

«Ciao.» Continuò. Lo vidi sorridere con quell'accenno di mezza malizia.

«Ma sei scemo?»

«Dico io l'ultimo "ciao". Quindi, ciao!»

«Ciao!» Risi e attaccai scuotendo il capo.

Uscii da camera mia e attraversai il salotto a piedi nudi per ritrovarmi, poi, in giardino con mia madre che disponeva la pasta nei piatti e mio padre e mio zio Gianni che fumavano un sigaro sul portico.

Andai a sedermi accanto a Monica che finiva di cliccare ripetutamente i tasti del cellulare. Afferrai la forchetta e feci aderire le punte sul pollice. Si accomodarono tutti a tavola fra il rumore delle sedie sull'erba e tra il chiacchiericcio dei bambini.

Ringraziai mamma per avermi messo la pasta nel piatto fondo e, infilzando una pennetta, esalai: «Io... io e Monica volevamo uscire stasera.»

Monica smise di masticare e mi guardò con la bocca sporca, «Cosa?»

Io le diedi un calcio da sotto al tavolo e lei tossì, cominciando a sorseggiare: «Stronza», borbottò.

«Stasera?» ripetette papà, pulendosi gli angoli delle labbra. Poggiò il braccio sul tavolo, assunse la sua solita aria austera. «E... dove vorreste andare?»

Alternai lo sguardo fra i miei genitori, uno di fianco all'altro, e poi lanciai un messaggio in codice a Monica. Stammi al gioco. «Un suo amico fa un mini concerto.»

«Un mini concerto...?», confabulò mia sorella, le diedi un pizzicotto. «Un mini concerto!», rise nervosamente, «Già... un'idea carinissima!» Rivelò tra i denti, fingendo un sorriso.

«Posso andare con lei?», addentai la pasta. I miei genitori si scambiarono uno sguardo che la diceva lunga. «Promettiamo di ritornare presto.»

«Promettiamo

«Sta' zitta.» Fulminai Monica.

Sospirò impugnando la forchetta, temetti che potesse piegarsi tra le sue dita.

«Va bene.»

I miei occhi centrarono quelli di mia madre con incredulità. Per un secondo mi dimenticai come si parlasse. «Sul serio?», Monica mi diede un calcio nello stinco, «Cioè... grazie.» Strinsi le labbra in un sorriso soddisfatto e orgoglioso delle mie doti da bugiarda.

Mezz'ora dopo aver finito di pranzare, mi ritrovai in camera di Monica a parlare di quanto detto.

«Cos'è questa storia?», piegò le mani sui fianchi, severa e curiosa. «Io sono d'accordo a coprirti, ma devi avvisarmi. Ho già dei piani, ho già prenotato un tavolo alla discoteca che, per giunta, mi è costato un po' troppo.»

«Tu non verrai con me. Vai dove vuoi tu, basta che loro credano che io sia con te. Ci daremo le spalle a vicenda, okay? Io ti copro, tu mi copri.» Alzai un sopracciglio per un accenno di approvazione, Monica si rilassò, sciolse le braccia e annuì.

«Okay», mormorò, «Ma non finire nei guai», mi puntò il dito contro.

«No, macché», ridacchiai. «Per me è impossibile, fidati.»

Monica mi diede retta, fiduciosa. «Vai con quel ragazzo? Il vicino?»

«Sì», sospirai, cercando di apparire annoiata, «Elia, si chiama Elia. Mi ha costretta a fare questo stupido accordo...»

Mi accomodai sul suo letto a gambe incrociate e prendendo un cuscino per abbracciarlo. «È carino?» Sorrise, seguendomi e sedendosi vicino a me.

«È simpatico, sì.»

Monica rise un po', «Non in quel senso, sciocca. È carino?» Si indicò la faccia.

Elia è carino?

«Non lo so se lo si possa definire carino. Non so... non so...», sbuffai, «Senti, non lo so. Non ho mai definito un ragazzo per bellezza.»

«Andiamo! Descrivimelo», mi incitò, accarezzandomi una ciocca rossa.

«Be', ha i capelli neri», cominciai, in un sospiro pensieroso, «E ricci, il riccio giusto», Monica annuì, «Gli occhi verdi, ma verdi verdi, non verdi normale.»

Monica rise, «Quindi verde acceso.»

«Non acceso, forse è... profondo, verde profondo.»

«Okay, ce l'ho in mente.»

«Ha la pelle molto abbronzata. Tipo quella del nonno di mamma.» Disegnai un cuore sul cuscino con le dita, «Ha senso dell'umorismo, forse così tanto da farlo risultare irritante... oh, e poi ha un ottimo gusto in fatto di musica. Ascolta Adriano Celentano e quelle band vecchie. Ne parla come se fossero oro colato.» Ridacchiai, stranita nel ricordarmene. «Ha un amico con cui fa tutto, suonano assieme anche in questa band con quest'altro ragazzo.»

«Quindi è vero che è un mini concerto», domandò stupita.

«Sì, ma mi ha detto che ci va poca gente. Gliel'ha chiesto il padre di quest'altro ragazzo, il batterista della loro band, che sta inaugurando la sua pasticceria. E hanno accettato di suonare in cambio di dolci gratis», alzai gli occhi al cielo, ridendo.

«Dai», rise, portandosi i capelli di lato, «Mi sembra un programma divertente.»

«Anche a me.» Abbassai lo sguardo, sorridendo.

«Visto? Alla fine hai trovato un amico.»



🎶 BONUS 🎶


Aspettai Elia seduta sul suo motorino. Io e Monica eravamo uscite insieme, lei aveva appuntamento con le sue amiche alle nove, Elia mi aveva detto che mi sarebbe venuto a prendere per le nove e mezzo, perciò non mi dispiacque aspettarlo.

Le punte delle mie converse rosa non toccavano la ghiaia giallognola, il Sole era tramontato da un po' e l'aria era fresca, tanto che le spighe di grano frusciavano nel silenzio.

Avevo sbirciato dentro casa loro maleducatamente, ma giusto per due secondi, il tempo di capire quale fosse camera di Elia. Tuttavia, non riuscii nel mio intento poiché il rumore del portone che si chiudeva attirò la mia attenzione. Avevo sentito la voce di Simona accennare qualcosa.

Elia corse fino al cancello a testa bassa, con indosso una camicetta di lino completamente aperta e dei bermuda lunghi di jeans. Sul suo petto scuro brillava il ciondolo appeso ad una collanina, qualche giorno prima mi ero permessa di guardarlo: era una bussola.

Scavalcò il cancelletto senza pensarci nemmeno, quando mi vide già lì gli spuntò un sorriso sincero. «Ciao», respirò, venendomi incontro con un riccio davanti agli occhi.

«Ciao», ricambiai il sorriso, con le mani a tenersi al sedile e i piedi a dondolare. Trattenni il labbro inferiore con quello superiore per nascondere la soddisfazione di poter essere lì.

«D'ora in poi facciamo che non dico "ti vengo a prendere", che tanto tu arrivi sempre prima», ridacchiò.

«Scusa», mi chiusi nelle spalle, «È che Monica esce sempre prima del solito.»

«Non fa niente», mi tranquillizzò mentre mi sfiorò il ginocchio per infilare la chiave nel quadrante.

Io scesi dalla sella così lui avrebbe potuto prendere i caschi. Dopo esserceli messi, gli chiesi: «Emozionato?»

«No», negò, guardandomi di sbieco, le gambe divaricate sulla sella per dare la spinta al motorino, tolse il cavalletto. «Perché?»

«Non lo so. A me metterebbe molta ansia suonare davanti a delle persone.» Ammisi, salendo dietro di lui.

«Tu pensi troppo agli altri», disse con leggerezza, non come un giudizio, «Se fai una cosa è perché la fai per te stessa, non per gli altri.»

Sbarcammo nelle strade di Ischia, un po' affollate per via del weekend, il cielo era inondato di stelle, la Luna uno spicchio indefinito e lontano e il Castello Aragonese l'unica certezza nel mare, come la stella polare nelle notti buie.

Avevo preso più dimestichezza con il contatto che doveva esserci, praticamente, per forza fra me e il suo corpo. Mentirei se dicessi che mi dispiaceva cingergli i fianchi. Un po' perché faceva freddo in motorino, un po' perché ero egoista, ma quello pseudo abbraccio mi dava conforto.

Ci volle poco per arrivare al punto predestinato. Dopo una discesa ripida, in cui le mie ginocchia sfiorarono le sue cosce, sfociammo nella stradina che costellava una piazza allestita per bene.

Parcheggiò in un punto oscurato, sotto ad una quercia nell'angolo più infimo della piazza. Mi aveva mentito, non c'era esattamente nessuno, anzi, era abbastanza piena, potrei dire gremita.

Scesi rapidamente, intenta a slacciarmi il casco. Elia tolse le chiavi, «Nessuno, eh?», mormorai.

Mi guardò divertito. Una fossetta tradì l'intento di ammazzare un sorriso. «Ho detto "di solito", che poi il padre di Gaetano fa dei dolci da paura è un'altra questione.»

«Sbruffone», gli premetti il casco sul petto, ridendo e aggiustando la mia chioma di capelli sulle spalle. «Cosa suonerete?»

Elia mi guardò da sotto le sopracciglia, intento a piazzare i caschi nel sottosella, «Mica posso dirtelo, oh.»

«Perché no?», gli diedi una pacca sulla spalla.

«Perché sei una spettatrice, non mi è concesso dare queste informazioni.»

«Non è vero, non esiste questa regola.»

Chiuse la sella, «Sì, invece.»

Sbuffai, dando uno sguardo alla piazza e alle persone che c'erano. Mi prese una sensazione nello stomaco, forse era ansia, agitazione. C'era molta gente.

Le mie pupille si focalizzarono su una persona in particolare. Bionda, alta, bella. Riguardai Elia, accigliata, «C'è Elisa.»

I suoi occhi saettarono su di me, increduli, non sbattette ciglio. «Cazzo dici?»

Io mi accigliai maggiormente. Ci fu un momento in cui ci parlammo con gli occhi, uno di quei momenti in cui nei fumetti ci sono le nuvolette con i punti sospensivi.

Spalancai la bocca, «... Oh mio Dio», sussurrai. Mi portai, in un movimento repentino, una mano alla bocca, scoppiai a ridere ed Elia mi fissò esasperato, pietrificato. «Oh mio Dio!» Risi più forte.

«La finisci?»

«Tu non le hai scritto, vero?» Chiesi, divertita, «Sei un cretino, un vero cretino.»

«Non sei d'aiuto», fece una smorfia.

«Che dovrei fare?» Feci spallucce, «La prossima volta ti impari a fare lo stronzo.» Elia mi indicò, stavolta divertito anche lui. «Te lo sei meritato, non rinfacciarmi le parolacce!»

Roteò gli occhi al cielo, «Vabbè, eh...», si grattò la nuca. «Pazienza, la ignoro finché non mi sbuca davanti.»

«E poi che fai?» Incrociai le braccia al petto, «La guardi come un pesce lesso?»

«No, la saluto.» Mi disse con ovvietà.

«Come se non fosse successo niente?»

«Esatto», sorrise con quella faccia da schiaffi, «Ero sbronzo a merda, e pure lei.»

«Te sei proprio–»

«Non m'insultà di nuovo che poi mi sento in colpa.»

«Non te ne frega di quello che prova lei per te?» Borbottai. Probabilmente stavo facendo una scenata inutile. «Sei superficiale, lo sai questo?»

«Perché te la prendi tanto? Non sarò mica l'uomo della sua vita», scosse il capo, «Andiamo, dai.» Mi invitò a seguirlo mentre faceva dei passi all'indietro.

«Non risolverai nulla in questo modo, te lo dico.» Scossi il capo, andandogli vicino, «Non parlarmi finché non le dirai la verità.»

Ci incamminammo verso la marmaglia alla ricerca di Francesco e Gaetano, le voci altrui si intrecciarono alle nostre e dovemmo parlarci vicino all'orecchio o nelle prossimità. Elia si chinava per ascoltarmi, sfiorandomi appena la guancia. Dovetti nascondere il fatto che fossi arrossita la prima volta che lo fece.

«Ovvero che non mi piace e che non voglio niente con lei? È questa la verità, vuoi che le dica questo?»

«Sì. Meglio questo che la delusione di una povera ragazza che è riuscita a baciare il ragazzo di cui ha una cotta e che non ha sue notizie da allora.» Sollevai le sopracciglia, con serietà. Elia ci fece spazio con il braccio tra alcune persone, evitando che venissi percossa.

«Wow, questa situazione ti ha colpito proprio nel fondo del tuo orgoglio femminile.»

Evitai la sua battuta, «Devi parlarle.» Glielo dissi guardandolo fisso negli occhi.

«Finalmente! Eccovi qua!» I nostri occhi si distaccarono un secondo dopo per ricevere la figura di Fra davanti a noi, con le mani a mezz'aria, «Vi stiamo aspettando da trenta minuti.»

Elia sospirò, incrociando le braccia, «Piccola discussione nel tragitto», sospirò, come se lui fosse quello afflitto. Assottigliai le palpebre e feci per rispondergli, ma la sua voce mi zittì facendomi ingoiare il respiro e stringere le labbra. «Allo'? Dove devo mettere le mani?»

«Va' dietro al palco, ci sono certi fili che manco il tecnico sa collegare, vedi che puoi fare.»

Elia annuì, mi guardò prima di incamminarsi alle spalle di Francesco, come per chiedermi se fosse tutto okay. «Posso dare una mano? Voglio essere d'aiuto.» Chiesi a Francesco.

Fra si guardò in giro, «Ci dovrebbe essere mio padre da qualche parte, negli stand. È quello con una bella panza grande e palaticchio, c'ha due baffi grigi e fa le torte alla frutta. Digli che sei n'amica mia.» Disse ciò e sparì dai miei occhi.

"Digli che sei n'amica mia"

«Oh...», esalai mentre un sorriso si faceva strada sulle mie labbra. Amica sua. Sono sua amica.

Mi voltai, facendomi coraggio, e mi inoltrai nuovamente nella folla per avvicinarmi agli stand dai quali usciva un profumo di zucchero e cioccolato a perdita d'occhio. Sentivo l'acquolina accrescere nella bocca.

Sbirciai dentro ogni stand, oltre ogni tendone, finché non intravidi la testa lucida di una omaccione col grembiule sporco di farina e crema chantilly. Passai davanti alla fila, ricevendo alcune occhiate perché credettero stessi sorpassando, e mi feci notare.

«Ciao!», sventolai la mano. Appurai fosse il padre di Francesco per via degli occhi azzurrissimi. «Lei è il padre di Francesco, giusto?»

Non appena dissi quella frase, si avvicinò rapidamente: «Che ha combinato?»

«Niente... io sono, sì, sono una sua amica. Mi ha detto di venire qui per essere d'aiuto.» Spiegai, innocentemente, «Posso aiutarla? Vedo che è da solo e la fila è lunga, altre due mani le faranno bene...», gli sorrisi, cercando di essere convincente.

«Ah», annuì, «Va bene, grazie mille.» Mi fece cenno di passare dietro al bancone. Pescò un grembiule con dei gattini sopra che mi fece un po' ridere e me lo porse, io lo infilai subito. «Hai esperienza?»

«... Be', no. Ma sono affidabile! Se lei mi dice quello che devo fare, farò del mio meglio, glielo giuro.» Non potevo permettermi di fare una figuraccia con il padre di un mio nuovo amico, volevo essere ben vista.

«Chiamami Franco, non sono ancora così vecchio per darmi del lei.» Mi passò dei guanti di lattice e mi suggerì di metterli, «Ti prendo in parola. Come ti chiami?»

«Isabella, ma puoi chiamarmi Isa, Franco.»

«Perfetto, Isa», mi strinse la mano, «Mettiamoci al lavoro.»

Mi mostrò cosa fare, era molto attrezzato tra forno bollente e friggitrice e, davanti a me, una lunga sfilza di dolciumi che solo a vederli potevo sentirne il sapore. Ce n'erano di tutti i tipi.

Passò un'ora senza che io me ne rendessi conto. La impiegai nel domandare "Cosa le servo?" e nell'imbustare con cura le paste oliate e quelle al forno in sacchetti che si inumidivano di profumo.

Non appena servita l'ultima persona, sentii un rumore proveniente dal fondo della piazza, dal palco esattamente. Io e Franco ci guardammo, mi fece cenno di andare e così io mi tolsi i guanti e il grembiule per trovare un posto appartato e vedere cosa avrebbero combinato.

Trovai un posticino su un muretto lontana da tutti, mi rannicchiai incrociando le gambe e poggiando le guance sui palmi della mano. Elia aveva infilato la tracolla della chitarra e, con un sorriso carismatico, si avvicinò al microfono perfettamente posizionato davanti alla sua bocca.

«Eccoci qua», la sua voce uscì dalle casse fino ad estendersi a macchia d'olio come delle radici in ogni anfratto della piazza. Arrivava chiara, melodiosa, bella. Lo accolse un boato di applausi, guardai la piazza un po' distante da me. Le amiche di Elia applaudivano saltellando, ne riconobbi alcune da quella volta al campetto, oltre ad Elisa e vari ragazzi familiari. «Come ogni anno, eh?», altri applausi ed Elia ridacchiò.

I suoi occhi erano iridescenti.

Sistemò le corde della chitarra, «Scusate il ritardo, ma ci sono stati problemi tecnici che c'hanno fregati. Come ogni anno, vorremmo esibirvi due canzoni. La prima, che conoscete bene e la seconda a nostra scelta. Quest'anno l'ho scelta un po' all'ultimo minuto, ma spero vi piaccia. Buon divertimento e mangiate 'sti dolci che so' la fine del mondo.» Partì una risata generale all'unisono dell'accordo di Francesco.

Riconobbi il ritmo. Paracetamolo. Segretamente, dopo quel pomeriggio nel garage, la ascoltai fino a prendere sonno e un po' l'avevo imparata a memoria. Quando cominciò a cantare sprigionò una personalità che gli avevo visto addosso dal primo momento in cui l'avevo visto.

Elia era diverso. Non credetti a me stessa quando partorii quel pensiero. Non credetti a me stessa quando riuscii ad affibbiare quell'aggettivo ad una persona all'infuori di me.

Diverso in senso buono, ovviamente. Aveva fascino, era distinguibile, era lui e solo lui. Lo guardavi e sapevi che quello lì fosse Elia. Lo sapevi dal modo in cui la voce avvolgeva e abbracciava le parole e le note con un tepore che faceva sciogliere qualsiasi cosa. Lo sapevi dal modo in cui la chitarra stava a sentire solo e solamente lui, dal modo in cui la teneva ferma e dal modo in cui riuscisse a comunicare anche attraverso il corpo.

Era, in poche parole, ipnotizzante.

Cominciai a canticchiare qualche strofa e, sorprendentemente, risi anche quando la risata di Elia si mischiò alla sua voce vedendo due signori che si misero a ballare in maniera a dir poco imbarazzante al centro della piazza.

Nel ritornello tutti cantarono. Tutti, anche i pasticceri negli stand.

La canzone terminò e iniziò un applauso. «Grazie, troppo gentili», rispose Francesco, sorridendo e facendo l'occhiolino.

Ridacchiai e abbracciai le ginocchia. Elia prese un sorso d'acqua che aveva lasciato accanto alle casse. Nuovamente vicino al microfono, Elia si schiarì la gola. «Penso che la maggior parte di voi conosca questa canzone, e se non la conoscete vergognatevi», disse indignato, «Per quest'estate abbiamo scelto un classicone di Vasco, spero apprezziate.»

Dopo un breve e sofisticato assolo tetro di Francesco, la voce di Elia scandì: «"Respiri piano per non far rumore, ti addormenti di sera e ti risvegli col Sole. Sei chiara come un'alba, sei fresca come l'aria...

Mi incuriosii e prestai sempre più attenzione. Avrei dovuto vergognarmi, perché io quella canzone non l'avevo mai sentita.

«"Diventi rossa se qualcuno ti guarda e sei fantastica quando sei assorta nei tuoi problemi, nei tuoi pensieri...

Mi venne da sorridere. Lo osservai su quel palco, sembrava troppo lontano da quella realtà. Ma era lì, in realtà lui era lì. Dopo una frazione di secondo il ritmo divenne incalzante e tutta quella delicatezza si trasformò in energia pian piano.

«"Ti vesti svogliatamente, non metti mai niente che possa attirare attenzione. Un particolare, solo per farti guardare

Continuò a cantare e gli assoli di Fra ed Elia che si alternavano rendevano l'atmosfera più magica e incredibile. Tenni il ritmo con il piede e presi ad oscillare con la testa. Mi piaceva parecchio, "parecchio" è il minimo.

Mi piaceva da morire. Ma non l'avrei ammesso, non a lui, non in quel momento.

«"E quando guardi con quegli occhi grandi, forse un po' troppo sinceri, sinceri, si vede quello che pensi, quello che sogni...

Mi morsi l'angolo della bocca per non sorridere ancora di più. Dio, sono patetica. Lì per lì non seppi perché mi venisse così tanto da sorridere, credetti fosse per la gioia di vedere come ci fosse gente che li apprezzasse sul serio perché, indubbiamente, erano bravissimi.

Ma, da egocentrica, pensai che quella frase, quella minuscola e insignificante frase, parlasse un tantino di me. Giusto un tantino. Mi rividi molto nella canzone, nel testo. Per il resto fu un'ottima scelta, le persone sembravano soddisfatte.

Una volta scesi dal palco, li raggiunsi quasi senza rifletterci. Si mossero prima le mie gambe e solo dopo il mio cervello ricevette le informazioni.

Feci il giro e li trovai chini a sistemare gli strumenti che ridevano e scherzavano. Feci una piccola corsetta per spaventarli. «Ehi!», loro sobbalzarono quando mi videro saltare dal nulla. Io risi forte.

Francesco rise assieme a me, Gaetano ed Elia ci fissarono come se fossimo due bambini. «Dov'eri finita?», mi domandò Elia dopo che Francesco smise di abbracciarmi.

«Nascosta su un muretto, lontana dalle urla delle vostre fan. C'è una cinquantenne che va pazza per il batterista.»

Elia e Francesco scoppiarono a ridere e si piegarono su se stessi, Gaetano mi alzò il dito medio e diede dei pugni sulle spalle ad entrambi i suoi amici.

«Come ti siamo sembrati?» Domandò Francesco, alzando il suo involucro nero con all'interno la chitarra.

«Assurdi», dissi, camminando all'indietro. «E non fate i finti modesti, perché non vi credo.» Li indicai.

«Guarda avanti, piuttosto.» Mi suggerì Elia, impedendo che inciampassi su un filo afferrandomi per il gomito.

Gaetano ci salutò per andare dal padre che lo aspettava, era quasi mezzanotte e mezza e la piazza straripava. Mi avevano detto che era normale, si sarebbe placato tutto per le tre all'incirca.

Sorpassammo la fila allo stand del padre di Francesco, «Pa'!», gridò.

Franco si voltò e sorrise al figlio. Si avvicinò e lo strinse in un abbraccio caloroso, e Francesco non si lamentò che avesse il grembiule unto di olio.

Poi toccò ad Elia, che rise prima di ricambiare, «Che bravi 'sti ragazzi miei», strofinò la mano sulla spalla di Elia, per poi allontanarsi e dargli una carezza sulla guancia.

Sorrisi anch'io nel vedere quell'affettuosità.

«Pa', vuoi 'na mano? Dai, che non c'ho niente da fa'.» Francesco si tolse la chitarra dalla spalla e la poggiò vicino al tendone.

Elia guardò l'orario, «Uagliù, i' me n'aggià ij.» — «Ragazzi, io me ne devo andare.»

Francesco guardò il suo migliore amico, poi me. Annuì senza farsi troppi problemi. Franco non fece domande, si affrettò ad avvolgere in un pacco circa cinque paste.

«Tenete», si avvicinò, «Isa mi ha aiutato ed è stata bravissima. Grazie mille», mi poggiò la mano sulla spalla, io sorrisi timidamente. «Cia' Elì, mi raccomando, fatti sentire.»

Elia annuì e poi mi fece cenno di andare. Uscimmo dal groviglio di persone che ci rallentavano il passaggio per fare i complimenti ad Elia.

Giungemmo nel territorio vuoto, a pochi metri dal motorino. Alcuni ragazzi sostavano in quell'area per distaccarsi dal casino. Elia si tolse la chitarra e, con un sospiro, si sedette sulla sella.

«Aspetta», dissi, facendolo girare a guardarmi. «Cinque minuti e andiamo.» Mi sedetti sul bordo del marciapiede.

Elia rise e annuì, mi seguì sedendosi vicino a me. «Hai fame?», sventolò il pacco bianco e umido davanti ai miei occhi.

Annuii sorridendo. «È da due ore che ho l'odore sotto al naso. Devo mangiarne uno almeno.»

Elia scartò la busta: «Chiudi gli occhi e pescane uno.»

Sorrisi e chiusi gli occhi, infilai la mano nel sacchetto per poi afferrare un dolce e tirarlo fuori. Elia fece lo stesso e poi richiuse il pacchetto.

Addentai la pasta frolla morbidissima, con una crema gialla dolcissima. «Oh Dio», sospirai, Elia ridacchiò vedendomi in estasi. «Questa cosa è illegale. Ma cos'è?»

«Si chiama Zeppola di San Giuseppe, si mangia spesso alla festa del papà.»

«È tremendamente buona.» Bofonchiai, addentandone un altro pezzo.

«Lo so», poi mi avvicinò anche il suo dolce, «Prova ad assaggiare questa.»

«Sicuro?»

«Sì.»

Io gli avvicinai la mia zeppola ed entrambi assaggiamo il dolce dell'altro. «Porca miseria», dicemmo all'unisono, per poi ridere.

Mi disse che quella che avevo appena assaggiato fosse la Sfogliatella. La Regina di Napoli.

Elia prese della crema gialla con il dito e me la strisciò sulla guancia, facendomi stringere i denti e la bocca. «Cretino», mi pulii, guardandolo male, ma quel sorriso che mi spuntò dopo mandò all'aria l'intento.

Rimanemmo in silenzio per un po', ne approfittai per guardarmi attorno: di fronte a noi si ergeva un muro alto e rovinato dal tempo, l'intonaco era a brandelli in vari punti; più in là si intravedeva un cancello rigido con l'estremità appuntite. A pochi metri da esso vi era una cabina con un'insegna che citava "Fioraio".

Oltre al muro, oltre la sua vetta, riuscii a vedere delle piccole croci. Croci cristiane. Al buio, quello scenario, era abbastanza inquietante.

«C'è un cimitero?» Mormorai, girandomi verso Elia.

Elia smise di masticare e fissò davanti a sé. Annuì dopo qualche istante, «Sì.»

«E... non è un po' tetro organizzare una festa in lode ai dolci vicino a un cimitero?»

Elia fece spallucce, incurante. «Non è la prima volta. Se prosegui lungo la strada, più giù, ci sono delle scale che portano ad una spiaggia, Cartaromana.»

«Vicino a un cimitero?» Ripetetti.

Elia mi fissò come se non comprendesse il mio ragionamento, «Eh, vedi che è normale. Perché? A Roma dove stanno 'sti cimiteri? In cielo?»

«No», boccheggiai, «Sono in collina, lontani dal caos della città.»

«Qua no», rispose semplicemente.

«E non ti dà un po' fastidio?» Arricciai il naso.

Elia poggiò le braccia sulle ginocchia e fissò il cimitero con il mento lievemente alzato. «Forse.»

Lo osservai a lungo – il suo profilo definito e i ricci umidicci dal caldo – e lui mi lasciò fare, finii il dolce e pulii la bocca. «Okay», dissi, solo in quel momento si voltò. «Dimmi tre cose di te.»

Elia ridacchiò, realizzando ciò che avessi detto. Rilassò le spalle e alzò le sopracciglia: «Tre cose di me

«Sì», annuii, sorridendo, «Io non so niente se non che ascolti musica vecchia, suoni una chitarra, canti abbastanza benino e che il tuo cervello ha il quoziente intellettivo di Albert Einstein.»

Elia rise divertito quando dissi "benino". «Ti pare poco?»

«Eh, direi.»

«Inizia tu a dirmi tre cose di te.» Mi sfidò con un colpetto del mento.

«Va bene», accettai. Guardai altrove per pensare. «Allora... sono del segno dell'Ariete – mia sorella è ossessionata con l'astrologia –», alzai gli occhi al cielo stirando le labbra, «Non mi è mai piaciuto il mio aspetto esteriore, e il mio film preferito è 30 anni in un secondo.» Terminai chiudendo le mani sulle cosce. «Prego, il suo turno.»

Elia, prima di rispondere, mi guardò per qualche secondo negli occhi. Così intensamente da farmi sentire un peso sulle spalle e le orecchie infuocarsi.

«30 anni in un secondo, sei seria?», commentò, ridendo, io gli diedi un pizzicotto ed egli fece scivolare la testa di lato: «Okay, ci sono, ci sono!», sospirò, mordicchiandosi il labbro, «Sono dell'Aquario, sono cresciuto coi miei nonni e il mio film preferito è 2001: Odissea nello spazio.»

Scossi il capo, mezza divertita e mezza infastidita, «Come può essere il tuo film preferito? È lunghissimo e privo di senso.»

«È Kubrick.» Disse, in un mormorio. «Ed è scienza.»

«Scommetto che il tuo regista preferito è Nolan che sforna solo filmoni di quasi tre ore di cui non capisci mai un bel niente, con messaggi filosofici a sfondo scientifico dalla morale insignificante.»

Elia ghignò, sollevando l'angolo della bocca. Fossetta. «Ci hai azzeccato, oh.»

«Sei il tipico nerd stereotipato.»

«Ti stupirò: ho l'intera collezione di Star Wars in primo piano sulle mensole di camera mia.»

Risi coprendomi la faccia, «Sei serio?»

«Assolutamente sì.»

Smisi di ridere con un sospiro, mi grattai la guancia e mi rinchiusi nelle ginocchia per riservarmi del caldo. «Sei cresciuto con i tuoi nonni, quindi?»

«Eh sì», si umettò il labbro. «I miei erano giovani quando mi hanno avuto, e prima che nascesse Flavio sono sempre stato l'unico figlio. Mamma lavorava tanto, anche mio padre...», si fermò per fare mente locale, «E praticamente andavo ogni giorno da loro, finché non sono diventato grandicello e ho iniziato a cavarmela anche da solo.»

«Dovrai essere molto affezionato a loro.» Sorrisi teneramente.

Elia non rispose, si limitò ad annuire, «Sì, lo sono.»

«Continui a vederli?»

«Ogni fine settimana», dopodiché si alzò, lasciandomi delusa dato che avrei voluto continuare a parlare con lui in quell'atmosfera che s'era creata. «Forza, andiamo, si è fatto molto tardi.»

Annuii, mi alzai e armeggiai con il casco quando da lontano sentii delle voci abbastanza familiari. Elia aveva già lo sguardo puntato oltre le mie spalle quando quelle voci divenirono vivide.

«Hai visto com'era vestita?» Commentò una, scoprii si chiamasse Valentina.

«Ma poi, dico io, dov'è che li ha presi quei pantaloncini? Non vanno dall'80», rise un'altra.

Attraversarono la strada vicine, io ed Elia eravamo immersi nel buio. «E poi mi chiedo perché Elia stia sempre con lei, ma l'ha vista?»

Elisa si spostò una ciocca bionda con una mano, frugò nella borsa delle chiavi perché si fermarono davanti ad un'audi bianca.

«Lo dici solo perché sei gelosa, ammettilo.» L'altra ragazza si appoggiò alla portiera, annoiata.

Ignorai ciò che sentii perché ero abituata a fare così. Nonostante sapessi che tra qualche minuto avrei iniziato a rimuginare su quanto sentito e avrei preso in considerazione l'idea di rifarmi il guardaroba. Salii in sella a sguardo basso, forse ero anche imbarazzata.

«Non mi ha manco salutata, posso essere un po' incazzata o no?» Ribattette ancora, Elisa, cercando più freneticamente le chiavi nella borsetta bianca, «Perché oltre a non fregarsene un cazzo, quello preferisce starsene con la fragolina lentigginosa.»

Giocherellai con il braccialetto fin quando non notai che Elia fosse fermo, non s'era ancora infilato il casco e aveva la fronte aggrottata. Abbassò di colpo gli occhi nei miei, era serio, fin troppo serio. C'era qualcosa di infiammato nelle sue iridi, era... fastidio. O rabbia. O disprezzo. Non sapevo ancora come interpretare i suoi sguardi.

«Cosa?» Sussurrai, fingendo di non aver sentito. Eppure la mia voce non sapeva nascondere la debolezza che le parole degli altri mi procuravano.

Ti si legge tutto in faccia.

Avrei voluto che non fosse così, avrei voluto dire che avesse torto, avrei voluto dirgli il contrario. Avrei voluto odiarlo per come mi scavò la pelle in quel momento, ma non ci riuscii.

Elia risollevò lo sguardo per riportarlo su quel gruppetto di amiche, coloro che erano presenti al campetto settimane prima.

«Ciao, Elisa!» Gridò Elia, facendomi sobbalzare e sgranare gli occhi.

Gli diedi una pacca sul petto, «Sei impazzito?», dissi tra i denti.

«Elia?», Elisa lo cercò a vuoto, poi lo vide sventolare la mano e il suo sorriso scomparve quando mi vide. «Ciao...»

«Posso dirti una cosa?»

«Sì, certo», rispose, prontamente.

«Mi spiace fa' la stronzo, ma volevo avvertirti che, prima di chiederti il motivo per il quale non piaci agli altri, dovresti farti un'analisi introspettiva. Tra una pozzanghera e una pozzo c'è una grande differenza di profondità», si infilò il casco, finalmente, «E, se facessi due calcoli, capiresti tra i due cosa sei. Pozzanghera o pozzo?» Tolse il cavalletto e si accomodò a pochi centimetri da me. «E, un'altra cosa, quella stupida borsa ce l'ha uguale mia nonna. Solo che tu la chiami vintage, io la chiamo "fanculo gli ambientalisti". Buonanotte!»

Accelerò rompendo la quiete che riempiva gli angoli delle strade illuminate da sprazzi fiochi dei lampioni scassati.

Percorremmo la salita ed io dovetti mantenermi ai suoi fianchi obbligatoriamente. Mi torturai il labbro prima di avvicinarmi al suo orecchio e chiedergli: «Davvero tua nonna ha quella borsa?»

Elia scoppiò a ridere ed io lo scrutai in silenzio. Negò col capo, «No, non ha quella borsa. Mia nonna ha buon gusto!», urlò e piegò un po' il mento verso di me per farsi sentire.

Risi anch'io e poggiai il mento sulla spalla. L'unica cosa a ghermire il mio udito era il rumore del vento: «Grazie», dissi forte.

«Per cosa?», si accigliò, svoltando a destra, «Per averle detto che è una pozzanghera?»

Risi di nuovo, «Sì! Per quello!»

Elia annuì sorridendo a labbra strette, una fossetta a decorargli la guancia. «Isa, non c'è niente di male nel tuo modo di essere.» Mi disse, «Non dovresti essere insicura di te stessa, non ne vale la pena. Non c'è tempo per essere insicuri, bisogna vivere il momento!» Lo gridò, facendomi ridere e stringere di più contro la sua schiena poiché cominciò a correre spropositatamente per le strade. «Gridalo, forza!»

«Non c'è tempo per essere insicuri! Bisogna vivere il momento!»

Ridemmo contemporaneamente.

«Ancora! Finché non senti l'eco da qua alle stelle.»

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