Alla ricerca dell'alba

By CuoreAdElica

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๐—–๐—ผ๐—บ๐—ฝ๐—น๐—ฒ๐˜๐—ฎ โœ”๏ธ ๐™ฝ๐šŽ๐š  ๐™ฐ๐š๐šž๐š•๐š ๐Ÿ’š 2/2 Isabella Arese รจ in cerca di emozioni. รˆ in cerca di albe e tra... More

Cast
Premessa
Come un pittore - Parte Uno
Prologo
1. Odio l'estate
2. Anti-eroe
3. Gelati indesiderati
4. Le tipologie variopinte del silenzio
5. Maschere fragili e Mr. Convinzione
6. Fratello maggiore
7. Incarnazione del principio eracliteo
9. Troppo sensibile
10. Heroes - Pt. 1
11. Heroes - Pt.2
12. Che poi da te non รจ Versailles
13. Carpe diem
14. Baby & Johnny
15. I miracoli esistono
16. Cerasรฌ
17. Dieci ciliegie, dieci desideri
18. Non sei come dicono loro
19. La casa in riva al mare
20. Mistica, come le sirene
21. La leggenda di Celentano
22. Colorare i sentimenti - Pt. 1
23. Colorare i sentimenti - Pt. 2
24. Cosa รจ successo il quattro luglio?
25. Cicatrici di ricordi
26. L'abbiamo scoperta noi, Ischia
27. Il marinaio e la sua bussola
28. Ritorno alla realtร 
La lettera
Come nelle favole - Parte Due
29. Einstein รจ a Roma
30. Tribunale d'amore
31. Maledetto tempo
32. Sfiorare manco con una rosa
33. Stessa stazione? - Pt. 1
34. Stessa stazione? - Pt. 2
35. Dirsi ti amo senza dirselo
36. Il filo rosso di Arianna
37. Albori
Epilogo
Ringraziamenti

8. Avere diciott'anni

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By CuoreAdElica




"Se un giorno non avrai voglia
di parlare con nessuno, chiamami.
Staremo in silenzio."
- G. G. Márquez 🌹

Ischia.
Estate.




Il giorno seguente pensai con frequenza al suo discorso sulle "piccole cose". Ci pensai più di quanto avrei dovuto in realtà. Le ricordai così bene che mi sembrò che la mia memoria avesse registrato la sua voce mentre l'elencava, e mi bastava premere play per ricominciare punto e daccapo.

Probabilmente mi piaceva tanto quell'aspetto perché io, invece, di piccole cose ne avevo assaporate poche, se non nulle. Mi piaceva l'idea che un ragazzo così semplice come Elia portasse addosso dettagli così minuscoli da risultare speciali agli occhi degli altri.

Volli ricordarmene così arduamente che mi convinsi a scrivere quelle piccole cose anche sul mio diario. Elencai anche quelle che avrei voluto provare, sentire sulla pelle e cucire sulle palpebre. Quando mi trovai davanti alla pagina piena di scarabocchi, allora chiusi la penna.

Casa sua si vedeva dal balcone di camera mia. Alle cinque del pomeriggio, Elia uscì di casa con indosso un pantalone di tuta e delle scarpe da ginnastica bianche, lo vidi sparire oltre i cipressi correndo. Supposi avesse delle cuffiette nelle orecchie.

Dopodiché continuai a leggere il mio romanzo adagiato sulle cosce mentre una sdraio mi cullava la schiena, i piedi accavallati sulla ringhiera.

Alle sei del pomeriggio mi feci coraggio. Non era affatto da me prendere iniziativa, ma qualcosa mi attirava fuori di casa. Per la prima volta dopo aver messo piede su quell'isola sentivo il volere e il dovere di uscire dalle mie mura per qualcuno.

Infilai un pantaloncino corto — anche se l'idea di mettere in mostra i miei polpacci esili come spaghetti e le mie cosce bianche non mi allettava parecchio — e da sopra una camicetta azzurrina che infilai tra l'elastico dei jeans sporadicamente. Con i sandali al piede, scesi dalle scale e con un: «Faccio un giro in bici!», mi recai in giardino, afferrai i manichi della bicicletta e, una volta in sella, pedalai dritto per il tratturo.

Poi, non appena si fece più impervio, sterzai per introdurmi nelle colture. Il grano mi sfiorava le spalle e lo scrosciare dell'erba contro le ruote mi accarezzò le orecchie fin quando non sbucai nel territorio più curato e meno selvaggio della collina.

Già a pochi kilometri di distanza si udiva il grosso baccano di voci che si sovrastavano assieme al palese rumore sordo di una palla che andava a sbattere a destra e manco per la recinzione e il terreno. Scesi dalla sella con un salto, accasciai la bici tra l'erba tagliata e mi avvicinai pianissimo al campetto che sorgeva nel nulla.

Al suo interno c'erano meno ragazzi dalla prima volta che lo avevo visto. Una decina giocavano a basket, un altro gruppetto di quattro ragazze sostava in un angolo, parlavano ad alta voce, ridevano sguaiatamente.

Mi maledissi per la mia pessima idea. Come potevo credere di essere ben voluta lì dentro? Sembravano tutti conoscersi da una vita ed io mi ero permessa il lusso di andare a irrompere la loro quotidianità. Mi sembrava stessi violando qualche regola, che stessi facendo qualcosa di sbagliato.

Ma ormai era troppo tardi per tornare indietro. Elia mi vide dopo aver lanciato con una mano un tiro a dir poco perfetto ad un ragazzo dall'altro lato del campo. Giurai di averlo visto sorridere. Sospirò, il suo petto muscoloso si alzava e si abbassava velocemente affannato per via della corsa, il sudore gli illuminava gli zigomi e gli arrossava le gote.

Alzai una mano in segno di saluto. Con un cenno fece capire che si sarebbe allontanato, si strofinò il palmo su un pettorale e, velocemente, afferrò una bottiglietta da terra. Io mi avvicinai alla recinzione di ferro, le dita a incastrarsi in essa e lui che mi venne incontro bevendo un breve sorso.

«Ciao.»

Elia chiuse la bottiglietta e mi sorrise con serenità, «Ciao», poggiò le mani anche lui sulla recinzione, a qualche centimetro dalle mie, «Quindi adesso mi segui?»

«No», negai, forse troppo velocemente. «Assolutamente no. Facevo un giro, come quasi ogni pomeriggio...»

«Ieri non sei passata, però», ribattette, con un'alzata di sopracciglia e un sorriso laterale.

«Ieri ero impegnata con altro», tagliai corto.

«Tipo?»

«Una farfalla si è impigliata nella persiana.» Mentii.

«Wow», rise, continuò a guardarmi, «Sarà stata un'avventura difficile.»

«Abbastanza.» Annuii.

Il sorriso di Elia si sfumò in un'espressione gentile, un po' timida. «E ti va di restare per un po'?» Indicò il campo dietro di lui con il capo.

«Qui?» Sollevai le sopracciglia.

«Sì», nel nascondere un sorriso divertito il sorriso si capovolse verso il basso, creando delle fossette delicate ai lati della bocca, «O sei allergica al pallone?»

«Sì— cioè, no.» Elia strizzò un po' l'occhio destro, «Io... sai, non pratico sport.»

«E quindi?», nella sua voce non c'era traccia di insolenza o scortesia, solo pazienza. «Non sei costretta a giocare, puoi anche stare assieme a noi tranquillamente. Non mordono», lo disse sottovoce come per tranquillizzarmi, mi vide titubante, così continuò: «Dai, rimani un po'. Se ti danno fastidio, mi fai un fischio e sistemo tutto, mh? Che dici?»

«Non saprei...»

«Per favore?»

Gli diedi corda, alternai lo sguardo fra lui e i ragazzi dietro, che parevano star aspettando Elia per ricominciare a divertirsi. Ebbi il sospetto che mi odiarono per averlo trattenuto a parlare. Gli stavo rubando tempo.

Entrai nel campetto tenendomi a debita distanza da chiunque, mi parve di entrare in un territorio minato, estraneo. Elia mi lanciò un'occhiata prima di liquidarmi; qualcuno di loro gli lanciò la palla e lui, con la mano sinistra, la prese e la fece rimbalzare a terra un paio di volte.

Una volta rannicchiata accanto alla recinzione, con le ginocchia sbilenche e pallide inchiodate al petto e lo sguardo che seguiva piedi sconosciuti che correvano, calpestavano e stridevano sul terriccio arido, sentivo il chiacchiericcio allegro delle ragazze a pochi metri da me.

Le avevo sentite dire qualcosa come: «È la ragazza con cui ha parlato anche l'altra volta, quella per cui c'ha mollati in due secondi.» Disse una mora e riccia, dalle sopracciglia perfette e un top scollato, la pelle imperlata dal caldo saturo di umidità.

«A quanto pare è quella che è venuta a villeggiare da Roma», poi qualcos'altro in napoletano che non capii minimamente.

Infine, una bionda dallo sguardo incollato ad Elia, proseguì con: «In quella Villa non c'è mai stato nessuno in 'sti decenni, sarà decrepita come la tomba del mio trisnonno. Solo una famiglia di sciagurati può avere il coraggio di stabilirsi là.»

Preferii sprofondare laddove ero seduta. Già vedevo il terreno creparsi attorno alla mia sagoma, già immaginavo la terra inghiottirmi.

Aggiunsero anche commenti pochi carini sulla mia carnagione, ad esempio "pare tedesca con quella pelle" o "il Sole la schifa, oppure è allergica al mare". Avrei tanto voluto dire che era così, che fossi solo allergica al mare, avrei tanto voluto che quella superficialità fosse pura realtà. Ma, purtroppo, non avevo ancora alcuna malattia dermatologica che inserisse le spiagge come luoghi da evitare. Per fortuna, forse.

Mezz'ora dopo i ragazzi cominciarono a dissolversi come la luce del Sole. Si avvicinavano le otto, il cielo diventava di un azzurro più tenue e gli ultimi gabbiani varcavano le sponde del mare, il trambusto dei grilli aumentava sempre di più nei paraggi desolati.

Alcuni se ne andarono senza salutare, abituati a vedersi e sentirsi ogni giorno. Altri si trattennero a parlottare un po' e le ragazze aspettavano solo il momento giusto per alzarsi e scambiare avance.

Li fissai da un occhio distante, come se fossi lì con un microscopio e li stessi osservando, come in una specie di esperimento sociale e loro erano i miei topi da laboratorio. Mi sentii tremendamente e orribilmente invisibile. Più di quanto lo ero di solito; ero sicura che se mi fossi alzata e fossi andata via nessuno se ne sarebbe reso conto. Forse solo Elia, ma dopo qualche minuto.

Li guardai uscire come formiche da un formicaio da quel campetto. Le loro voci si distanziarono fra la radura e quando qualcuno batté le mani una sola volta, io sobbalzai.

«Finalmente se ne sono andati.»

Eravamo rimasti in tre. Io, Elia e un ragazzo massiccio, biondino e dalla carnagione rosata, non abbastanza abbronzata quanto quella del mio vicino.

Elia fece un altro canestro saltando, si appese ai bordi del centro e si dondolò per qualche secondo. Lasciò che i muscoli delle spalle si contrassero spaventosamente, i bicipiti si tirarono a vicenda e i fianchi si affilarono quando ricadde in piedi.

«Hai sentito le sparate di quel coglione?», rise il biondo, «Se fossi stato in te l'avrei calpestato. Non capisco perché ti ostini a tollerare la spavalderia di quella lota. Si crede meglio pure di Gesù Cristo sulla croce.»

Sollevai le sopracciglia, un po' presa alla sprovvista per come avevano nominato il nome di Dio invano.

«Vacci piano co' Gesù Cristo», ridacchiò Elia. «C'abbiamo una devota qua.» Mi indicò con il mento.

«Ehi», borbottai, «Ti sento.»

«Lo so.» Fece rimbalzare la palla tre volte e fece canestro, quando essa risuonò nitidamente per terra, Elia mi guardò. «Mica t'hanno infastidito?»

«No», mi sfuggì una risata ironica, «Non so se te ne sei reso conto, ma io sono piuttosto trasparente, per molta gente. Non m'hanno manco vista.»

«Io t'ho vista», adesso, l'amico biondo, mi raggiungeva e si sedeva di fronte a me a gambe aperte. «Ti chiami Isabella, vero?»

«Sì», annuii, contenta che sapesse il mio nome. «Tu sei Francesco, vero?»

«Chiamami Fra.» Aveva due occhi azzurri e le labbra piene, era nettamente più basso di Elia. «Elia mi ha accennato qualcosina su di te.»

«Davvero?» Mi accigliai, fissando Elia.

«Sei n'infame, Fra!» Allargò le braccia e sospirò sonoramente.

Fra lo ignorò e continuò a parlarmi: «Scusa se non mi sono presentato prima, ma quando c'è Giacomo divento poco amichevole.»

«Chi è Giacomo?»

«Quello che non la smetteva di urlare», disse, «Impossibile che non l'hai notato.»

Annuii, «Capito», mi mordicchiai l'unghia del pollice, «E... e andavate tutti a scuola assieme?»

Fu Elia a rispondermi: «Sì, quasi tutti.»

«Io andavo all'alberghiero, ho fatto l'esame una settimana fa.»

«È andato bene?», gli domandai.

«Abbastanza.»

«Giochi con loro perché sei amico di Elia?»

«Purtroppo sì. Fedele a lui dai tempi delle elementari», sorrise fiero, «Siamo come culo e camicia, inseparabili

«Vi conoscete da tanto tempo, quindi.»

«Ci siamo conosciuti fuori all'edicola della nostra scuola, quel pezzente voleva rifilarmi una carta di Hamšík», ridacchiai. «Poi i nostri destini si sono separati in prima superiore.»

«È bello che siate rimasti amici», commentai.

«Dovevo pur salvarlo da quel mucchio di merda che s'è trovato in classe.»

Elia gli lanciò la palla in testa, «Finiscila, sei esagerato. Non sono tutti così male.» Si venne a sedere accanto al suo amico, a pochi passi da me.

«Perché non ti stanno simpatici?»

«Perché si credono importanti. La maggior parte di loro sono figli di papà e fanno i forti. Li vorrei spaccare in due tutti quanti, ed Elia pure, ma fa il finto pacifista del cazzo.»

Elia alzò gli occhi al cielo mentre stendeva le braccia all'indietro e respirava piano. «A me non è parso che a loro stesse antipatici.»

«Perché sono dei falsi.» Pronunciò Fra, scandendo bene le parole.

«Anzi, a me è sembrato di capire che piaci a quella ragazza bionda», dissi, spostando lo sguardo su Elia che mi stava già guardando; lui si accigliò stranito.

Francesco applaudì come se avesse vinto alla lotteria, «Sì! Che t'avevo detto!? Pure lei l'ha capito.» M'indicò, «Elisa ti pensa e si bagna.»

Elia gli diede un calcio. «Io non vedo alcun interesse, invece.» Scrollò le spalle.

«Allora sei piuttosto cieco», dissi io, alzando le sopracciglia.

«Io due domande me le farei», borbottò Fra, «Non ti sei mai chiesto perché ti riserva sempre l'acqua?»

«È una cagata.» Scosse il capo Elia, guardando altrove.

«Vabbè, vivi nel tuo mondo.»

Chiacchierammo ancora per un po', di tutto e di niente. Più tardi mi resi conto che in quella chiacchierata trovai un conforto che da anni non trovavo: se le persone vogliono, sanno essere gentili sul serio. Mi fece bene parlare con loro, risi di pancia per la prima volta.

Francesco si alzò da terra dopo mezz'ora con uno slancio deciso. Io ed Elia lo seguimmo con lo sguardo mentre si spolverò i pantaloni dal terriccio polveroso. «Meglio che me ne scappo, devo aiutà papà co' il carico nuovo di angurie.»

Elia si alzò nella stessa maniera, gli si impose davanti — anche se Fra fosse più muscoloso e ampio, Elia riusciva a torreggiarlo in altezza —, «Ci sentiamo più tardi, eh?», si strinsero la mano amichevolmente per poi fare spalla e spalla con tanto di pacca sulla schiena.

Francesco annuì, poi afferrò lo zaino smarrito in un angolo, «Se... se c'hai bisogno, mandami un Codice Rosso.» Lo guardò fisso negli occhi. Elia annuì distratto, «Oh, Eli', so' serio. Veramente, nun pazzià.» — «[...] non scherzare.»

«Sì, aggio capit», brontolò. — «Sì, ho capito.»

Francesco, allora, lo lasciò stare e guardò me: «È stato un piacere, Isa. Posso chiamarti Isa, no?»

«Sì, certo.»

«Apposto. Ciao, ciao, uagliù.» Ci sorrise incamminandosi verso l'uscita per poi correre tra l'erba alta.

La luce era aranciata per via del tramonto, il cielo diventava blu e non più azzurro cobalto. Elia si venne a sedere di nuovo accanto a me con un sospiro stanco.

Una volta da soli, mi sentii leggermente in imbarazzo. Non perché non fossi a mio agio con lui, ma perché era strano condividere un tempo con una persona che stai provando a conoscere. Non ero un'esperta in quel campo, tuttavia sapevo che ad Elia non pesava quel silenzio.

«Che silenzio è?», sussurrai, ispezionandolo da sotto le sopracciglia.

Elia aveva le palpebre abbassate, il petto si alzava e si calmava ritmicamente. «Rilassante.» Rispose.

Annuii, anche se lui non mi vide. Lasciai scorrere dell'altro silenzio, finché non mi diedi coraggio: «Cos'è il Codice Rosso?»

A quel punto Elia aprì gli occhi e ritornò a fissarmi con un'espressione monotona. «Una stupidaggine.»

Io assottigliai le palpebre, «Non mi pareva. Francesco era abbastanza serio.»

Elia sospirò ancora, più profondamente. «È una cosa che abbiamo inventato quando stavamo in prima superiore», raccontò alzandosi, dandosi una spinta con il ginocchio, si stiracchiò facendo scricchiolare la schiena muscolosa, sudata. «Quando c'annoiavamo o succedeva qualcosa, ci mandavamo questo messaggio con su scritto "Codice Rosso", e allora l'altro correva dall'altro e viceversa. Una cagata.»

Mi morsi una pellicina sul mignolo, Elia cominciò a camminare avanti e indietro per il campetto che diventava sempre più cupo. Gli animali della collina sorgevano dal loro nascondiglio e suonavano rumorosamente tutt'intorno al campetto.

Eravamo due puntini nel nulla. Tra universo e natura.

«Vi volete molto bene, non è così?»

«È mio fratello», rispose con leggerezza. Non di sangue, ovviamente, ma è come se lo fosse, pensai. «Lui mi conosce, sa capire i miei silenzi, sa criptare il mio sistema.» Gli sfuggì una risata che mi fece sorridere involontariamente.

«Davvero non ti eri reso conto che quella... Elisa non provasse niente per te?»

Elia mi fulminò con lo sguardo dall'altro capo del campo, c'era uno spazio indefinito tra di noi, ma non ci faceva paura. «Non ti ci mettere pure tu. Fra mi ha tartassato abbastanza per tutto l'anno.»

«Ci credo, ti sbava dietro.» Feci spallucce con ovvietà.

«Lo so che le piaccio», sbottò, sbuffando, «Non è il mio tipo, tutto qua.»

«Ma se è bellissima–»

«Possiamo finirla qua?»

Alzai le mani a mezz'aria, «Va bene, scusami Signor Attento-alla-maschera-che-ti-cade

Lo scorsi sorridere, forse perché capì che quel discorso che mi aveva fatto giorni prima m'era rimasto impresso per davvero. Aveva capito che io l'avevo ascoltato.

Elia riafferrò il pallone da basket, lo fece rimbalzare un paio di volte e poi, dall'angolo del campetto, con un'alzata di talloni e un movimento di polso, fece arrivare la palla sul canestro, facendola roteare su se stessa e poi cascare nel cesto.

Mi fissò mentre si diresse a recuperare la palla. «Vuoi fare un tiro?»

M'indicai con le sopracciglia alzate, «Io?»

«Eh no, il fantasma dietro di te», trattenne una risata, «Tu, scema.»

«No, sono pietosa», sventolai le mani in avanti.

«Hai mai provato?» Mi arrivò davanti passandosi la palla tra le mani.

«No, ma–»

«Muoviti, alzati, ti sarà venuta l'artrosi al culo.» Mi tese la mano.

Io alternai lo sguardo fra lui e il suo palmo grinzoso, «No, davvero, meglio di no.»

«È un canestro...», rise, «Per piacere», congiunse le mani a mo di preghiera tenendosi il pallone sotto il braccio.

Che sarà mai? È solo un canestro, ha ragione. Non muoio mica.

Mi diedi una spinta con le braccia e mi alzai in piedi sotto lo sguardo soddisfatto di Elia. Deglutii e mi osservai attorno, «Okay, e adesso?»

Mi allungò il pallone, «Tira.»

Riluttante, feci per tendere le dita verso il pallone, ma lui me lo allontanò maggiormente, «Scusami?»

Elia si allontanò di un passo, con un sorriso che sottintendeva tutto il divertimento del mondo: «Ti muovi?»

«Non intendo giocare–»

«Ormai sei in piedi», si avvicinò di nuovo, i suoi occhi scesero lungo il mio viso, senza andare oltre. Non smetteva di sorridere. «Datti una mossa.»

«Te l'hanno mai detto che hai una faccia da schiaffi?» Assottigliai le palpebre.

Ci rifletté con un sorriso storto, continuò a guardarmi dritto negli occhi. «Sì, parecchie volte.»

«E non hai mai preso in considerazione l'idea di cambiare il tuo atteggiamento di merda?», inclinai appena il mento, le braccia conserte.

Elia alzò di scatto le sopracciglia, gli sfuggì una risata sorpresa e m'indicò con l'indice. «Ferma, ferma, ferma. Hai appena detto "merda"?»

«Non è una brutta parola, è il dispregiativo della parola "feci"», spiegai con ovvietà.

«Ma in questo caso l'hai utilizzato contro di me, quindi è come se mi avessi insultato, tecnicamente.» Strizzò un occhio, l'angolo della bocca puntato verso l'alto ad arricciargli la guancia.

«Be', se davanti ho un'idiota patentato, tecnicamente, gli insulti escono di propria volontà.» Strinsi le labbra.

«Chiaro–», gli presi la palla dalle mani, togliendogli le parole di bocca, me la portai dietro la schiena, «Okay, questo è stato da stronza.»

Risi io, lui era serio, ma non troppo. «Arte della Maschera.» Mi allontanai di qualche passo e feci rimbalzare la palla un paio di volte.

«Qualcosa mi dice che sei abbastanza rancorosa», mi venne incontro, pericolosamente.

«Un pochino», annuii, «Non è stato gentile da parte tua psicanalizzarmi di punto in bianco.»

«Dovresti dare la colpa a te stessa, poiché sei tu che me lo permetti.» Puntualizzò.

«Oh, wow, un vero psicologo. Sei per caso il figlio illegittimo di Freud?» C'era del fastidio nel mio tono di voce.

Elia rise un po', «Te l'ho detto: ti si legge tutto in faccia.»

Alzai gli occhi al cielo, «Allora leggi quello che c'è scritto adesso.» Lo fissai.

Gli spuntò un sorrisetto. Fossette, occhi verdi che brillavano a contatto con le stelle. Stava diventando piuttosto buio nelle vicinanze. «Grazie, ma non c'era bisogno.» Si portò una mano al petto, era vicino a me, vicinissimo. Forse troppo.

«Che?» Aggrottai la fronte.

«Hai appena pensato che sono un bel ragazzo.»

«Cosa? No.» Ridacchiai.

«No?», ripetette, «Te lo si legge in faccia.» Disse, con un colpetto del mento e un mezzo sorriso.

«Tu leggi solo quello che ti pare e piace.»

«Ma molto spesso ci azzecco.» Mi rubò la palla e si allontanò ridendo, «Arte della Maschera!»

Fece centro, il rumore della palla ghermì il silenzio. «Questo è barare.»

«Sei tu che hai iniziato.» Ai lati opposti del campetto, io e lui ci scambiammo un'occhiata di sfida. «Vuoi provare a fare centro, o no?»

«Ho altra scelta?»

«Direi di no.»

«Passami la palla», dissi in un sospiro.

Elia mi lanciò la palla ed io l'afferrai con un po' d'ansia. Ad essere sincera, quella era una delle uniche volte in cui toccavo una palla. Era raro che mi permettessi di fare qualcosa che andava oltre i miei limiti, ma alla fine era solo un banale canestro, non potevo andare all'ospedale per una banalità del genere.

Feci per lanciare il pallone fissando il tabellone, ma Elia mi frenò, «Da lì non riuscirai mai a centrarlo.»

«Ma che sei laureato in educazione fisica?»

«No, so solo come si gioca.» Mi venne vicino, circondò il mio gomito con una mano e mi trascinò verso l'epicentro del campetto. Si sistemò alle mie spalle, sentivo la sua figura a pochi centimetri dalla mia schiena. «Congiungi i piedi», mormorò dietro la mia nuca, «Punte verso l'alto, poi ti spingi coi talloni e...», mi prese entrambe le braccia e me le alzò appena sopra il mento, «... Lanci.»

«Okay...», fissai i miei piedi, mi diedi una spinta sulle punte, «E lancio.»

Il pallone andò a sbattere contro il bordo del canestro e rimbalzò per terra. Mi aspettai ridesse, ma non lo fece. «Capita», si mosse da dietro di me e recuperò la palla aranciata. «A me, la prima volta che provai a fare canestro, mi arrivò indietro dritta sul naso.» S'indicò la gobbetta sull'attaccatura del naso, «La stronza mi è costata tre punti.»

Risi io stavolta, lui mi diede le spalle e si chinò sulla palla. I miei occhi caddero sulla sua schiena scura dal Sole, mi accigliai quando notai parecchie cicatrici stanziate su di essa: «Come te le sei fatte?»

Elia si voltò a guardarmi, scosse il capo per chiedere "cosa?", allora io gli indicai le spalle, «Le cicatrici.»

Elia deglutì, se le toccò con una mano e sforzò un sorriso, «Ero un bambino iperattivo, non mi stavo mai fermo.» Rispetto alla sua espressione, la voce era più serena.

«Molto iperattivo per averne così tante...»

«Ho fatto tanti sport fino a un anno fa.» Mi raggiunse, «Nuoto, ginnastica artistica, pallavolo, basket, un po' di equitazione e a scuola praticavo tennis...», elencò. «Per tenermi a bada.»

«Perché hai smesso?», m'incuriosii.

«Per concentrarmi sulla maturità.»

«Ah, già», annuii, «Hai già fatto l'esame?» Incrociai le braccia, avvolta improvvisamente da un freddo agghiacciante.

«Una settimana prima di Fra», asserì, «Fra pochi giorni usciranno gli esiti finali.» Sospirò, palleggiò un paio di volte con il pallone.

«Sei ansioso?» Lo guardai.

«No, già so con quanto uscirò.»

Io ridacchiai, «Sai che mi è difficile immaginarti in una situazione di panico o di rabbia?»

«Ah, sì?», continuò, palleggiando ancora.

«Sì. Sei sempre così... pacato, calcolatore, almeno ti innervosisci ogni tanto?»

«Avoja», rispose, «Solo che cerco di essere controllato nella vita.»

«Cavolo», fece l'ennesimo canestro, «Devi avere tanto autocontrollo, allora.»

«Il necessario», mi scoccò un'occhiata prima di incamminarsi verso il pallone, di nuovo. «Tu, piuttosto? Come ti è andato l'esame?»

«Spero bene», dissi, onesta, «Ho avuto molta ansia durante gli scritti di greco, odio il greco.» Sbuffai.

«Hai fatto il Classico, ovviamente

«Cos'è questo tono accusatorio?» Risi, portandomi una ciocca dietro la spalla.

«No, è che si vede da un miglio che sei una di quelle che studia Dante Alighieri e fa della cultura greca il proprio mantra.»

«E da cosa si vede, scusa?»

«Non lo so...», mi scrutò, «Dal modo in cui parli.»

«E in che modo parlo?»

«Come se gli altri non ti avessero mai capita.»

Abbassai lo sguardo. Incredibile come le sue parole riuscissero sempre a stracciare e devastare una parte dentro di me. Stava mettendo a dura prova ogni mio sistema di difesa. Di solito era il silenzio, che agli altri fa paura, ma ovviamente a lui il silenzio non faceva un baffo. Anzi.

Ci distruggevamo a vicenda senza saperlo; e lo avremmo fatto ancora a lungo, senza volerlo.

Mi grattai il braccio, alzai lo sguardo sul cielo annebbiato da stelle luminose. S'era fatto tardi. «Forse è meglio che rientro.»

«Adesso?» Chiese.

«Sì, adesso. È buio.»

Lui, allora, annuì senza dire altro. Afferrò il suo zaino e mi sorpassò, lasciando una scia di profumo. Aveva uno strano profumo, era fruttato, era lo stesso che c'era quando mi immergevo tra gli aranci.

«Che fai? Non vieni?», si bloccò vedendo che non mi fossi mossa da dentro al campetto.

La verità era che mi spaventava uscire fuori di là, come se le cose che ci fossimo detti non sarebbero potute rimanere per sempre lì e che, se non le avessi assorbite immediatamente, le avrei perse, le avrei dimenticate.

«Arrivo.»

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