Alla ricerca dell'alba

By CuoreAdElica

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๐—–๐—ผ๐—บ๐—ฝ๐—น๐—ฒ๐˜๐—ฎ โœ”๏ธ ๐™ฝ๐šŽ๐š  ๐™ฐ๐š๐šž๐š•๐š ๐Ÿ’š 2/2 Isabella Arese รจ in cerca di emozioni. รˆ in cerca di albe e tra... More

Cast
Premessa
Come un pittore - Parte Uno
Prologo
1. Odio l'estate
3. Gelati indesiderati
4. Le tipologie variopinte del silenzio
5. Maschere fragili e Mr. Convinzione
6. Fratello maggiore
7. Incarnazione del principio eracliteo
8. Avere diciott'anni
9. Troppo sensibile
10. Heroes - Pt. 1
11. Heroes - Pt.2
12. Che poi da te non รจ Versailles
13. Carpe diem
14. Baby & Johnny
15. I miracoli esistono
16. Cerasรฌ
17. Dieci ciliegie, dieci desideri
18. Non sei come dicono loro
19. La casa in riva al mare
20. Mistica, come le sirene
21. La leggenda di Celentano
22. Colorare i sentimenti - Pt. 1
23. Colorare i sentimenti - Pt. 2
24. Cosa รจ successo il quattro luglio?
25. Cicatrici di ricordi
26. L'abbiamo scoperta noi, Ischia
27. Il marinaio e la sua bussola
28. Ritorno alla realtร 
La lettera
Come nelle favole - Parte Due
29. Einstein รจ a Roma
30. Tribunale d'amore
31. Maledetto tempo
32. Sfiorare manco con una rosa
33. Stessa stazione? - Pt. 1
34. Stessa stazione? - Pt. 2
35. Dirsi ti amo senza dirselo
36. Il filo rosso di Arianna
37. Albori
Epilogo
Ringraziamenti

2. Anti-eroe

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By CuoreAdElica



Ischia.
Estate.


Mi dicevano sempre che fossi diversa dagli altri bambini.

Mi chiedevo per quale assurdo motivo io dovessi stare seduta invece di fare educazione fisica con gli altri compagni, mi chiedevo per quale motivo non potessi fare sport o non potessi uscire con alcune amiche che per una sola volta avevano trovato coraggio a proporlo. Poi, più grande diventavo, più capivo che ero destinata a quell'isolamento, a quel starmene in disparte. Come una spettatrice di film tutti uguali.

Abituarmi allo stile di vita di quella vacanza fu strano.

Non ero mai stata fuori Roma per così tanto tempo. Non perché non volessi, o perché i miei non volessero – credo – ma perché le mie condizioni di salute non me lo permettevano in maniera integrale, purtroppo.

Sin da quando ero una bambina ero abituata a stare per giorni in ospedale. Per mancanze di ossigeno, per sforzi generati inconsapevolmente o per controlli generali.

All'età di cinque anni sentii per la prima volta la parola: dispnea. Una rottura di coglioni, tradotta in maniera più esplicativa. Quella parola era l'anti-eroe del mio film. Mi impediva di fare qualsiasi cosa volessi, cominciai ad odiarla, cominciai a vederla come qualcosa da cui fuggire e nascondermi.

Problema disfunzionale del muscolo cardiaco, 'sto cazzo. Era marchiato con la cera bollente sopra ogni singola azione compiessi. Avevo imparato a memoria la mia cartella clinica. Ero limitata in qualsiasi cosa, ero debole e fragile da far schifo.

Certo, non potevo dire di odiare la mia vita. Alla fine mi toglievo le scocciature come il sudore o il male alla milza, e poi scoprii che correre e fare sport non mi piacesse chissà quanto. Ma, ovviamente, ad ogni limite c'è una conseguenza.

Tutto questo ambaradan di problemi e divieti, aveva causato una sedentarietà ancora più disfunzionale della dispnea stessa. All'età di undici anni cominciai a soffrire di disturbi alimentari, nessuno se ne accorse: «Ho mal di pancia, non mi va la torta.» Questo perché vedevo tutte quelle bambine coi fisici sviluppati, pronte per addentrarsi alle scuole medie ed io, invece, sembravo un personaggio di un cartone animato giapponese. Con quelle lentiggini, quei boccoli rossi, con quella pelle lattea.

Diventò tutto più pericoloso quando cominciai a soffrire di bulimia a quattordici anni. Brutta bestia. Durante una visita, il mio dottore di fiducia che avevo imparato a chiamare per nome, Matteo, notò vari sbalzi nei valori: ferro basso, scarsa energia. Lo stranì, mi suggerì di mangiare più carne bianca e riposare di più — idiozia, dato che riposavo fin troppo —. Degenerò ogni cosa durante il mio terzo anno di liceo. Mi ricoverarono per mesi e mesi.

Non vorrei sembrare la solita ragazzina ricca e infelice, perché io felice lo ero, in fin dei conti. Non mi mancava nulla, avevo ciò di cui avevo bisogno: una casa con ogni agio possibile, alti voti a scuola e una nuova compagnia di amiche che mi trattavano bene. La verità era, tuttavia, che ero gelosa.

La volevo anch'io una vita movimentata. Quel brio sulla pelle quando si fa qualcosa di spericolato: imbucarsi ai concerti, bere fino a stare male e tatuarsi di nascosto.

Avevo mascherato la mia gelosia e la mia insoddisfazione con la scuola. Ero un'alunna eccellente, ma ero povera di vita. Tutto qui. Con la mia famiglia non ero molto spigliata, dopo tutti quei problemi si era incrinato qualcosa, specialmente con mio padre.

Era sempre stato iperprotettivo, ma ciò peggiorò maggiormente. In qualche modo, quel suo atteggiamento di perseveranza e diligenza nei miei confronti, mi aveva portato a detestarlo e a non sopportarlo.

Aprii gli occhi a fatica. Erano già quattro giorni da quando era cominciata quella vacanza, tutto ciò che mi impegnai a fare fu sistemare il giardino, fare braccialetti di grano con quello che cresceva lungo il tratturo e tenere d'occhio i miei cugini: Filomena e Filippo, due gemelli differenti in tutto, Valerio, il più grande e Mario, il più piccolo. Loro impegnavano tutte le mie ore pomeridiane.

A tavola c'eravamo quasi sempre solo io, mia mamma e mio papà. Monica era fuori quasi ogni giorno e rientrava tardi la sera. Spesso la sentivo confabulare al cellulare qualcosa con un ragazzo, e quando tornava verso le due di notte sentivo il rumore dei motori di una macchina sportiva.

Per i miei era normale, era grande. Ero io la piccola di casa, la sarei stata per sempre e per quanto dovesse piacermi come cosa, in realtà, non riuscivo a uscirne. Ero come intrappolata in una gabbia troppo stretta, come se indossassi vestiti troppo piccoli e mi stessero strozzando.

«No, bambini, oggi verrete con me.» Contestò mia zia, uscendo dalla cucina. I suoi quattro figli la seguirono come un branco di pulcini.

«Ma mamma! Oggi trasmettono il nuovo film di Captain America in tivù!»

«E io voglio usare i miei nuovi braccioli in piscina!»

«Oggi io e Ilaria volevamo giocare con le bambole!»

E Mario si limitava saltare e muovere le braccia spasmodicamente.

Mia zia li guardò tutti e quattro, le braccia flesse sui fianchi e le sopracciglia arricciate verso il basso a incupirle lo sguardo. Provò a zittirli, ma loro presero a sovrastarsi a vicenda con lamentele e piagnistei.

«Zia, zia, zia...!» M'intromisi. Tutti i loro occhi saettarono su di me, come se fossi un miracolo. «Vedi... vedi che i bambini possono restare con me, non c'è problema...», ammiccai un sorriso gentile.

«Ma no, Isa... è estate anche per te... perché non esci? Non mi sembra giusto tu debba restare segregata in casa per dare una mano a me.» Mi accarezzò il braccio, «E poi li stai viziando troppo.»

«E dai!»

«Mamma!»

«Non è vero!»

Ricominciarono daccapo.

«Zia, non ho piani per 'sto pomeriggio. Non mi dispiace restare con loro, mi diverto, veramente. Mi fanno compagnia.» Li guardai uno ad uno, i loro occhi a scintillare speranzosi.

«Isa, ne sei sicura?» Sollevò le sopracciglia appena, il tempo per dipingere il suo tentennamento e farmelo vedere.

«Sì, stai tranquilla.» Annuii, rassicurandola.

Quindi, dopo l'ora di pranzo, mentre mi gustavo dei fichi, i miei e i miei zii si prepararono e uscirono per andare in paese. I miei cugini erano raggruppati accanto alla piscina, con giochi e gonfiabili a forma di ciambella e anguria.

«Allora, Isa, noi andiamo. Tu rimani qua?»

«Sì, sì, tranquilli. Li tengo d'occhio io.»

Mi salutarono, uscirono dal cancello di ferro chiacchierando: mia madre e mia zia con dei vestiti a vento colorati e floreali, mio padre e mio zio con dei bermuda corti e monocolore e camicette raffinate.

Bevvi della limonata, la servii ai miei cugini, raccomandando loro di bere piano e non sporcarsi. Passai le prime ore del pomeriggio a rilassarmi su una sedia, un taccuino ricamato con su scritti i miei pensieri giornalieri e il sottofondo dei grilli mischiati alle cicale che suonavano a fischiavano forte per tutto il giardino. I bambini ridevano, gridavano ed io ogni tanto li ammonivo con un sorriso.

«Isa, mi accompagni al bagno?» Filo mi venne accanto, si appese al mio braccio, le ginocchia a stringersi fra loro per trattenere l'istinto di farla lì.

Mi sollevai all'istante, la presi in braccio con un sospiro e con un paio di passi mi avvicinai alla veranda: «Bimbi, state attenti. Torno subito.» Dissi, prima di valicare la soglia e attraversare la bolla di calore in cui era intrappolata la villa.

Arrivammo nel bagno, accomodai Filo sulla tazza e lei cominciò a liberarsi mentre io mi osservavo allo specchio: clavicole sporgenti, braccia secche, fianchi ossuti e gambe lunghe. Spaventapasseri, ecco cosa sono. Strinsi i denti e deglutii, oramai m'ero data per vinta.

Quando mi voltai, Filo si allungava per tirare lo sciacquone. Io ridacchiai: «Oh, brava adesso arrivi anche allo sciacquone? Cresci in fretta!», la ripresi in braccio.

Per i suoi quattro anni, Filo era già cresciuta. Forse perché era abituata a stare in un ambiente maturo, adulto. Ma ciò non la rendeva meno bambina di quanto doveva essere. Sapeva essere dolce e creativa, ma al contempo prolifera e spigliata.

Ritornai in giardino, ma quando mi trovai davanti alla piscina, qualcuno mancava all'appello. «Vale, dov'è Mario?» Mi accigliai, Filo raggiunse suo fratello.

Valerio, di otto anni, fece spallucce: «Non l'ho visto.»

«Filippo, tu? Sai dov'è Mario?»

«Giocava a palla.»

Sospirai, andai sull'erba e cominciai a cercarlo tra i cespugli con le braccia incrociate e il caldo a schiacciarsi sulla pelle delle scapole.

«Mario, dai. Esci fuori...» Arrivai nelle prossimità del cancello, notai solo una volta andata vicino che fosse socchiuso. Meglio: socchiuso per me, ma aperto per Mario. «Merda!», mi precipitai fuori al tratturo dicendo: «Vale! Controlla Filo e Filippo!»

Camminai in fretta lungo la radura, gli occhi puntati sul campo incolto di grano e stagliato da alberi di pino, continuai a chiamarlo ad alta voce, ma non ricevetti risposte. Okay che lì non passasse molta gente, le macchine erano rare e persino i motorini, si sentiva solo il fischiare del vento, il sussurro del mare e lo scrosciare dei rami. Per il resto il silenzio era formato da uccelli e animaletti saltellanti. Ma c'era sempre la probabilità che si fosse immerso tra le piantagioni, fosse caduto in un burrone o anche peggio!

Ne avevo visti di documentari su bambini dispersi in campagne, nessuno finiva con un lieto fine. «Mario! Dove sei?!»

Mi portai le ciocche dei capelli dietro l'orecchio, frustrata e agitata.

«Cercavi lui, per caso?»

Una voce mascolina alle mie spalle mi fece sobbalzare. Mi girai subito, i capelli a spostarsi su una spalla, la preoccupazione a svanire quando vidi Mario in carne ed ossa davanti a me. Insieme a lui, però, c'era colui che aveva proferito parola: il vicino, se così si può definire.

Elia Delle Donne, un accumulo di ricci neri sul capo, un sorriso furbo e due occhi magnetici.

Sì, nei giorni precedenti lo avevo intravisto, ma spropositatamente, mentre mi applicavo con i bracciali di grano o quando buttavo la spazzatura; lo avevo visto uscire dal suo cancelletto arrugginito, il casco infilato senza allacciarlo, un costume blu e una canottiera sgualcita. Anche lui mi aveva vista, ma non c'eravamo parlati.

Poi, un'altra volta, il 14 giugno, quando aiutavo zio a intagliare dei legnetti. Era tarda sera, i grilli cantavano, il cielo era blu elettrico, le stelle come spilli d'argento. Dalla sua casa si sentivano voci forti alternate a momenti di silenzio religioso. Quando c'erano le voci, però, non riuscivo a capire molto.

Quando lo vidi, cominciai a pensare che fossi in pessime condizioni: una felpona verde pistacchio ad avvolgermi come una coperta, dei jeans di quando andavo in terza media tutti sfibrati e un paio di ciabatte di camoscio a sandalo, i capelli legati in una treccia morbida e disordinata.

Lui, invece, aveva indosso solo un pantaloncino nero, gli arrivava alle ginocchia circa, ma era molto abbassato sui fianchi, quasi da far vedere l'elastico dei boxer. Il torso nudo e lievemente muscoloso a spiccare con la sua tonalità ambrata. In una mano stringeva un sacco dell'immondizia e nell'altra il suo cellulare collegato alle cuffiette che aveva nelle orecchie.

Quando si voltò per rientrare, i suoi occhi vagarono in giro prima di fermarsi su di me. Anch'io lo stavo guardando. Fissò me, poi il cesto di vimini riempito di legni. Mi riservò un piccolo sorriso, un ghigno educato: «Ciao.»

La gola divenne arida, priva di salivazione: «Ehi.»

Si tolse una cuffietta e si avvicinò di due brevi passi, «Cosa stai facendo?» La sua voce da vicino era chiara, fresca e da ragazzo. Non era né troppo alta e forte, né prepotente e roca. Era dolce, forse, alle orecchie suonava armoniosa, una melodia.

Si concentrò sulle mie mani che avvolgevano un pezzo di legno e nell'altra stringevo un coltellino.

«Aiuto zio con la sua collezione.»

«Colleziona statuette di legno?» Mormorò, puramente incuriosito.

«Sì.» Annuii, mi schiarii la voce, riportai lo sguardo sulla bocca del mamozio che stavo intagliando.

«Figo.» La polvere di sabbia sotto le sue infradito gli aveva macchiato un po' il pollice, cominciò a dondolarsi.

«Cosa ascoltavi?» Mi presi coraggio a continuare quella ambigua chiacchierata.

Ma, nel profondo del mio cuore, sperai che zio arrivasse più in fretta possibile con la limonata.

«Come?»

Alzai di poco gli occhi, fissai il cellulare: «Non stavi ascoltando la musica?»

«Ah, sì... scusa.» Gli sfuggì una risata imbarazzata: «Una Carezza in Un Pugno, Celentano.»

Non so per quale idiota motivo io risi, mi portai il polso vicino al labbro, «Scusa, non l'ho fatto apposta.» Quando rialzai lo sguardo, di nuovo, Elia sorrideva.

«Ti fa ridere il fatto che io ascolti Celentano?» Alzò le sopracciglia, puntandosi l'indice sul petto.

«No, affatto, ma nella mia testa mi aspettavo un cantante più moderno, più uno di quelli che rappano o hanno più marsupi che neuroni... capito che intendo?»

«Sì, in poche parole pensavi fossi noioso e con gusti musicali di merda.»

Io annuii, «In parole povere, sì.»

Strinse le labbra, senza smettere di sorridere e annuì. «Ma di dov'è che sei di preciso?»

«Montefiascone.»

«Mh, zona bella?» Strappò un filo di grano e se lo portò tra le labbra, giocherellandoci.

«Niente male.» Feci spallucce, scheggiai delle ali sul retro del legno. «Tu sei di qua?»

«Ischitano nel sangue e nelle ossa», sospirò, calciando l'invisibile, alzando un polverone di sabbia. «Per quanto restate qua?»

«Fino a fine agosto, inizio settembre, non saprei.»

«Non ti vedo in giro spesso, per quali zone vai girando?» Inclinò il mento, si grattò la guancia.

«Esco poco, ma sto per qua, comunque. Ischia centro...»

«E per quanto riguarda il mare? Dove ti porta il vento?»

«Nella piscina di casa.» Ridacchiai. Elia mi guardò confuso, sorrise con allegria, ma nei suoi occhi non vidi derisione o cattiveria. Solo curiosità ed educazione. «Mi sa che m'hai beccata, sono io quella noiosa.»

«Ma va, mica pensavo a mortificarti. C'hai ragione, non è facile fa' conoscenze o stringere rapporti se si è qua per la prima volta...»

«Come lo sai che sono qua per la prima volta?»

«M'ha detto mamma.» Indicò casa sua col pollice. «E poi ti si legge in faccia.»

«Già... so' una che c'ha tutto scritto in faccia.»

Elia si rigirò il filo di grano tra le labbra, avanti e indietro: «Senti, so che posso sembrarti stupido, ma ti posso dà il numero mio? Non sono malintenzionato, solo per farci compagnia. Gli amici miei se ne partono per Bali o per Rimini, rimaniamo solo io e l'altro amico mio, te lo presento se ti va...», Elia si frenò quando lesse nei miei occhi qualche intrepidezza. Sì, mi si legge proprio in faccia. «Sto dando l'impressione di esse' un maniaco, vero?»

Io risi, scossi il capo, «No», sospirai. Poi aggrottai la fronte, «Chi ti ha detto che mi sembri stupido?» Elia schiuse le labbra, abbassò le iridi verdi sui suoi piedi e alzò le spalle. Quando mi riguardò, capii stesse aspettando una mia risposta, «Facciamo una cosa, io ti do il numero mio e poi si vedrà...»

«Ci sto.»

Dopo essersi segnato il mio numero, arrivò mio zio. Ci chiacchierò un po', «Adesso meglio che vada, comunque belle statuette.» Le indicò.

Io sorrisi impacciata, lui fece altrettanto augurandoci una buonanotte e dileguandosi verso casa sua. Dopo averlo seguito fino al portone e dopo averlo visto chiudersi dentro, guardai mio zio. Sapevo mi stesse fissando.

Sbuffai e roteai gli occhi al cielo mentre lui rise.

Rientrata in casa mi gettai sul letto ordinato e ricoperto solo dal lenzuolo con delle fragoline disegnate sopra. Nella mano un muffin alle carote e nell'altra il computer. Lo aprii con l'intento di guardare un film, ma poi, magicamente, mi trovai sulla pagina internet di Elia.

Quel profilo aveva più seguaci che dignità.

Nella biografia non c'era scritto nulla di rilevante. Centinaia di fotografie tutte diverse in cui mi divertii a osservare i visi delle persone, come a studiarli per un esame di psicologia.

Stavo per andare a dormire quando mi arrivò un messaggio: "Ciao, sarò il tuo peggior incubo per i prossimi mesi"

Con un sospiro di angoscia mi affrettai a recuperare Mario dalle sue braccia.

Gli accarezzai i capelli e gli diedi un bacio sulla tempia, «Mio Dio, dove pensavi di andare?», Mario si strinse sulla mia spalla con il pollice infilato in bocca, da poco gli avevano tolto il ciuccio.

Poi mi rivolsi ad Elia, fermo dinanzi a me, le mani nelle tasche e il mento leggermente inclinato per ricevere i miei occhi. «Grazie.»

«E di che? L'ho visto gattonare qua vicino, stavo qua fuori...», indicò la sedia di plastica bianca poco lontana da noi e il posacenere di ceramica pieno di cenere e sigarette striminzite. «Stai bene?» Riportai lo sguardo su di lui, mi stava fissando accigliato.

Probabilmente avevo assunto un colorito rossastro per via del panico, il mio cuore era impazzito. «Sì, non farci caso, sto bene...»

«Vuoi un po' d'acqua?»

«No, sul serio, sto bene», farneticai, «Adesso vado che ho lasciato i bambini da soli.»

Lo liquidai con un sorriso breve, ma il tempo di voltarmi verso casa che lui mi richiamò, «Stai sola?»

«Eh, i miei stanno fuori...»

«Ah, okay.»

«Ciao.»

«Isabe'» Mi voltai, stringevo Mario per le gambe, me lo premevo sulla spalla. Lo incitai a continuare con un cenno del mento, lui si tolse la sigaretta dalla bocca, il fumo gli coprì il viso per un attimo, ma scorsi il suo sorriso, «Perché non rispondi ai miei messaggi?»

Strinsi le palpebre e trattenni una risata. Mi umettai il labbro screpolato, «Un giorno vedrò di risponderti.»

«Non farmi aspettare troppo, eh.»

Arrivai al cancello di casa e lo chiusi, Elia s'era seduto di nuovo e aveva infilato le cuffiette bianche.

Attraversai il giardino, «Un po' arrogante il ragazzo, ve'?» Domandai a Mario.

Aprì il palmo della mano e fece spuntare delle bustine di caramelle zuccherate.

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