4. Fermentatio

By rogur-ishimaru

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Il nomade avanza sul disperato cammino che ha scelto. La sfida terrificante che gli lancia l'Insensato questa... More

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By rogur-ishimaru

 Le nebbie del mattino accarezzano le bianche pianure del silenzio e ampliano il vuoto che mi sento crescere nel cuore come un canto che si leva dai fondali ciechi di un mare che non ospita più creature viventi ma sogni infranti, solo memorie confuse di un mondo che ha per troppo tempo delirato e ora stanco si adagia nella tomba che i suoi figli gli hanno preparato. In quella vasta alba tanto chiara da sembrare invisibile emerge l'ombra minuta di un essere che riconosco fragile come me, anche nella distanza incommensurabile che ci separa vedo la sua bellezza nascosta e soffro per quanto mi è cara. Una donna che non mi guarda, che avanza tra lembi di nebbia come in cerca di qualcosa ma non di me, lo sento. Poi la grande stella sorge e la sua luce investe e cancella tutte le cose, restituisce al mio sguardo solo un paesaggio di ghiaccio e di ossa di un candore doloroso...

È giunta l'alba anche sul deserto del Vetar-mai, ma senza la violenza accecante di quella che ha abbreviato il mio sonno. Dopo aver passato la notte rannicchiato sotto un rovo fitoferroso, unico rappresentante della flora nello sterminato deserto di cenere, poter finalmente stendere le gambe è piacevole e atroce allo stesso tempo. Tutto indolenzito, cerco di mettermi a sedere, mi stropiccio gli occhi e la faccia mentre un ocropoide mi passa davanti con indifferenza, le zampette da gatto che non affondano nella fredda cenere nonostante il corpo massiccio con la corazza da scarafaggio che manda riflessi grigi e azzurri. Lo seguo con gli occhi per un attimo, poi prendo dallo zaino la dose giornaliera di tonico e i resti essiccati di krabot che ho rubato in quel villaggio di idolatri. Cerco di non pensare a cosa è successo in quel tempio quella notte, a quel miserabile sacerdote, a quella donna... Arsa viva quasi come quelle donne in certi antichi ologrammi che mi è capitato di vedere, memorie di un tempo tanto remoto da sembrare irreale, di un mondo tanto lontano da sembrare alieno. Invece lo stesso orrore sopravvive tenace agli eoni e il rimescolio degli atomi dell'universo per esso non è altro che una carezza che non lascia traccia. Appoggio a terra la fiala di tonico e il krabot e un po' di cenere soffiata da una lieve brezza gli finisce sopra.

Come sono solito, prima di nutrirmi offro in sacrificio il corpo del mio nemico. Esco carponi dall'ombra del rovo che mi ha protetto dal delirio del Vetar-mai, che striscia invisibile nelle nebulose notti del deserto in cerca di coscienze ancora ingabbiate nel loro guscio mortale e ne sugge il senno e il senso per poi lasciarle affondare nella cenere e in se stesse, inghiottite per sempre dall'oscurità invitta. Questi rovi dalla caratteristica struttura ferrosa formano una sorta di gabbia magnetica che il delirio non riesce a penetrare, e suppongo che del medesimo minerale sia infusa la corazza d'insetto degli ocropoidi, anch'essi immuni al delirio. I rovi fitoferrosi crescono solitari, un esemplare distante anche diversi chilometri dall'altro, motivo che ieri mi ha spinto a fermarmi ben prima del tramonto, timoroso di non trovare per tempo un altro riparo dal delirio letale.

Ma la nostra stella finalmente sta sorgendo, la sua luce rimbalza contro l'immane soffitto di nubi che perennemente sovrasta il Vetar-mai e ancora per poco il suo pallido tocco giungerà sulla terra non filtrato da quella cortina impalpabile che l'inverecondo abuso di energia ha eretto secolo dopo secolo. In quest'ora dorata devo compiere il mio rito: prendo dallo zaino le mie ultime catture, due 0-void neri come la notte del deserto, e nauseato li depongo uno accanto all'altro sulla cenere, la mia blasfema offerta a tutte le divinità solari. Un istante che l'occhio umano non riesce a cogliere, uno schiocco impercettibile di atomi che si fondono – o si disintegrano, non saprei dirlo – e i due diventano uno. Sulla cenere indifferente resta solo un 0-void; superstite o nuovo nato, questo rimane un mistero. In ginocchio di fronte all'uovo che non reca vita, penso ancora una volta alla completa vanità dei miei sforzi, per quanto il pensiero non sia mai riuscito a placare l'insopprimibile necessità di andare avanti su questo incerto sentiero. D'altronde che cosa può fare un uomo di fronte all'irriducibile insensatezza del tutto?

Afferro l'0-void quasi con rabbia e lo metto nello zaino. Consulto la bussola, che rileva la mia prossima preda a non più di mezza giornata di cammino. Svuoto la fiala di tonico nella gola, lo sento scendere fresco e vitale nello stomaco e da lì diffondere un benessere amaro, fugace e illusorio. Poi inizio a masticare un pezzetto di krabot mentre osservo la nostra stella salire lenta, scomparire oltre un grigio oceano di nubi per continuare a illuminare e riscaldare il cielo più puro che l'umanità si è negata. Questo krabot sa di sporco e di polvere che mi allappa la bocca, lo sputo e getto via il resto prima di alzarmi e raccogliere il mantello che scuoto e mi lancio sulle spalle. Mi carico lo zaino e ricontrollo la bussola... Impossibile! L'0-void si è mosso... no, si sta muovendo!

La bussola mi cade di mano mentre credo mi si disegni in volto un'espressione ridicola. Mi piego sulla bussola, mi lascio cadere sulle ginocchia e osservo con attenzione il punto luminoso che indica l'0-void, lo guardo strisciare sulla superficie iridescente della bussola e un accenno di follia inizia a formicolarmi sul fondo del cranio. Non stacco gli occhi dal puntino: un movimento lento, costante, non casuale... Qualcuno lo sta trasportando! Un animale? No. Non posso fare a meno di leggere un'intenzione, una volontà dietro questo spostamento... Un altro con la mia stessa missione? Oppure... No! Se già la mia lotta è folle, ancora più folle sarebbe combattere sul fronte opposto, dalla parte dell'Insensato, a difesa e protezione dei semi del puro nulla che continuano a immiserire la vita. Se è vero che molti si sono arresi dinanzi alla silenziosa avanzata dell'ombra del vuoto e, anzi, l'hanno addirittura accolta come grande liberazione dal fardello insopportabile della coscienza, non è comunque concepibile che qualcuno si faccia paladino dell'entropia e dell'assoluto spregio per la vita.

Mi tiro su trattenendo la bussola con mani tremanti. Sotto l'ombra immensa ed eterna che le nubi immobili gettano sul deserto di cenere provo quasi timore per le strane emozioni che d'improvviso mi scuotono. Un'eccitazione senza precedenti per la nuova sfida che il destino mi offre, o forse ancora lo sfavillio della speranza mai spenta per una fine orrenda e insensata che liberi il mondo dalla mia assurda presenza. Non un richiamo lontano, una vaga tentazione, un miraggio, ma il pericolo concreto che danza oltre il velo dell'ignoto mi fa avanzare nella cenere con passo feroce, come se avesse stuzzicato una fame mostruosa che non mi conoscevo, e la meta che ondeggia sull'orizzonte sterminato è la mia stessa paura di scoprirmi mostro, creatura spinta da inumane esigenze e da incontrollabili istinti trascinata, senza più speranza, al di là del bene e del male.

Mentre marcio ripenso al sogno, alla donna che non riesco a vedere, irraggiungibile nel mare di nebbia che ci avvolge e separa. Ah, se solo fosse lei la meta del mio interminabile viaggio, uno sconosciuto amore per cui scalpitare e impazzire e infuriare contro l'invalicabile barriera della sofferenza che sempre si erge quando due anime si sfiorano, quando il palpito di un cuore sbatte contro un altro e ne nasce una danza che somiglia a una lotta da cui non sprizza solo sangue, ma ogni genere di sostanza corporea che si fonde e coagula nel mistero di un'irripetibile mistura alchemica. Più gioco con questa fantasia e più mi rendo conto che questa mia impresa potrebbe anche essere una fuga dal sollievo, dal piacere e dal dolore, dal peso di un sentimento troppo grande e troppo fragile per reggersi da solo, che ho preferito lasciare appassire quando ancora immaturo. Oppure lei...

I movimenti del nemico, che la bussola non smette di tracciare con meccanica solerzia e precisione, mi ricalano nell'attitudine ferale del cacciatore. Il punto luminoso non procede più verso levante, ma ha iniziato a spiralare verso il basso, come roteando attorno a un perno per giungere di girone in girone al fondo tetro di quel che diverrà il suo inferno. Non mi stupisce affatto che abbia scelto un luogo simile per custodire gli infami semi del nulla; le nere profondità di un'antica cava di fermentazione presentano un habitat ideale per gli 0-void in cui prosperare in un agglomerato inverosimile, forse addirittura riprodursi – se ne sono capaci – per sempre protetti dal tocco letale della luce del sole. Che quell'unico immenso pozzo di morte che gli esseri umani hanno avuto l'ardire di costruire nello spietato deserto del Vetar-mai sia diventato una nuova spaventosa fortezza dell'Insensato dimostra solo che forse i luoghi maledetti esistono e il male piaga la terra ovunque, ma in certe parti si accanisce a tal punto da far sperare che distruzione e oblio le ingurgitino al più presto.

Ancor più eccitato, affretto il passo, che affonda e riemerge pesante di cenere, mentre la coltre di nubi che mi sovrasta sembra pronta a cadermi addosso da un momento all'altro. E di fatto continua a cadere, come da uno spropositato soffitto che si sbriciola e si scrosta, la polvere grigia mai cessa di precipitare silenziosa e quasi invisibile su tutto ciò che c'è nel Vetar-mai. Così ogni tanto devo scrollarmela di dosso, e non per il peso, ovviamente irrisorio, ma per la tossicità. Una volta fuori da questo incubo canceroso dovrò procurarmi abiti nuovi e restare almeno per un intero giorno immerso in una vasca di Lemn. Al pensiero che vi furono non pochi folli che, all'annuncio della grande opera che si sarebbe compiuta in questo infernale deserto, la costruzione di una mefitica quanto redditizia cava di fermentazione, accorsero in schiere per lavorare spalla a spalla con le macchine nella spaventosa eviscerazione del terreno dannato del Vetar-mai, sento venir ancor meno quel poco di fiducia che serbo nell'umanità. Se non con la vita stessa, con tutto il guadagno che era loro venuto da quell'impresa pagarono la fuga dall'agonia mortale che la venefica polvere del deserto non risparmia a nessuno. Immersi per mesi come vermi in questa cenere, essa divenne la loro aria, insozzò il loro cibo e inquinò la loro acqua, violò il loro organismo da ogni poro, nessun accorgimento, nessuna protezione sarebbero mai stati sufficienti contro il suo insinuarsi spettrale. Ma per ravvivare la loro mediocre scintilla si lanciarono scellerati verso un miraggio di gloria terrena, la partecipazione a un'avventura inumana e che, quindi, non aveva bisogno di loro. L'irredenta gloria delle macchine che senza sosta, indifferenti a ogni cosa, scavavano e scavavano, come se stessero estirpando a morsi e bocconi un gigantesco tumore dalla terra, questo volevano guadagnarsi quegli uomini, ma infine riuscirono solo a diventare un po' macchine loro stessi, smembrati e sventrati per sostituire ciò che la cenere del Vetar-mai aveva irrimediabilmente guastato con surrogati artificiali di organi e arti, e così né orgoglio né ricchezza ma solo un'esistenza miserabile gli rimase attaccata addosso.

Questa vicenda e tutta l'infame storia della cava di fermentazione del Vetar-mai era raccolta su dischi nell'archivio olografico di Zteratoth, liberamente accessibile finché la Retta Congregazione non lo prese con la forza e iniziò una vile opera di manomissione del passato, tesa a gettare quanta più verità possibile nelle fauci dell'oblio. Forse non verrà mai il giorno in cui potremo resuscitare il cadavere martoriato del mondo, ma sarebbe già straordinario riuscire almeno a ricucire il sudario della nostra memoria, e io questo voglio ancora crederlo possibile.

La penombra che regna sul deserto trasforma il giorno in un istante diluito all'infinito e la notte ti può cogliere in un balzo se sei tanto sprovveduto da affidarti ai tuoi soli sensi. È invece un inganno debole per un nomade esperto, che ha la fatica del viaggio come nuova misura del tempo e un senso di diffidenza ipertrofizzato dalla continua esposizione alla meravigliosa incongruenza del mondo. Se la notte del Vetar-mai e il suo delirio sono ancora lontani, non lontana è la mia meta, la bussola me lo conferma, nonostante l'orizzonte sottile non riveli nulla e continui a tacere come due labbra esangui perfettamente serrate. Poco oltre quel confine inesistente si apre il baratro orrendo scavato dall'ingordigia umana proprio agli albori dell'interminabile evo sfrenato che i nostri antenati inaugurarono con totale sprezzo della vita. Le vittime inutili che la cava aveva già reclamato solo per la sua creazione non sono nulla rispetto all'ecatombe che costituiva la sua vera ragion d'essere. Perché in questa, come in tutte le altre cave, ciò che fermentava era la morte accoppiata al piacere che non dà nulla se non l'esigenza di altro piacere. Queste erano le fornaci infernali, i sotterranei laboratori in cui la chimica delle forze thanaterotiche produceva la soluzione sintetica a tutti i problemi dell'agiatezza, l'impasto in grado di colmare le voragini vuote di un'esistenza collaterale, il vaccino definitivo contro il disagio della comodità. Il farmaco mutaforma e multi formato, con mille diversi nomi impacchettato, mascherato, esige l'abuso per poter poi depositarsi sulle coscienze acquietate nello stadio terminale dell'apatia, dell'indifferenza routinaria e del patologico plateau delle emozioni che esso stesso ha creato, come un uccello prepara il proprio nido.

Ma questa cava di fermentazione non durò a lungo, deludendo mortalmente le ingorde aspettative degli investitori, che non poterono far altro che accettare di aver perso la partita con l'impietoso deserto. Sebbene le macchine, indifferenti alla cenere e al delirio, eseguivano stolide i loro compiti, non c'era modo alcuno di preservare il prodotto dalla contaminazione. Che la polvere del Vetar-mai possedesse una nocività fuori dall'ordinario era evidente già da molto tempo, ma non si era mai sospettato che essa fosse in qualche arcano modo collegata al delirio, la cui natura resta tutt'oggi un mistero. Il deserto stesso è una concrezione di nefaste coincidenze presentatesi in epoche remotissime, in cui vogliamo credere che l'umanità fosse ignara dell'incidenza delle sue azioni su un mondo che non comprendeva appieno e che anche solo un barlume di consapevolezza avrebbe salvato dall'atroce caduta. Ma è più probabile che la stessa dissennata brama sopravviva da allora nel cuore di certi uomini e abbia mosso anche quelli che osarono reclamare un pezzo di deserto per il loro disgustoso lucro. La sconfitta, il magro guadagno non furono di consolazione a nessuno dei miserabili annientati dalla droga, che senza neppure accorgersene continuavano la discesa nel gorgo dell'insensato, quasi gioendo della vita anestetizzata che gli veniva somministrata giorno dopo giorno. Oggi sempre meno cave vomitano l'agognato nettare della perdizione perché sempre meno bocche anelano sbavanti alla sua placida illusione, come se il tetro presente non regalasse più di un motivo per perdersi nel vacuo abuso di un piacere senza nome, tanto che potrei quasi ingannarmi a pensare che la pasta di questa generazione sia meno tenera delle precedenti. Eppure il mondo caduto resta tale, e ancora deve venire chi avrà la forza e il carattere per risollevarlo, se mai questo avverrà.

Dalla cresta effimera di una duna riesco finalmente a contemplare la bocca leviatanica attorno a cui il deserto esita e tace, mentre la cenere continua a cadere e da vertiginose altezze scivola e precipita nel buio sepolcrale che l'ardire sfrenato degli esseri umani ha scavato nel cuore di questo ripudiato angolo del mondo. Scendo quasi correndo sulla polvere grigia, che cede sotto ogni mio passo, fino a raggiungere le labbra frastagliate della voragine e come preso da un moto perverso dell'animo mi vedo lanciato nel vuoto nero, sgravato dal fardello della follia sterile che mi ha condotto fin qui, che si stacca da me come morta esuvia e resta sospesa nell'aria incerta mentre io affronto sereno la mia ultima discesa verso la nera luce abissale.

Rido di me stesso mentre cerco con lo sguardo l'ascensore che mi porterà verso una nuova prova, un altro misero intervallo dell'inferno in cui danzare col mio nemico finché un altro giorno storpio si leverà sullo sconforto del sopravvissuto e sull'indifferenza del caduto, mentre il fantasma di una qualche gioia aleggia troppo in alto per essere anche solo scorto.

Controllo ancora la bussola prima di incamminarmi verso la torre ingabbiata, che come colonna vertebrale di uno smisurato cadavere corre rugginosa giù per l'abisso, e impalcature e terrazzamenti lungo le pareti della cava le si aggrappano come costole. Giunto al cancello dell'ascensore provo a risvegliare il primitivo meccanismo azionando una leva e subito un abominevole latrato metallico mi rivela che la macchina non si è ancora rassegnata alla fatiscenza a cui comunque non può scampare. Mentre ascolto il rancoroso strisciare della grossa catena tra i denti marci di ingranaggi che hanno languito per secoli, mi colpisce un fatto sospetto. Ritorno con lo stesso entusiasmo allucinato a quando osservavo il puntino luminoso muoversi sulla bussola, il suo moto strano e rivelatore, la discesa a spirale nelle viscere del deserto... Perché? Se l'ascensore funziona come sembra, perché non servirsene? Voleva forse che lo notassi e non avessi dubbi, mentre scendeva di girone in girone e lasciava il marchio della spirale impresso nella mia mente, segno di una follia quasi inumana? Cosa si è calato in quest'abisso trascinandosi dietro l'esca cui soltanto io forse avrei abboccato? Ora dal fondo dell'oscurità non sale solo la gabbia d'acciaio che potrebbe diventare la mia bara, ma anche uno spropositato terrore senza forma.

La cabina giunge di fronte a me, con un colpo sinistro si blocca, e la catena senza fine tace perdendosi nel nero abisso. Afferro la maniglia del cancello con una mano e lo apro di schianto, come se potesse servire a vincere quella vaga paura che mi è sbocciata nel cuore. Mentre sento ogni fibra di me irrigidirsi, levo lo sguardo verso la grande stella che non posso vedere, ne cerco il calore e il conforto che non riesce più a dare alla masnada di inetti che ancora si agita su questo pulviscolo di mondo in balia del caos. Con un sospiro mi infilo nella gabbia cigolante e chiudo il cancello, aziono la leva che manda qualche scintilla prima che l'ascensore si metta in moto con uno stridore dolente.

Mi trovo a contare i miei battiti mentre la grigia luce del giorno si fa sempre più tenue e il macchinario mi cala nella tenebra fitta del ventre vuoto del deserto. Non sento freddo, non sento caldo, solo la vibrazione meschina dell'ascensore mi trasmette una certa inquietudine e l'oscurità mi riempie la vista. Affondo nel desiderio attorcigliato di voler cavare dal luogo più sterile della terra l'oro degli stolti e la panacea contro l'insensatezza, come se ridare senso al mondo fosse cosa da poco, ottenibile rifertilizzando chimicamente le anime aride, sistematicamente assetate per secoli, e incoraggiandole ad abbandonare la macchia per la beata sicurezza del pascolo. Qui il grande sogno della venerata scienza giace nella sua tomba monumentale, se non tutto il corpo quantomeno una reliquia, che del suo immane cadavere smembrato ancora si nutrono i suoi mesti discepoli, mai stanchi di spargere un verbo morto che può soltanto imputridire le menti.

Scendo e scendo accompagnato dal rantolare della catena, delle pulegge che hanno appena abbandonato il loro rugginoso torpore, e gli occhi, ancora iniettati della stanca luce della superficie, stentano ad adattarsi al mondo sotterraneo. Una cieca calata nell'abisso dove il nemico attende tutto circonfuso dal terrore che solo il mistero sa creare. Che si crogioli pure nella sfacciata sicurezza della sua forma mostruosa! Forse ignora che sono disposto a rivoltare me stesso, a snudare l'anima nera che senza morale e oltre ogni umana logica agisce, come bestia inafferrabile che nell'ombra caccia e sbrana e uccide... Dovrò davvero sperare nel rigurgito di un'esistenza ancestrale per superare quest'ennesima prova fatale?

Tiro fuori la bussola, come se la tenue luminescenza della sua superficie convessa potesse darmi un po' di conforto. Sempre più vicino al punto lampeggiante, letteralmente sopra di lui, non riesco a trattenere un mugolio mentre un brivido mi percorre la spina dorsale. Nel lungo attimo che si ripete uguale a se stesso nel nero in cui sto affondando, la ragione mi vien meno, e mi sorge il pensiero che questo guscio di tenebra non è tanto diverso dall'ala della notte con cui plana sul deserto il delirio del Vetar-mai. Che sia questo il bieco tranello tesomi da un vile nemico che così non si sporcherebbe neanche le mani del mio sangue? Devo calmarmi, evitare di scivolare nel gorgo della paura folle in cui proprio l'avversario vuole intrappolarmi... Pare tutto predisposto affinché una contorta paranoia si insinui nell'architettura del mio cervello e smonti ogni certezza e disgreghi la determinazione che fino a qui mi ha condotto e... Sto perdendo di vista il mio obiettivo. È per il seme del nulla che sto consumando le mie energie, ogni mia fibra è tesa nello sforzo di voler recuperare ciò che comunque resta perduto, per quanto assurdo possa essere. E se nell'assurdo devo affliggermi e penare per spremere anche solo una goccia di gloria dal frutto floscio di questa vita diseredata dal fato, allora questa e altre infinite prove sono ciò che voglio e che accolgo con tutta l'inesausta forza di un amore disperato.

D'improvviso lo sferragliare cessa, la gabbia si ferma con un brusco sobbalzo che mi costringe ad aggrapparmi alle sue sbarre per non cadere. L'oscurità perfetta qui si fa palpabile, come un banco di nebbia nera che si struscia viscida contro il mio mantello, mi infastidisce le narici, imperla la mia fronte di un'umidità malarica. L'aria è spessa, quasi irrespirabile, mi dà la sensazione di poter annegare, i polmoni lentamente ingolfati e intossicati dai vapori mefitici che vagano spettrali sul fondo di questo baratro. Spingo il cancello, che cigola lagnoso, ed esitante cerco terra con il piede e la trovo. Esco dall'ascensore e non oso fare un altro passo.

Il nemico è di fronte a me, la bussola me lo rivela, a non più di cinquanta passi. Non ho intenzione di accendere la mia torcia, ma la prendo ugualmente dallo zaino. Una precauzione forse inutile, dal momento che non sono arrivato qui proprio in maniera silenziosa, ma voglio almeno tentare di nascondere la mia posizione, per quanto non abbia certezze che il buio sia una protezione sufficiente contro questo avversario. Provo a muovermi di lato, con estrema accortezza e attento a non fare rumore, senza perdere di vista la bussola, e così inizio ad allontanarmi dall'ascensore. Il puntino luminoso resta immobile, come è sempre stato con tutti gli 0-void che ho stanato, e quasi mi vien da pensare che sia stata tutta una mia perversa fantasia, la smania patologica del cacciatore che si eccita dietro alla preda che fugge, ne assapora il panico mentre si lancia sbavante all'inseguimento. Mi sono immerso nella mia stessa allucinazione, incapace di resistere agli stimoli autoindotti che sgretolavano l'apatia che incrostava il mio cuore, e così mi sono spinto fino al fondo di un sepolcro di tante speranze e illusioni come per sentire ancora palpitare qualcosa in me, qualcosa di diverso dal tragico desiderio di voler abbattere il muro del nulla che mi separa dal vero mondo, che non è mai caduto, perché forse è solo negli occhi degli inetti che si manifesta il tremendo simulacro della realtà con le sue farse senza fine e il dolore strisciante per un ritorno impossibile a uno splendore inconsistente. Qui, oppresso dall'oscurità e da un'aria malsana e dal mio delirio, desidero soltanto che una nuova alba mi accarezzi il viso.

Una risata grottesca squassa il silenzio e io mi ritrovo come nudo e inerme nel gelo bagnato del ventre del deserto. Lo sguardo corre frenetico alla bussola mentre rattrappisco nel terrore fulminante che quell'inaspettato vocalizzo umano mi ha suscitato. La risata rimbomba nel vuoto della cava e piano piano si spegne in singulti sgangherati.

... umano...

Come un insetto luminescente, il punto schizza verso il centro del quadrante. Con uno scatto spiano la torcia verso l'oscurità, il pollice raschia contro il tasto, ritento, l'accendo. Nel fascio di luce un ghigno affilato si apre nella maschera trasfigurata da cui lampeggiano per un istante occhi di nottola. Il nemico si lancia su di me, cado all'indietro e perdo la torcia e la bussola, mentre quest'essere mi tiene giù con tutto il suo peso. Mi faccio scudo con le braccia, ma una mano penetra la mia goffa difesa e mi artiglia la gola. Afferro con entrambe le mani quel braccio assassino che si protende dalle tenebre, teso come un grosso cavo d'acciaio tra la mia vita e il nulla. L'altra mano mi piomba sul volto e preme, e mi sento affondare senza fiato nella terra umida. Allungo una mano nel buio verso la sua faccia indecifrabile, ma le dita si stringono solo attorno al suo respiro caldo. Con l'altra trovo il pugnale che riposava sotto il mio mantello e lo pianto nelle sue carni, passo da parte a parte il braccio che mi soffoca. Ma non cede e continuo ad annaspare, così tiro e di nuovo colpisco e manco, questa volta la lama lambisce solo la pelle. Il suo sangue zampilla e mi cola in faccia. Con l'ultimo barlume di lucidità faccio correre la lama lungo il suo avambraccio e taglio e lacero alla cieca per far saltare i tendini, così mi libera la faccia per cercare di fermare la mia mano armata. Il suo sangue scende a cateratte sul mio collo ancora intrappolato, e da lui non esce verso, soltanto l'ansimare eccitato del predatore sulla preda. Intercetta la mano col pugnale e con una stretta impossibile mi disarma.

Ho davvero creduto di poter cacciare un predatore?

La torcia accesa ignora la scena.

Il buio è sempre più denso.

Mi sta invadendo.

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