Alla ricerca dell'alba

By CuoreAdElica

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๐—–๐—ผ๐—บ๐—ฝ๐—น๐—ฒ๐˜๐—ฎ โœ”๏ธ ๐™ฝ๐šŽ๐š  ๐™ฐ๐š๐šž๐š•๐š ๐Ÿ’š 2/2 Isabella Arese รจ in cerca di emozioni. รˆ in cerca di albe e tra... More

Cast
Premessa
Come un pittore - Parte Uno
Prologo
1. Odio l'estate
2. Anti-eroe
3. Gelati indesiderati
4. Le tipologie variopinte del silenzio
5. Maschere fragili e Mr. Convinzione
6. Fratello maggiore
7. Incarnazione del principio eracliteo
8. Avere diciott'anni
9. Troppo sensibile
10. Heroes - Pt. 1
11. Heroes - Pt.2
13. Carpe diem
14. Baby & Johnny
15. I miracoli esistono
16. Cerasรฌ
17. Dieci ciliegie, dieci desideri
18. Non sei come dicono loro
19. La casa in riva al mare
20. Mistica, come le sirene
21. La leggenda di Celentano
22. Colorare i sentimenti - Pt. 1
23. Colorare i sentimenti - Pt. 2
24. Cosa รจ successo il quattro luglio?
25. Cicatrici di ricordi
26. L'abbiamo scoperta noi, Ischia
27. Il marinaio e la sua bussola
28. Ritorno alla realtร 
La lettera
Come nelle favole - Parte Due
29. Einstein รจ a Roma
30. Tribunale d'amore
31. Maledetto tempo
32. Sfiorare manco con una rosa
33. Stessa stazione? - Pt. 1
34. Stessa stazione? - Pt. 2
35. Dirsi ti amo senza dirselo
36. Il filo rosso di Arianna
37. Albori
Epilogo
Ringraziamenti

12. Che poi da te non รจ Versailles

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By CuoreAdElica



"Ora sembra di capirci, sembriamo quasi amici. Ora sembra di capirci, sembriamo buoni amici.
Preso male che non c'è più nessuno come te."
— Punk, Gazzelle.



Ischia.
Estate.




Stavo ripensando a quello che era successo rigirandomi tra le lenzuola sfatte.

Ero tornata giusto in tempo per l'accordo con mia sorella. Una volta scesa dal motorino, Elia si slacciò il casco e cominciò a parlare: «Senti, io–»

«Non posso fermarmi ancora, sono in ritardissimo. Mi dispiace.» Dissi, con sincerità, restituendogli il casco rosa. Elia lo prese e sospirò, annuì piano. «Grazie», mi allontanai di un passo. Accennò un breve sorriso, forzandosi. Sei, per caso, dispiaciuto? «E... Elia, scrivile.»

Non mi rispose, ma preferii così. Arrivai a passo svelto da Monica che mi attendeva a braccia conserte.

«Forza, è tardi, Isa!» Mi afferrò da sotto il braccio, andai a sbattere contro tutte le buste di shopping che aveva fatto. «Ti avevo detto puntuale.»

«Sì, lo so, scusami.»

Era arrabbiata, ma non riuscì a non sorridermi. Io ridacchiai e Monica mi abbracciò circondandomi la spalla e dandomi un bacio sulla tempia.

Tre ore successive e mi ritrovavo punto e daccapo: nel mio letto ad aspettare qualcosa. Proprio mentre stavo per prendere sonno, il mio cellulare vibrò sul comodino.

Alzai solo la testa, poi allungai il braccio che cercò a tentoni il contatto con la cover gialla di silicone e lo attanagliai alle dita. La luce del display mi accecò per qualche secondo.

Era un messaggio. Elia (Vicino Ischia). Dovevo proprio cambiare nominativo. Cliccai sopra, scoprii fosse un link.

"Heroes – 2017 Remaster, David Bowie."

Da sotto un altro messaggio: "Fatti un favore e ascoltala. Però con le cuffiette, se no non ha senso."

Mi venne da ridere mentre rispondevo: "Cioè... tu vuoi scusarti facendomi ascoltare una canzone?"

"Eh, sì. Scusa, ma una canzone non è meglio di quattro fiori che poi moriranno? Mica le canzoni muoio?"

Mi morsicai il pollice. "Allora grazie, la ascolterò."

"Hanno fatto storie i tuoi?"

"Un po', ma non mi sono arrabbiata con te."

"Sicura?"

"Sicurissima. Non sei mica il mio chauffeur."

Non mi rispose per qualche secondo, poi la scritta sta scrivendo riapparì.

"Stavi dormendo?"

"Ci provavo, sì." Mi passai una mano sul sopracciglio. "Sei ancora con Fra?"

"Sì, me lo scollo verso le due, di sicuro."

Ridacchiai. "Digli che mi dispiace avergli fatto balzare la sua desiderata birra."

"Credo che gli hai fatto un piacere. S'è scolato due birre e mezza della mia."

"Ma tipo le birre sono come il gelato per noi donne?"

"Una specie, credo." Mi arrivarono due messaggi di seguito: "Volevo farti notare una cosa."

"Cosa?"

"Oggi hai detto una parolaccia."

Mi accigliai, "No, non è vero..."

"Sì, santarellina."

"Io non ricordo." Cambiai posizione, mi tenni con i gomiti sul materasso.

"Mi hai chiamato stronzo."

Nella mia testa si rievocò la scena della mia voce che pronuncia stronzo e mi schiacciai il palmo della mano sulla faccia.

"È colpa tua."

"Mia?" Potei sentirlo ridere.

"Sì, perché me lo hai tirato dal cuore. Ti sei comportato male con Elisa. Mi hai fatto innervosire."

"Ma se non la conosci nemmeno..."

"Ma so che significa quando il ragazzo che ti piace non ricambia e tutta la tua autostima va all'altro paese."

"È stata lei a baciarmi, e poi io ero su di giri. Se mi avesse baciato Fra non avrei capito la differenza."

"Sei veramente vergognoso."

"Si sarà già dimenticata."

Sospirai, infastidita.

"Per creanza dovresti mandarle un messaggio, minimo."

"Ho problemi più grandi di Elisa in questo momento, sincero."

Strinsi le labbra, digitai velocemente il seguente messaggio: "Hai già pensato alla proposta della tua preside?"

"No. Non lo so."

"Non ne vuoi parlare, vero?"

"No, non proprio..."

"Tranquillo, l'avevo intuito." Afferrai delle cuffiette attorcigliate dal cassetto del comodino. "Vado ad ascoltare la canzone."

"Brava, fammi sapere."

Schiacciai sul link che mi portò su un sito per leggere il testo della canzone. Infilai bene le cuffiette in entrambe le orecchie e poi premetti play.

La canzone cominciò. Era davvero bellissima. Mi venne da sorridere quando, nel ritornello, la caricatura della chitarra elettrica sovrastava quasi le parole, pensai ad Elia su un tetto che le gridava.

Aspettai qualche secondo per riscrivergli. Lasciai che la mia mente assorbisse quel ritmo e lo facesse proprio. La canzone si sciolse nelle mie orecchie come il miele nel latte.

"È bella, molto bella."

Due minuti. Due minuti e arrivò la sua risposta.

"Più la ascolti, più la ami." Un messaggio dopo: "Come si fa con le persone."

"Mi piace. La riascolterò volentieri."

"Se ti va, stavo pensando, potresti sentirla dal vivo."

"... dal vivo? Ma Bowie non è morto?"

"Non da Bowie. Da me." Mi inviò la foto di una chitarra. "Suono da un paio d'anni."

Cliccai sulla fotografia, osservai i dettagli della chitarra. I dettagli che la rendevano sua.

"Davvero?"

"No, la chitarra è un giocattolo. Sì, davvero..."

Alzai gli occhi al cielo. "E suoni bene?"

"Perché non giudichi tu?"

Lo vidi. Il suo sorrisetto.

Ci pensai, scrissi qualche messaggio prima di inviare quello decisivo. "Okay. Quando?"

"Domani. Alle quattro, ti passo a prendere. Prometto che torniamo alle sette, così niente problemi."

Sorrisi, affondai con la guancia sul cuscino. "Ci sto."

"Apposto."


Elia fu puntuale. Alle quattro e un quarto eravamo in viaggio per una meta a me sconosciuta.

Piuttosto, riflettei sui posti in cui dei ragazzi potessero suonare. Di solito, nei film, lo facevano nei garage. Di conseguenza pensai la medesima cosa.

Il tragitto fu breve, un po' nauseante per via del continuo rimbalzare del motorino sui dossi e sulle incongruenze sopra l'asfalto.

Elia aveva parcheggiato lungo una stradina desolata, costellata da marciapiedi rovinati e macchine sostate ai lati. L'unico rumore che si udiva era quello di un programma tivù da qualche finestra e il frusciare di uno scaldabagno.

Dopo averlo aspettato mentre infilava i caschi a posto, guardai le varie case finché lui non mi intimò di seguirlo con un cenno del mento. Attraversammo la strada vuota a passi lunghi, io dietro di lui.

Elia aveva una mano infilata nella tasca del bermuda grigio quando sostammo di fronte ad una saracinesca arrugginita. Il trambusto delle sue nocche sul materiale metallico risuonò per tutta la strada.

«Arrivo, arrivo!» Gridò la voce familiare di Fra. Un secondo e spuntò da sotto la saracinesca.

Salutò Elia con una pacca sulla schiena in maniera distratta, tanto si vedevano quasi ogni giorno. «Benvenuta nella grotta.» Mi circondò le spalle con il braccio lasciato scoperto dalla canotta.

Francesco mi trascinò con sé fino a sbucare in una saletta allestita come una vera e propria capanna, un rifugio. Elia era già lì, chino sulla chitarra per stringere le corde.

Oltre a loro due, vi era una faccia nuova. «Lui è Gaetano», me lo indicò.

Gaetano aveva i capelli biondo cenere e gli occhi grandi e marroni. Una t-shirt nera con le maniche risvoltate a mo di canotta e una collana lunga sul petto. Era seduto sullo sgabellino nascosto dietro all'imponente batteria, in una mano impugnava una bacchetta che continuava a picchiettare su un piatto ad un ritmo controllato.

«Ciao», gli sorrisi timidamente, alzando la mano.

Gaetano mi strizzò l'occhio in un gesto di saluto, con la bocca teneva il conto di qualcosa, supposi della musica.

«Tu fa' quel cazzo che ti pare.» Mi suggerì Fra, «Ma, da spettatrice, dovrai dirci se c'è qualcosa che potremmo migliorare. Anzi, devi. È un obbligo.»

«Ma...», ridacchiai, impacciata, «Io non so molto in fatto di musica.»

«E che ci frega? A livello di orecchiabilità penso tu sia in grado di giudicare, oppure no?» Fra alzò il piede per non calpestare un filo.

«Certo, okay. Devo essere sincera, quindi?» Mi girai attorno, fissando le mensole dietro di me con sopra mille CD e vinili, piccoli poster con band come i Queen, i Coldplay e i Beatles e cantanti come Elvis Presley e riuscii a riconoscere la Carrà e Ligabue.

«Devi sputarci addosso se facciamo schifo e devi essere severa», disse Fra, facendomi girare nuovamente verso di loro, s'infilò anch'egli una la tracolla della chitarra, ma era diversa da quella di Elia.

Annuii, serena. Era accogliente, mi sentii come protetta in quello spazio pieno di cose, di musica e di amicizia. Mi sembrava di aver varcato la porta segreta della vita di quei tre ragazzi. Non sapevo se ne fossi felice o ne fossi spaventata, è sempre strano salire su un vagone di un treno già in viaggio.

Mi lisciai i lati del vestito di seta sui fianchi e sprofondai su una poltroncina morbida come una nuvola.

«Qual è la differenza tra quella e quella?», chiesi, indicando rispettivamente la chitarra di Elia e quella di Fra.

«Questa è una chitarra classica», Elia strimpellò le corde, «Quello, invece, è un basso.»

«Oh...», mi accigliai, curiosa, «Quindi non sono la stessa cosa.»

Elia negò, «Affatto.»

Gaetano, da dietro, battette le mani per attirare la loro attenzione. «Cavallo di battaglia o qualcosa di nuovo per l'ospite?»

Mi venne da sorridere, ma mi coprii la bocca con le dita. Poggiai il gomito sul mio ginocchio, i capelli rosso fragola mi scivolarono sulle guance.

«Scegli tu», propose Elia, guardandomi.

«Mh...», riflettei ad alta voce, «Cavallo di battaglia, così andate sul sicuro e non vi emozionate.»

Elia si morse la lingua e scosse il capo, afferrò un plettro bianco. «Paracetamolo di Calcutta. L'hai mai sentita?»

«Può darsi», mi misi comoda.

Francesco diede un colpetto al microfono con un dito e poi annuì. Elia si schiarì la gola e, assieme ad un accordo preciso di chitarra, la sua voce si espanse calda attorno alle mura. Dalla sua bocca colava fino al pavimento, per poi salire al soffitto.

Dovetti reprimere un'espressione di stupore quando scoprii che era bravo. Le parole incalzavano perfettamente il tono armonioso della canzone, e le note sembravano sposarsi con le sue dita che si rincorrevano sulle corde.

Dopo il primo verso, Gaetano cominciò a dare dei colpi moderati ad uno dei tamburi. Elia si allontanò dal microfono per assecondare la chitarra che, adesso, predominava. Socchiuse gli occhi e lasciò che la musica lo incorporasse; i ricci gli caddero davanti agli occhi e si mordicchiò un po' il labbro per riavvicinarsi al microfono.

Sentii una sorta di brivido quando sorrise un po', sfiorandone la griglia metallica. Il ritmo diveniva più intenso, presagiva l'arrivo del ritornello e, difatti, ci fu un piccolo stacchetto – ovvero che gli strumenti smisero di suonare e ci fu solo il ticchettio del piede di Gaetano – prima che Elia cantò, in cui risero lievemente.

La risata di Elia si immischiò con la voce, rendendo le parole più sussurrate, ma nonostante ciò non suonò male. No, proprio per niente.

Nel corso della canzone imparai involontariamente il ritmo, tanto da riuscir a tenere il tempo anch'io con la punta del piede. Inoltre riuscii a memorizzare qualche frase del testo.

«E adesso che mi stringi per la mano, vacci piano...», canticchiai sottovoce, all'unisono con la voce dolce di Elia, che sfociò nella potenza, nella vivacità del ritornello.

Strinsi le labbra in un sorriso compiaciuto nel momento in cui anch'egli mi guardò. Gli occhi erano luminosi e le fossette minacciavano un sorriso mal trattenuto.

La canzone terminò definitivamente dopo che temporeggiarono con gli strumenti. Fra annuì soddisfatto, «Oh, io m'aspettavo molto peggio.» Alzò le mani in un meccanismo di difesa.

«Pubblico, allora?» Domandò Elia, togliendosi la tracolla della chitarra e prendendo un sorso d'acqua.

Sospirai e mi portai una ciocca dietro l'orecchio, incrociai le gambe: «Siete bravi», dissi, facendo ridere Elia. «Che ridi?»

«Questo è il tuo livello di severità?»

«Ero seria!», sbottai, «Pensi vi stia prendendo in giro? Siete bravi, tanto bravi. Però potreste esserlo ancora di più, c'è sempre la possibilità di migliorare.» Feci spallucce, sincera «Ma siete ad un buon punto.»

«Orecchiabili?»

«Assolutamente.» Poggiai la schiena allo schienale soffice. «Adesso? Voglio un'altra canzone.» Battetti le mani.

«Proposte?» Chiese Francesco, grattandosi la punta del naso.

«Spostiamoci sull'inglese», mi torturai l'interno della guancia. «Io direi qualcosa come... sì, Bowie

«Cacci roba forte, oh», borbottò Fra, «Che c'abbiamo di Bowie, Elì?»

Fissai Elia, che finse di pensarci. «Starman, Under Pressure e Heroes.»

«L'ultima! L'ultima mi intriga parecchio!»

Elia fece di tutto per non sorridere. Abbassò lo sguardo e arricciò un po' il naso. «Che dici, Fra? Se pote fa'?»

«Sì, dai. Accontentiamola.»

L'attacco della chitarra mi fece sentire il sangue ribollire e le ossa tremare. Era chiaro, forte e saturo di vibrazioni, di cose da dire. L'inizio era da brivido, da lasciarci l'anima.

Ed Elia cantò come se quella canzone fosse sempre stata tua, con l'intensità di chi conosce il testo e le parole da una vita intera e ha imparato ad amarne le imperfezioni. Elia sembrava aver studiato ogni nota di quel capolavoro: gli accordi si susseguivano in un accavallamento perfetto, si intrecciavano fino a intersecarsi e divenire tutt'uno.

Il pavimento sotto di me vibrò assieme alle casse che trasmettevano il suono del basso di Francesco. Nella voce di Elia sentii il retrogusto amaro di un dolore ricucito, come se quella canzone ne fosse parte integrante.

Così come diventava intensa, la canzone giungeva al capolinea. Gli strumenti si zittirono lentamente, le pareti assorbirono le note restituendoci il silenzio. Un silenzio di tomba.

Elia rovesciò il capo all'indietro. Francesco lo guardò, e il suo migliore amico annuì. «'Na bomba.» Sorrise soddisfatto, come se avesse appena vomitato un peso dalle spalle.

«Aggiungetela come cavallo di battaglia.»

Masticai del cocco fresco e strofinai le mani, sistemandomi meglio sul pavimento. «Okay, okay. Tocca a me.»

Elia, Francesco e Gaetano fermarono la discussione scatenata da una domanda dell'ultimo.

«Qual è la canzone che vorreste suonare o ascoltare prima di morire?»

«Solo una?» Chiese Gaetano, di fronte a me, a gambe incrociate.

Al centro del nostro cerchio ristretto, c'erano bottiglie di birra finite, un posacenere, della frutta e delle patatine del discount.

«Ovvio. Una e poi passate a miglior vita. Qual è?»

Si lamentarono per qualche istante, ma io li lasciai fare è aspettai la risposta. Guardai Francesco, «Sarò banale, ma io dico Lithium dei Nirvana.»

Elia gli lanciò addosso un cuscino, Francesco lo fulminò. «Finitela. Tu, invece?»

«Io dico... Heaven Knows I'm Miserable Now dei The Smiths, però c'è anche Back in Black degli AC/DC.»

«Indeciso del cazzo. Scegline una, non sei figlio della gallina bianca», lo minacciò Fra, lanciandogli una patatina rustica.

Sì, avevano problemi nel lanciarsi oggetti. Meccanismo di difesa, l'ennesimo.

Gaetano sbuffò, «The Smiths.»

«E tu?», piegai un po' il mento per guardare Elia alla mia sinistra, che era stiracchiato con il gomito sul pavimento, un ginocchio alzato e nell'altra mano una sigaretta. «Che canzoni scegli?»

«Io vado sul classico», cacciò il fumo dalle narici, poi tirò ancora, continuando a guardarmi negli occhi. «Bohemian Rhapsody, dei Queen.»

«Coglione.» Brontolò Fra.

«Stai zitto, Krist Novoselic.»

Fra alzò gli occhi al cielo e si finì il pacchetto di patatine allo zenzero. Rimanemmo a chiacchierare per altri venti minuti, poi Elia guardò l'orario e mi avvertì fosse meglio ritirarci con un cenno del capo, io annuii.

«Già andate via?» Chiese Fra, vedendo alzare contemporaneamente me ed Elia.

«Sì, ho promesso a mamma che sarei
andato a fare la spesa prima di cena.» Elia fece scricchiolare le dita delle mani e poi sospirò.

Francesco annuì. Non annuì come se fosse dispiaciuto, ma come se ne fosse abituato. Si salutarono senza troppe smancerie, solo con: «Ci sentiamo più tardi.»

Una volta usciti dal garage, o magazzino, la calura afosa ci colpì in pieno. Elia afferrò le chiavi del motorino, un tintinnio a riempire l'aria.

«Devi andare sul serio a fare la spesa?», domandai, arrivando al suo fianco accelerando il passo.

«Sì», mi guardò dall'alto, con il mento appena sopra la spalla, «Perché?»

«Posso venire con te?»

Elia sollevò le sopracciglia, apparentemente sorpreso della mia proposta. «Vorresti fare la spesa con me?»

«Sì, è che mi annoio a casa...», feci spallucce.

Elia non disse nulla per qualche minuto. Arrivammo al motorino, mi passò il casco e lui, seduto sulla sella, disse: «Va bene, puoi venire», si allacciò il casco, ma poi mi puntò il dito contro al viso. «Ma, in cambio, dovrai accettare qualsiasi mia proposta.»

«Del tipo?» Portai le mani sui fianchi.

«Eh, non lo so. Ma se ti dico che devi venì da 'na parte, tu vieni e non fai storie.» Disse con fermezza, non accettando obiezioni infilò le chiavi nel quadrante senza smettere di guardarmi negli occhi con aria di sfida.

«Scusa, ma se non c'ho voglia di venire con te? Come la metti?»

«In nessun modo. O accetti, o niente. Hai detto che t'annoi? Eh, hai l'occasione di ammazzare la noia col sottoscritto, non ti pare un compromesso perfetto?»

Era davvero un buon compromesso? Tutto sommato, sì. Cosa potevo mai perderci? Assolutamente niente. Avrei ammazzato la noia, avrei avuto la certezza che, in un'estate, avrei fatto qualcosa di interessante.

«Se proprio devo...», borbottai in un sospiro.

«Affare fatto?» Mi avvicinò il palmo, invitandomi a stringerlo.

Alternai lo sguardo tra lui e la sua mano. «Affare fatto.»

Salii sul dorso della sella aiutandomi con il suo braccio, ed Elia partì velocissimo per la strada che veniva accanita dal Sole. La marmitta scoppiettò, con i denti stretti e il respiro corto, poggiai le mani sui suoi fianchi.


Alle diciannove e diciannove il supermercato era più popolato del solito. Non appena le porte ci accolsero dentro, il gelo del reparto dei frigoriferi ci avvolse facendo un contrasto caldo-freddo sgradevole.

Elia spingeva il carrello arrugginito, io gli stavo accanto. Sembravamo conoscenti, per non dire amici, perché a quanto pareva l'unico che chiamava amico era Fra.

Ma a me non importava tanto essere definita "amica", io volevo avere qualcuno da poter chiamare quando non riuscivo più a stare da sola. Qualcuno con cui poter svagare e mettere a tacere i pensieri.

E un po' lui ci riusciva.

«Anche Gaetano veniva a scuola con te?», gli chiesi, mentre lui si allungava per prendere un pacco d'insalata.

«No. Andava in classe con Fra», rispose, spingendo il carrello.

Annuii, «Quindi, in teoria, tu non hai un buon rapporto con nessuno della tua vecchia classe?»

«Diciamo che non ne ho bisogno.»

Quella risposta non significava niente. «Sei mai andato d'accordo con loro?»

«Sì, ma è complicato da spiegare», sospirò, indicandomi della panna da cucina. Gliela passai, aspettando che continuasse. «Non lo so se tu puoi capirmi, ma io non sono mai stato... Elia, per loro.»

«Cioè?», proseguimmo lungo il corridoio freddo, scansandoci dal passaggio di un'anziana signora.

«Non mi hanno mai visto oltre i miei voti.»

«Oh», distolsi lo sguardo, puntandolo sui miei piedi. Sì, cavolo se ti capisco. «Mi dispiace, allora, se ti è sembrato che ieri sia stata esagerata per il tuo voto finale...»

Elia ridacchiò, poi negò piano. «No, non preoccuparti. Non mi ha dato fastidio.»

Mi mordicchiai l'unghia del pollice. «È per questo che la preside ha dovuto quasi supplicarti per ritirare il diploma?» Osai.

Elia si morse l'interno guancia e fece una smorfia incerta, «In parte. Non ho bei ricordi in quella scuola. La preside ci tiene perché da quando fui candidato come rappresentante d'istituto mi sono impegnato tanto a livello... sociale. Ho un buon rapporto coi professori, in compenso ai miei compagni.» Ammiccò un sorrisetto divertito.

Feci lo stesso, fu impossibile non sorridergli. «Per quanto sei stato rappresentante?»

«Dalla terza superiore fino a quest'anno.» Infilò degli affettati misti nel carrello. Ci addentrammo nel reparto frutta.

«Cavoli», commentai, «Ti sarai dato tanto da fare, allora.»

Fece spallucce, un gesto di sufficienza. «Era giusto per stare fuori casa, e poi volevo aiutare la mia scuola.»

«Come hai aiutato?», lo aiutai a pesare delle albicocche.

«Ho incentivato l'aiuto psicologico aprendo uno sportello d'ascolto gratis. Ho fatto in modo che ci fossero dei distributori di assorbenti e preservativi per chi non se li potesse permettere e, quest'anno, ho messo a disposizione un tot di persone che potevano dare una mano a chi aveva problemi per la maturità, o anche solo ripetizioni in generale.» Elencò, sistemando le buste di plastica nel carrello, io lo seguii.

«Ma è magnifico.» Rimasi a bocca aperta, «Quanto ti è venuto a costare tutto questo?»

«Molto, la preside mi ha aiutato con i fondi scolastici.»

«Meno male che hai avuto una preside che ha creduto davvero nei tuoi obiettivi.» Salii con i piedi sulle ruote del carrello mentre lui lo trascinava dall'altro lato.

Faccia a faccia.

«Sì, per quanto riguarda questo mi ritengo fortunato. Almeno in questo», alzò gli occhi al cielo.

Ci fu qualche minuto di silenzio, occupato dai piccoli rumori dei tasti della cassa, dei frigoriferi accesi e della musica di una radio televisiva. «E perché continui a frequentarli se non ti senti... capito

Ad Elia uscì una risata sarcastica. Mi osservò con quegli occhi vitrei come se non avessi capito niente di quei giorni assieme: «Mi sa che non sei l'unica ad indossare una maschera.» Strizzò un po' l'occhio.

Scesi dalle ruote ridacchiando, abbassai il mento e strinsi gli angoli delle labbra, «Ma dai...?», sussurrai in un sospiro represso.

Il carrello non era pieno quando arrivammo alla cassa, ci mettemmo in fila. Accanto ad essa vi era un espositore di caramelle zuccherate; le osservai con curiosità e nostalgia: c'erano quelle alla fragola che mangiavo sempre da piccolina, non appena uscita dall'asilo.

Sentii lo sguardo di Elia opprimermi la pelle delle spalle. «Le vuoi?»

«Cosa?», borbottai, alzando lo sguardo su di lui. Farneticai, «No, no. È che non le vedevo da tantissimo tempo, tutto qui.»

Elia si accigliò, «Eh, prendile, no? Non sarai una di quelle che si sente in colpa se qualcuno le paga qualcosa? Guarda che non te lo rinfaccerò a vita, sta' tranquilla.»

«No... no, non è per quello», balbettai.

«E per cosa?» Aspettò che risposi, ma non lo feci, perciò proseguì: «Dai, che le voglio anch'io, mettile nel carrello.»

Gli rivolsi uno sguardo di sbieco e riflettei. Ricordai di una frase che diceva "tu non sei la tua malattia", pensai che chiunque l'avesse scritta o detta aveva ragione. Io non ero la mia malattia e potevo mangiare delle semplici e stupide caramelle alla fragola. Erano buone, mi piacevano, le volevo.

Perché non permettermi di mangiare una cosa buona? Perché credere che non me la potessi meritare?

Le vuoi? Prendile.

Così, arrivato il nostro turno, afferrai un pacchetto e lo gettai in cassa. Elia ridacchiò in silenzio, pensando non l'avessi sentito.


«Perché non volevi prenderle?» Lanciò una caramellina in aria, facendo poi centro nella sua bocca.

«Non lo so», mentii, ingoiandone un'altra. Forse la decima caramella.

Elia poggiò il braccio su entrambe le sue ginocchia. Avevamo sostato sul ciglio di un marciapiede, a pochi metri dal motorino, le due buste della spesa ai nostri piedi e il Sole che era arrivato a metà del cielo. Qualche ora e sarebbe tramontato.

Eravamo rannicchiati uno vicino all'altro, col pacchetto di caramelle a dividerci e qualche sguardo stranamente complice a colmare lo spazio tra di noi.

«Siamo amici, no?» Lo disse con naturalezza, non guardandomi, ma concentrandosi solo sulla caramella.

Io, invece, lo guardai come se fosse uscito fuori di testa. Ah, quindi io sono tua amica? Non fui certa di aver masticato bene la caramella, perché la sentii bloccarsi nello sterno. Avevo bisogno d'acqua.

«Dimmelo tu.»

«Io?» Finalmente ricambiò lo sguardo, con un cipiglio tra le sopracciglia nascosto da un riccio. «Perché?»

«Perché, ogni volta che ti chiedo se una determinata persona è tua amica, tu rispondi che è una "conoscente"», ribattei, arcuando il sopracciglio.

Elia soffocò un sorriso, spezzò una caramella in due con i polpastrelli. «Hai ragione», mugugnò. «Facciamo che siamo quasi amici

«Quasi amici?», gli feci eco, ridendo.

Le iridi di Elia scivolarono guardarmi il sorriso. «Sì, non ti piace?»

«No, sì...», tirai su con il naso per smorzare l'imbarazzo. «È che non so che significhi.»

«Essere "quasi amici"?»

«Mh-hm», annuii.

Elia si umettò l'angolo delle labbra e spostò lo sguardo sul cielo ostacolato dai tetti spezzati. «Significa che ci stiamo conoscendo, però c'è la possibilità di diventare sia conoscenti, sia amici.»

«È una situazione in bilico, perciò.»

«Sì, e anche di tempo. C'è bisogno del tempo per diventare amici, così come diventare conoscenti.»

Gli diedi corda, «Sì, allora "quasi amici" va bene, è la terminologia più giusta.»

«Perfetto», si portò la metà della caramella alle labbra e mi porse l'altra metà. «Tieni.»

Mi morsi il labbro e afferrai l'altra parte dalle sue dita zuccherate. La mangiai lasciando che lo zucchero si sciogliesse sulla lingua, poi la masticai. «Grazie.»

«Non devi avere paura di parlare se vuoi essere una mia "quasi amica", però...» Alzò l'angolo delle labbra in un tentativo di non sorridermi.

Assottigliai leggermente le palpebre e allontanai il mento come per dire: "e tu che ne sai?". Deglutii, ingoiando la caramella, «Ci proverò.»

L'ha capito? Ha forse notato che leggevo i valori nutrizionali sul pacchetto?

Scacciai quei pensieri, svanirono come polvere al vento quando parlò, «Bene», dopodiché avvicinò il pollice alla mia bocca e lo strofinò sull'angolo sinistro per poi racchiuderlo nelle sue labbra e succhiarne lo zucchero.

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