La figlia del Maresciallo

De MargheritaLanza17

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🥇numero 1 in #romanzogiallo 🛂 quarta in #giallo 😍 👮🏻 numero 1 in #fotografa 🥇 numero 1 in #carabinieri ... Mais

Prefazione
Nota dell'autore
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 12
Capitolo 13 - Finale
Ringraziamenti
🥇Riconoscimenti su Wattpad 📚
Presentazione ufficiale e rassegna stampa

Capitolo 11

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De MargheritaLanza17

Stamattina in ufficio c'è una gran confusione, tutti parlano del titolo in prima pagina e mi chiedono spiegazioni. Rispondo a tutti: «Ci sto lavorando, è tutto sotto controllo» senza dargli possibilità di fare altre domande. 

I genitori delle ragazze uccise sono in preda al panico e vogliono parlare con me, ma non posso confessargli che è una trappola per il killer. Chiedo al brigadiere all'ingresso di non far entrare nessuno. Famiglie, giornalisti, curiosi. Non voglio dover inventare scuse con nessuno, voglio parlare solo con la mia "complice", Ginevra Ferrari, che arriverà a breve.


Appoggio i gomiti davanti alla tastiera del mio computer e infilo le dita sotto gli occhiali per stropicciare gli occhi con un mezzo sbuffo, le riporto alla tastiera e apro la cartella con il caso del killer per rivedere alcuni dettagli. Spero di ottenere qualcosa intimidendo il pc con lo sguardo oppure sto elaborando le immagini che scorrono davanti ai miei occhi, sfruttando ogni mia dote di osservazione e di memoria. Sono stato dentro tutto il giorno, rintanato nell'ufficio a effettuare ricerche e a cercare di ordinare tutte le complessità dei casi di cui si compone l'intera faccenda: qualche ipotesi è venuta fuori, qualche idea è stata vagliata. Al momento sto effettuando delle ricerche su qualche caso che ha seguito il maresciallo De Lancia, per escludere che sia un rapimento di vendetta nei suoi confronti, sto cercando tutti i criminali che ha arrestato negli ultimi sei mesi per capire se ci sono validi moventi. Indosso gli occhiali, anche perché dopo una giornata così intensa, sono piuttosto stanco e lo è anche la mia vista. Ho davanti a me il portatile aperto su cui continuo a smanettare e prendo spesso appunti su dei fogli dove ho cercato di schematizzare le informazioni prese. 


Più di frequente, dopo tutte queste ore di lavoro, tolgo gli occhiali e strofino un po' gli occhi, sentendo quel subdolo mal di testa che sta lì in agguato e buttando fuori stancamente un po' d'aria. Sono distrutto da giornate pesanti, non ultima quella no-stop di ieri, da una notte piena di incubi e di certo non migliorata dal rapimento di Adele che mi ha reso soltanto furioso e insoddisfatto, stati d'animo che non dimostro all'esterno perché sono fatto così, ma che si concretizzano in cambiamenti pratici e sostanziali. Tipo starmene fuori, al balcone, per tutta la notte e assopendomi solo per qualche minuto a più riprese ma senza riuscire effettivamente a dormire. Sono stato semplicemente lì, a covare inevitabilmente in silenzio la frustrazione che va avanti da più di tre giorni, con tutti gli eventi che sembrano solo aggregarsi contro. E a pensare ovviamente al caso: di quello non posso fare a meno, neanche se mi concentrassi su altro. 


Giro lo sguardo sulla porta sentendo la voce di Ginevra che ridacchia con qualche brigadiere. Quando sento la porta aprirsi mi irrigidisco di colpo, come se ogni parte del mio corpo desideri che a entrare fosse Adele. Mi sollevo un po' sui gomiti fino a che Ginevra non appare nella stanza, la osservo ma solo brevemente, non sostengo il contatto visivo più di qualche secondo. «Ciao, accomodati» commento con un tono basso, pacato, abbastanza monotono ma immancabilmente affettuoso. Solo molto triste. Lei si siede, dedicandosi a mettere le gambe accavallate. «Ci siamo!» esordisce con un entusiasmo fastidioso. «Cosa?» chiedo quasi rassegnato.


«È arrivata una chiamata anonima in redazione, un uomo ha chiesto di parlare con me in merito all'articolo in prima pagina, mi chiamerà tra poco.» Il mio battito è accelerato adesso ma devo rimanere lucido. Digito velocemente l'interno del maresciallo di turno sul telefono fisso. «Maresciallo, registrate la telefonata in arrivo sul telefono della signorina Ferrari e localizzate da dove arriva. Veloci!» riaggancio e sorrido a Ginevra che ricambia quasi eccitata all'idea di essere un gancio per un serial killer.


Squilla il telefono, tutto è pronto.


Ginevra respira lentamente e ritmicamente, come in una delle sue lezioni di yoga. «Pronto» risponde alla chiamata con una calma solo apparente. Una voce metallica, evidentemente modificata, interrompe il silenzio tra loro. «Signorina Ferrari, mi dispiace che abbia dovuto inventare un titolo solo per cercare di scoprire la mia identità» esordisce cercando di spaventarla ma lei resta impenetrabile. «Forse, o forse no. Non è un bluff mio caro, ho solo riportato le esatte dichiarazioni del capitano Pellegrini» risponde con un tono autoritario tipico della perfetta giornalista. «Il capitano Pellegrini è troppo coinvolto in questa storia, farebbe e direbbe di tutto per riavere la mia Adele.» Le sue parole quasi mi gelano il sangue. La sua Adele. Devo fermare quest'uomo. «Facciamo così, parliamone di presenza, incontriamoci, mi faccia vedere che Adele sta bene, io ritiro il mio articolo in cambio. Una cosa io, una cosa lei» chiede impugnando una penna sperando che gli conceda un indirizzo. Una risatina prima di rispondere e poi: «Mia cara, stanno per identificare il segnale della chiamata, la devo salutare prima che i miei piani vadano in frantumi, è ancora presto per conoscerci.» E riaggancia lasciando che il suono della linea libera sia l'unico segno percettibile nella stanza.


«Non è finita» cerca di rassicurarmi poggiando una mano sopra la mia e appoggio la schiena alla poltrona concentrandomi completamente sulle ultime parole del killer. Contraggo leggermente la fronte nel risentire le sue parole nella mia testa, forse perché non mi quadra qualcosa se ripenso a qualche particolare del caso. «Vedrai che la troveremo.» Cerca di rassicurarmi, ma non riesce nel suo intento, e lascia il mio ufficio chiudendo la porta alle sue spalle. Qualcuno bussa alla mia porta.


«Capitano! Abbiamo un segnale a circa cinquanta chilometri da qui, il telefono si è agganciato a una cella e l'abbiamo preso un secondo prima che staccasse.» L'annuncio del maresciallo lascia che si scateni in me un brivido di felicità che non posso dare a vedere. Gli sorrido brevemente, un lieve piegarsi delle labbra e un contemporaneo vago distendersi del volto. «Setacciate la zona, voglio tutte le pattuglie impegnate, voglio che Adele stasera torni a casa, adesso!»


In città è piena notte adesso, io e la mia squadra, dieci pattuglie, il comando di Seletino e il papà di Adele siamo sulle tracce del serial killer e di Adele. In simili frangenti il tempo fa la differenza fra la vita e la morte.


Ginevra non ha ritirato il suo articolo anzi, ne ha pubblicato un altro in serata per aizzare ancora di più il killer ed esporsi ancora, fino a farsi scoprire. Abbiamo fermato centinaia di auto da stamattina ma niente che riconducesse ad Adele. Una telefonata mi spinge ad allontanarmi dal posto di blocco e dai colleghi. Dopo qualche squillo, accetto la chiamata. Una voce femminile, tonda, molto gradevole, non troppo squillante, viene fuori da un ambiente molto probabilmente chiuso, ma con qualche vocio e suono di fondo.


«Capitano mi scusi per il disturbo, sono Alessandri, Marta, la tirocinante che lavorava con la dottoressa De Lancia, non vorrei disturbarla...» il suo tono è preoccupato. «Mi dica, sono in servizio...» rispondo sperando che si sbrighi a parlare anche se il tono interrogativo, avendo visto un numero che non conosco, non è sor-preso, come fosse comunque un'abitudine. «Ehm, sì... sì, mi scusi. La disturbo perché stamattina il dottor Deira è venuto in ufficio da noi cercando di entrare nell'ufficio della dottoressa De Lancia perché cercava qualcosa e ovviamente non lo abbiamo fatto entrare...» Un momento di silenzio dopo la risposta della donna, prendo un profondo respiro. 

Il medico legale. Come può essere? Era con noi a ogni ritrovamento e ha seguito lui le autopsie, eppure... «Grazie Alessandri, sono informazioni preziose, non parli con nessuno e mi richiami se succede qualcos'altro. Mi serve un favore...»

La mia voce tradisce una certa ansia nell'esprimere gratitudine e riaggancio dopo avere esposto la mia richiesta, riflettendo per un attimo. Devo restare calmo, freddo e non lasciarmi prendere dal panico. Non posso e non devo chiamare Deira per chiedere spiegazioni, non posso avvisare il maresciallo De Lancia o lo manderò nel panico, non posso fidarmi di nessuno adesso.


Deira potrebbe essere il killer? 


È sembrato da subito interessato ad Adele e lei lo ha sempre rifiutato, anche per un semplice passaggio, se non per quel pranzo che gli ha fatto credere chissà cosa. Qualcosa non torna. Adesso l'unica cosa che devo fare è recarmi in ufficio da Adele e vedere se scopro qualcosa. 


Sono arrivato nei pressi dell'ufficio e, dall'altra parte della strada per l'esattezza, Massimo Conti, il capo di Adele, guarda abbastanza nevroticamente a destra e a sinistra, facendo ora un passo verso una direzione ora verso l'altra: il capo però non è rivolto ad altezza "uomo", ma quanto più verso l'alto, rivolto alle insegne e ai numeri civici del posto. Scuote il capo, contrariato, e abbassa lo sguardo, tirando fuori dalla tasca dei suoi pantaloni il telefono, controlla una cosa e lo rimette via. Di nuovo il capo viene scosso, esasperato quasi dalla situazione. Sono le 23:30 circa, cosa ci fa qui a quest'ora?

Continuo la mia osservazione cercando di non farmi scoprire. Poco dopo sale in auto e sfreccia via. Dovrei inseguirlo ma darei troppo all'occhio, non c'è una sola auto in giro stanotte. Alessandri è vicino alla porta d'ingresso che mi sta aspettando, mi aprirà lei l'ufficio per continuare l'indagine. «Grazie dottoressa, adesso vada, mi aspetti in auto.» E faccio per entrare nell'immenso stabile vuoto e spento. L'ufficio di Adele è in ordine così come lo aveva lasciato, ogni cosa è al suo posto, il pc è spento e le sedie sono riposte con le sedute sotto la scrivania di vetro.


È visibile già entrando, almeno un po', la quantità industriale di libri che affollano la stanza: non solo disposti nelle librerie, ma anche in scatoloni lasciati per terra, sebbene in ordine, dove vi sia spazio a sufficienza. E mi manca. Mi manca moltissimo la sua presenza in quella stanza che profuma di libri e di lei. Accendo il pc e cerco qualcosa di interessante sul desktop per mezz'ora quasi, ma niente. Mi abbandono alla poltrona arreso. Poi un rumore fuori dall'ufficio cattura la mia attenzione, forse la tirocinante sarà venuta a cercarmi.


Spengo il pc e mi dirigo verso la porta quando avverto una voce familiare espandersi nel corridoi o.È quasi mezzanotte, mi chiedo cosa ci faccia di nuovo qui Massimo, il capo di Adele. Apro leggermente la porta e lo vedo entrare nel suo ufficio e lasciare un borsone che sembra essere un po' pesante per terra, mentre è al telefono e discute animatamente con qualcuno. Chiude a chiave la porta e lascia l'edificio sbattendo la porta dietro di sé. Mi avvicino lentamente a quell'ufficio e forzo la porta che sembra avere diverse serrature al suo interno. Quando entro lo scenario è quello di un luogo devastato da un uragano: le librerie sono vuote, la scrivania è un disordine completo, a terra ci sono fogli, fotografie, fascicoli e... quel borsone a terra appena lasciato e al suo interno abbigliamento femminile visibilmente sporco di fango, scarpe da tennis, intimo da donna. 


Mi pare di riconoscere quegli abiti. Sono di Adele.


Rimetto tutto in ordine e mi reco verso l'esterno dell'edificio, Alessandri mi sta aspettando ancora, spero. Chiudo la grande porta di vetro dell'ingresso alle mie spalle e corro verso l'auto che la tirocinante ha lasciato accesa, spero che Massimo non l'abbia notata. «Appena in tempo capitano» mi coglie di sorpresa «il mio capo è strano, consiglio di seguirlo.» Adesso sono certo che Massimo sta nascondendo qualcosa, e avviso le squadre di pattuglia di raggiungerci, intanto. A luci spente iniziamo a seguire l'auto di Massimo che per un po' sembra dirigersi verso casa sua e quindi sembra tutto normale, ma poi imbocca una strada fin troppo familiare per me: la sterrata che conduce al terreno dove è stata ritrovata Alice Cona, seconda vittima del killer.

Tenendoci ad adeguata distanza e prendendo tempo, raggiungiamo il campo che ospita un casale abbandonato. Inoltro la posizione al collega della pattuglia e parcheggiamo l'auto in mezzo agli alberi. Dovrei aspettare l'arrivo dei colleghi prima di intervenire ma Adele potrebbe essere lì, in pericolo. Scendo dall'auto dopo aver ordinato alla tirocinante di non lasciare l'auto e mi dirigo verso l'ingresso. L'auto di Massimo è parcheggiata all'ingresso del casale, tutto è spento e silenzioso attorno a me. Impugno la mia calibro 9 e scruto l'ambiente mentre mi introduco nel casale umido e inquietante. Una musica classica riempie il silenzio facendosi sempre più forte. Sorpasso alcune stanze buie e vuote e arrivo all'ultima in fondo al lungo corridoio che riflette sulle pareti una flebile luce di candela.


Questa piccola stanza, tutta dipinta di un giallo spento e sporco ospita un letto matrimoniale, accuratamente rifatto, che sembrerebbe avere almeno vent'anni, a giudicare dal colorito del legno delle tegole che intravedo, alcune anche spezzate, e dalla ruggine che ha la rete, e proprio accanto alla sua testa c'è sistemato un comodino, con sopra la candela che per-mette a malapena di vedere.


Adele davanti ai miei occhi.


Davanti a lei, un uomo di spalle con i capelli brizzolati, con un vestito elegante. Lo riconoscerei ovunque, è proprio lui, Massimo Conti, in mano ha un coltello che probabilmente vuole usare per minacciarla, ma non per farle del male, non potrebbe. Sono scioccato dalla mia scoperta, il killer è stato per tutto questo tempo al nostro fianco, era a conoscenza delle nostre mosse, dei nostri piani, conosceva i turni di Adele e sapeva che avrebbe trovato lei i bigliettini in bocca delle ragazze. Deira potrebbe non entrarci nulla con questa storia, o forse sì?


Era morbosamente attaccato a lei e dall'inizio la mia presenza lo ha turbato non poco, sapeva che non l'avrei lasciata mai sola quindi la mossa perfetta per lui era un'altra vittima per farmi allontanare e poter rapire Adele. Perché avere paura di lui? L'avrebbe seguito ovunque lui volesse, d'altronde è il suo capo.


Tutto accade molto velocemente, Massimo avverte la mia presenza e si precipita verso di me accennando un sorriso indemoniato, non arrivo in tempo a scansarmi e mi colpisce al braccio sinistro con il coltello, questo "imprevisto" mi fa indietreggiare e mi fa cadere la pistola di mano, che va a sbattere contro il muro finendo ai piedi di Adele, che sembra sotto effetto di droghe, non reagisce e non si lamenta. «Perché stai facendo questo!?» urlo contro Massimo sperando che si penta delle sue azioni ma sembra non voler rispondere. È spaventato. Inizio a sentire il suono delle sirene delle volanti che si avvicinano.


Forse l'ultimo scatto di forza e coraggio spinge Adele, con un impeto di coraggio, vedendolo distratto dalla mia presenza, a colpire il suo rapitore con un calcio facendolo volare a terra, e mentre lui è mezzo stordito riesce a dare un calcio alla pistola che finisce di nuovo nelle mie mani. Il sudore rende ancora più forte il bruciore della ferita sulla testa che mi sono procurato cadendo insieme alla pistola. Il caldo dentro quella stanza adesso è soffocante. Massimo sta tentando di rialzarsi e sta correndo di nuovo verso di me, ma devo difendermi, sta per uccidermi.


Gli sparo alla gamba.


L'uomo a terra agonizzante osserva ancora Adele e chiede il suo perdono. «Io ti amo Adele, tu dovevi stare con me per sempre ma tu non mi hai mai degnato di uno sguardo, io ti amo Adele!!! Ti prego!» mentre i carabinieri intervenuti proprio in quel momento lo ammanettano e lo portano via, verso l'auto.


Sono ancora a terra, sento il forte dolore allo stoma-co e al braccio ma mi precipito lo stesso verso Adele provando a sciogliere le catene che la tenevano legata a una sedia in legno. Non ha più lacrime, è sconvolta, riesce solo a regalarmi uno sguardo commosso e un flebile "grazie" sussurrato al mio orecchio. «Tranquilla. È tutto finito, ci sono io ora insieme a te, torniamo a casa.» Le do un bacio sulla testa carico di amore sperando che aiuti a lenire le sue ferite.


Me ne sto lì in piedi, come se dovessi decidere come reagire, come sfogare quello che ho dentro, come allontanare quei ricordi intrusivi e ossessivi che mi portano lontano, dove non vorrei guardare. Lascio che Adele mi abbracci, è tanto tesa da tremare diffusamente. Vorrei dirle tante cose, urlare tante cose, vorrei buttare via quello che ho dentro, ma è una furia distruttiva che non voglio mostrare, voglio essere l'uomo pacato, controllato e premuroso che lei conosce. Non so cosa dirle: se scusarmi, se chiederle il permesso per sfogarmi, per essere me stesso, per chiederle di non andare via e di non essere arrabbiata se non sono riuscito a trovarla prima di ora, o sentire insieme quella canzone che riservo a momenti come questi per far fluire via il dolore. Trattengo a stento le lacrime mentre la stringo a me, incapace di controllarmi. Poi però abbasso le mani e la allontano dall'abbraccio. «Perdonami...» la supplico, un po' come chiederle di non odiarmi per quello smarrimento che non vorrei sentire, ma contro cui non ho potere. Resta in quell'abbraccio finché non è lei a quella sua specie di promessa o richiesta a far leggermente indietro il busto per guardarmi in viso. Lei ha gli occhi lucidi, arrossati e inumiditi dalle lacrime che, silenziosamente, ancora scendono sulle guance. 

Annuisce a quelle mie parole, annuisce soltanto, guardandomi in viso. Come se stesse ascoltando i miei pensieri e li condivida. Adele sembra terrorizzata dal contatto con un uomo, lo percepisco dal tremore diffuso e dal respiro irregolare, ma ne ha bisogno, ha bisogno di me adesso. Probabilmente ha i battiti molto accelerati (potrei scommettere di sentire il suo cuore pulsare sotto la pelle), la pressione sballata e qualche altro sintomo tipico degli attacchi di panico, compreso il fatto che, probabilmente, si sente la testa come se dovesse svenire da un secondo all'altro, un senso di confusione, di equilibrio precario.

Mi regala, però, un bacio con titubanza da principio, per poi, attimo dopo attimo, trasformandolo in un crescendo di partecipazione, finché riprende fiato, approfittandone per distanziarsi da me di appena mezzo passo, forse, quanto le basta per ritrovare una calma nei sensi che in questo momento sembra essere completamente svanita.

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