Evermore - 𝑆𝑜𝑡𝑡𝑜 𝑖𝑙 𝐶...

By dyrneromance

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Dorothea ha ventiquattro anni e un sogno custodito nel cassetto della sua scrivania, tra bobine consumate dal... More

Disclaimer e Cast -
Intro -
𓆰𓆪
𝐑𝐄𝐂 𝟎𝟏
1 - Universi
2 - Portland, OR
3 - Sciarpe di Lino
4 - 15 years, 15 million tears
5 - Concime per le primule
6 - Tinta sbagliata
7 - Fort Aberdeen
8 - Solo una stupida ragazzina
9 - Abissale
10 - Arvo
11 - In picchiata
12 - Poker e Umiliazioni
14 - Noodles
15 - Ginevra
16 - June Kennedy
17 - La nostra più grande delusione
18 - Buon anno, sorellina
19 - I giardini di Babilonia
20 - Ragno Lupo
21 - Spike
22 - Qui o in camera, scegli tu
𝐑𝐄𝐂 𝟒𝟓
23 - Jack&Rose
24 - Poligamia malfunzionante
Avviso

13 - Nei corridoi del Monev

82 9 17
By dyrneromance

Kilig - è un sostantivo che proviene dalla cultura filippina. È la sensazione delle farfalle nello stomaco quando succede qualcosa di romantico. Può essere usato come aggettivo per descrivere l'euforia di un'emozionante esperienza romantica.

Immagina
di buttarti
a capofitto
nel vuoto
e che ci sia
io
lì sotto
a salvarti.
È questa
la fragile promessa
che vorrei farti.
Di afferrarti
anche quando sarà impossibile.

Non c'è nulla di più familiare dell'avere i piedi sospesi in aria, sentire il vuoto sotto di te e il vento soffiarti in viso a ricordarti che sei vivo. I tenui e sottili raggi solari spirano sulla pelle madida delle tue guance infreddolite, si tuffano e immergono nelle tue iridi che, a causa di tutta quella luce, appaiono cineree e vuote. A circondarti è la natura, i fiocchi di neve che lenti cadono sul suolo, adagiandosi come addormentati dal cullare di una raffica effimera di venti bisbiglianti.

Se ti sporgi di poco, allungando quanto basta la mano alla tua sinistra, potresti sfiorare la punta spigolosa di un pino verde ricoperto di polvere candida, facendone cascare un po' sui capi di persone che, dal basso, guardano con il naso all'insù le suole dei tuoi scarponi.

Ma poi, invece, dal freddo pungente che circonda metà del tuo corpo, vieni catapultata nella bocca di un vulcano in eruzione, fumante e sgorgante di lava e magma fuso che lentamente scendono fino a raggiungerti, bruciandoti corpo e anima.

Quel pomeriggio si erano ritrovati sulla funivia panoramica dell'Heavenly quasi senza rendersene conto, ad ammirare le viste panoramiche sul lago, scendendo lungo sentieri escursionistici di ogni tipo, circondati come al solito dalla comune flora del posto.

E la cosa più strana era che, a proporre di andare lì, fosse stato proprio lui.

Accadde che quella mattina il gruppo si era svegliato particolarmente tardi. La sera prima avevano tardato perché tra alcool e poker si erano diretti a casa abbastanza tardi da impedire di svegliarsi presto il mattino seguente. 

Quel giorno gli unici mattinieri furono Dorothea Adams e Oakley Sullivan. L'aveva trovata sulla veranda, nel retro della casa, stretta nel pigiama caldo e avvolta da una coperta di lana a quadri, con le mani ai lati di una videocamera che teneva in alto, con l'occhiello aderito all'occhio destro e l'altro socchiuso a metà. La mano dominante maneggiava con le dita il bordo dell'obiettivo, l'altra manteneva l'aggeggio in un modo che a lui parve professionale. 

Dorothea lo notò subito, nell'esatto istante in cui mise piede fuori per avvicinarsi e capire cosa stesse facendo. Anche lui si stringeva nei propri indumenti ma, a differenza sua, sopportava il freddo più di quanto avrebbe potuto immaginare.

«Fai silenzio.» Le venne da ordinargli e, chissà per quale ragione o miracolo, le uscì meno arrogante del solito. Per questa ragione lui non se lo fece ripetere due volte, lasciandola rientrare nella stessa concentrazione in cui era immersa secondi prima, seguendo con lo sguardo la direzione in cui puntava con la videocamera. 

Da lontano, forse qualche chilometro, riuscì a scorgere una chiazza bruna in mezzo alla neve alta. Era un cervo, così gli parve, perché la distanza giocava a suo sfavore nel riuscire a distinguere meglio l'animale. Aveva il capo chino e il muso immerso nelle erbacce che circondavano un sempreverde all'inizio della boscaglia. Osservò Dorothea premere un sensore che permise all'obiettivo di prolungarsi in avanti, di qualche centimetro, riuscendo a inquadrare alla meglio il primo segno di fauna di quella zona innevata di Tahoe.

Quando lei gli porse la macchina fotografica, Oakley si rese conto che in realtà si trattava di una videocamera vecchio stile, probabilmente di qualche decina di anni prima. La grana non era delle migliori però era proprio quella a donare bellezza alle immagini che, nello schermo piccolo dalla superficie un po' consumata, seguivano a muoversi trasmettendo più intimità di quanto ti saresti aspettato.

«Ha più anni di te.» Fu la prima cosa che sentì di poter dire alzando di nuovo lo sguardo verso l'animale che ormai si allontanava ad ovest. Dorothea non ci mise molto a rispondere, volendo giustificare qualcosa di cui non aveva colpe.

«Era di mia madre.»

«Già...», mormorò lui sottintendendo di averlo capito da solo. La rigirò tra le mani, osservandola come per cercare qualcosa di perduto, poi se la portò davanti al viso proprio come aveva fatto lei minuti prima. Provò a scorgere meglio il soggetto da lontano ma la massa che prima gli sembrava definita e uniforme, anche dal binocolo appariva piuttosto indistinta. L'attimo dopo, senza pensarci nemmeno troppo, direzionò obbiettivo e busto dall'altra parte del panorama. 

La inquadrò così improvvisamente che le ci vollero degli attimi per rendersene conto. Il viso di Oakley si vestì di un tessuto setoso e drappeggiato lungo gli angoli della bocca rosea, incapace di contenere il sorriso divertito che gli si cucì alla vista della reazione della ragazza. Dorothea sapeva che l'avrebbe fatto, era come se parte di lei riuscisse a prevedere le mosse che la mente di lui avrebbe iniziato ad ideare. Proprio per questo motivo, fece cadere le spalle che prima stringeva irrigidita, così come la sua espressione che si rilassò arresa nel guardarlo riprenderla.

«Molto divertente.»

«Non parlare che rovini il video.» Ma spazientita gli tolse l'aggeggio dalle mani, mise in pausa il video e spense la videocamera. Oakley alzò gli occhi al cielo pensando a quanto suscettibile potesse essere la ragazza, la quale poi prese a parlare confutando il pensiero, quasi come se gli avesse letto la mente.

«Mi consumi le cartucce.»

Con gli sguardi distolti gli uni dagli altri, continuarono a parlare. Le mani di Oakley reggevano il peso del corpo strette intorno alla balaustra in legno mentre osservava l'infinità innevata e sentiva la ragazza muoversi accanto. Lei si appoggiò accanto a lui, dando le spalle al paesaggio che si perdeva all'orizzonte, mentre in cuor suo voleva e sperava di riuscire a dire qualcos'altro.

«Qui non c'è molto da riprendere.» Lui annuì concorde mentre l'ascoltava aggiungere che sarebbe stato bello andare al lago pur essendo piuttosto impossibile date le precipitazioni.

«Già.» Sospirò lui, guardandola di sbieco con occhi pensierosi. «Però...ho un'idea.»

E ora sedevano con la brina a soffiare i loro visi dalle punte dei nasi tinti di polvere rosa, mentre indecisi si chiedevano se guardare il panorama circostante o quello seduto accanto. Faceva freddo ma non ne percepivano affatto. I lievi raggi solari infiammavano ancor più i loro corpi vicini, troppo vicini, stretti l'uno all'altro dal minimo spazio offerto dalla gondola.

«Che te ne pare?» Le aveva chiesto guardandole il profilo, gli occhi della ragazza scrutavano l'orizzonte che si avvicinava mentre le sue mani erano ancora strette alla videocamera accesa ma che non registrava ancora. Furono i gesti di Dorothea a rispondere qualche attimo dopo: come un deja vu, Oakley la osservò riprendere il panorama, catturando con lo sguardo il capolavoro nell'opera. Pensò a quanto fosse bella e fragile allo stesso tempo, a come avrebbe voluto dirglielo, consapevole che mai sarebbe successo. 

Lei tremava tanto per il freddo quanto per l'agitazione: ammetterlo sarebbe stato inutile perché le era sempre stato ovvio l'effetto che Oakley le faceva. Era affascinante e la sua intelligenza gli faceva da accessorio. Per quanto la maggior parte delle volte la irritasse, non poteva essergli indifferente.

Gli aliti caldi entravano in contatto con la temperatura bassa creando una gelida bruma che si schiantava contro i loro volti e, in quell'atmosfera, nient'altro sembrava esistere al di fuori di loro due. Sorrideva vendicativa dall'altra parte della videocamera e lui ricambiava da finto arreso, per nulla infastidito.

«Non mi pesa essere filmato.» Sorrise fiero mettendosi in posa, mostrando il viso volto a tre quarti verso l'orizzonte. Le scappò una piccola risata soffocata e nascosta da uno sbuffo, allora abbassò l'oggetto e gli alzò il dito medio.

«Non c'è più gusto allora.» Si scambiarono un ultimo sorriso prima di tornare a bearsi di ciò che li circondava. Dorothea riprese tutto, alzava e abbassava la luminosità della lente, zoomando all'indietro per mettere a fuoco l'immagine di una folla in lontananza solo per tornare punto e a capo una volta inquadrata una mano che si avvicinava all'obiettivo, mettendo in crisi il fuoco dell'immagine. 

«Devi proprio rovinarmi la ripresa?» Gli disse abbassando l'apparecchio per guardare meglio l'uomo al suo fianco. In mano, tra l'indice e il pollice, teneva una foglia d'acero quasi rinsecchita che prese a scuotere di qua e di là sul volto della ragazza.

«Guarda che stai riprendendo me, non te stessa.» Le disse in un tono abbastanza derisorio da far intendere che neanche lui credeva alle sue stesse parole e Dorothea lo capì, alzando gli occhi al cielo per nascondere un lieve sorriso divertito.

La videocamera venne riposta nella custodia ed entrambi i ragazzi poterono godersi la vista che si estendeva man mano dinanzi a loro. L'uno accanto all'altra non percepivano affatto il gelo invernale, si tenevano caldo a vicenda in quel posti striminziti, avvolti da indumenti in eccesso. Oakley arrivò a pensare impulsivamente di togliersi il giaccone o i guanti, così avrebbe avuto modo di sfiorare la sua pelle un'altra volta. E magari senza intoppi di mezzo.

«Sei agile per la tua corporatura.» Quel pensiero gli uscì ingenuo dalle labbra quasi violacee, tinte di un colore simile a quello che dipinse le guance della ragazza al suo fianco. Dorothea si accigliò voltandosi per guardarlo.

«Che significa?»

«Quando ti ho riaccompagnato dal Wondermust, quella sera.» Spiegò guardando il cielo nuvoloso. «Avresti potuto spezzarmi il polso.» Dorothea ridacchiò tra sé e sé, pentendosi subito dopo aver incrociato uno sguardo quasi accigliato che tradiva l'irritazione. Eppure, ad Oakley la voce uscì calma e bassa. «Fai lezioni di difesa?»

«No.» Gli rispose lei, scuotendo la testa mentre gli occhi le cadevano giù, oltre i loro piedi sospesi. «Mi sono sentita minacciata, è stato l'istinto.» Oakley la osservò annuendo lievemente, gli sembrò stupido da parte sua il comportamento di quella sera passata.

«Mi dispiace che tu abbia pensato che avrei potuto farti del male.» Si voltò in fretta a guardarlo, con lo sguardo di chi cerca vera sincerità negli occhi degli altri e non mere parole messe lì, a caso. «Non ho pensato che ti sarebbe potuto sembrare strano.»

«Perché, per te non lo era?» Lo stava prendendo in giro cercando di sdrammatizzare, ma lui non lo capì.

«Non nel senso che sono abituato a spaventare le donne.»

«E in che senso?» Dorothea lo guardò con occhi grandi, pieni di domande, come chi è sicuro che ci sia dell'altro e ha l'impellente necessità di sapere. Oakley se ne accorse e gli venne da sorridere e lo fece, ma solo perché non riusciva a trovare un modo per far uscire quelle parole dalla sua mente, possibilmente nel modo più comprensibile. Poi decise di usare la strada più semplice: quella della sincerità e della schiettezza.

«Alcune volte, quando ti guardo, sento come se ti conoscessi da sempre.» Non aveva bisogno di dare spiegazioni o di dire altro, lei lo aveva capito ancor prima che lui potesse rendersene conto. E glielo leggeva negli occhi, che aveva appena dato voce a pensieri che condividevano, lo vedeva nel modo in cui lei aveva leggermente incurvato le sottili sopracciglia, nel modo in cui le sue pupille, ancora una volta, gli imploravano di urlare di starsi zitto all'unisono. «Sono passati anni dall'ultima volta che ci siamo visti, eppure hai qualcosa di familiare.»

Dorothea sospirò profondamente, rilasciando aria calda e vapore dalle labbra screpolate dalla temperatura. «Alcune volte penso che tu riesca a malapena a sopportarmi.»

«Alcune volte è così, ma credo tu sappia il motivo.» La interruppe guardandola un'ultima volta, prima di voltare il viso lungo la discesa che calava sotto i loro corpi, concentrandosi su altro. Lei lo imitò, ma solo dopo essere rimasta a guardare per un po' il suo profilo. Le guance si vestirono di rosa ma non le importò molto perché in quel momento, in lei, si fece largo la solita piccola goccia di coraggio che aveva ereditato dal padre.

«Non vivo nella tua testa, spero tu lo sappia.» Gli disse e lui non ci mise molto a rispondere.

«Quello che mi hai detto nella serra mi fa pensare di sì.»

E prima che lei potesse replicare, proprio come succede nei film, il cellulare di Oakley squillò, interrompendo qualcosa che avrebbe potuto scombussolare i paradigmi.

Sulla strada di ritorno, l'auto non era mai stata così silenziosa seppur occupata da personalità come quelle di quei due. La doccia calda, sotto cui si erano catapultati ancor prima di riuscire a salutare tutti, era servita a scrollare via freddo e torpore. Forse evitare quel discorso era stata la scelta più saggia, quel momento sarebbe potuto essere perfetto se, di base, ci fossero stati veri argomenti su cui discutere. Perché alla fin fine non ce n'erano. Non erano nulla, l'uno per l'altra. Era semplice chimica che andava tenuta a bada per il bene di entrambi, ma il cui equilibrio fu messo a rischio quella stessa sera.

Erano le undici passate quando uscirono di casa in gruppo per dirigersi al Monev Nightclub. Non le andava proprio a genio trovarsi in una stanza piena di gente ubriaca e sconosciuta, proprio per questo Tyrone le aveva quasi implorato di andare, promettendole che l'avrebbe lasciata in pace per il resto del soggiorno. Lizzie e Ginevra, che erano state fuori casa l'intera giornata, si erano date ad uno shopping pazzo e sfrenato. 

A rigor di logica, Dorothea sospettava che le avessero comprato quei pantaloni dato che non c'era alcuna possibilità che il fisico sodo e muscoloso di Lizzie entrasse nei pantaloni che lei le aveva gentilmente "prestato". Si strinse nel suo cappotto nero e in quei pantaloni in pelle esageratamente attillati mentre la macchina viaggiava in direzione ovest lungo lo stradone innevato.

Dai sedili posteriori guardava nello specchietto sinistro il riflesso dell'uomo che qualche ora prima le aveva tenuto compagnia fisicamente ma che non abbandonava mai i suoi pensieri.

Minuti dopo entravano in un locale colmo di persone di ogni genere che sembravano non avvertire le basse temperature. Forse ci voleva più di qualche secondo per abituarsi allo sbalzo di temperatura, eppure Dorothea non poté fare a meno di battere i denti e stringersi nel dolcevita nero mentre osservava un gruppo di ragazzi in calzoncini e minigonne passarle accanto sotto lo sguardo divertito degli amici di suo fratello.

Ad accoglierli c'era un corridoio lungo con un bodyguard che dava loro indicazioni su dove riporre i loro oggetti personali, ma nessuno di loro se la sentiva di lasciare le cose lì, totalmente incustodite. Quando furono nella sala principale, musica commerciale remixata iniziò a riecheggiare intorno a loro. Erano stati prenotati due divanetti sul lato che più distanziava dalla pista da ballo. Da lì si poteva vedere tutto l'ambiente, i più annoiati avrebbero potuto tranquillamente contare ogni persona presente quella sera.

Dorothea sedette accanto alle altre due donne, ma quando Lizzie si sporse per chiederle se volesse unirsi a loro, non colse subito le parole. Si lasciò trascinare al bancone per prendere dei drink, ignara di dove fosse finito il resto del gruppo.

Bevvero, tanto ma non troppo. Il gruppo era su di giri ma ognuno sapeva accantonare la sbronza al momento giusto. Di tanto in tanto si perdevano di vista mentre i due tavolini a loro assegnati si riempivano man mano di calici e bicchieri vuoti.

Nemmeno a due ore dal loro arrivo c'era il caos più totale. Ginnie rideva a crepapelle alla sua destra mentre cercava di capire per l'ennesima volta cosa Paul cercasse di dirle. Non riuscivano a scambiarsi mezza parola, per farlo era necessario raggiungere l'imbocco per il corridoio del bagni, che si trovava dal lato opposto della stanza.

Dorothea si sentiva molto più a suo agio in quel posto dato che non era l'unica ragazza presente relativamente più giovane. Si concesse un drink, in altri contesti avrebbe evitato per paura di ricadere in un vecchio errore, e non se ne pentì dato che quel poco di alcool le aveva permesso di legare molto di più con Ginevra e Annalize. Quest'ultima le chiese di farle compagnia in bagno, rilegando a Paul il compito di badare a Ginnie. 

Da lontano, a qualche metro di distanza, due occhi verdi tenevano sotto controllo la situazione perché, come suo solito, Oakley nemmeno quella sera riuscì a lasciarsi andare abbastanza da potersi fidare della sua stessa compagnia. Tyrone cercava di spronarlo a rilassarsi, leggeva nel tratti del suo viso una tensione estranea. Il dubbio lo spinse a chiedergli se si sentisse bene, domanda a cui l'amico annuì semplicemente.

La verità era che Oakley era troppo intelligente e pacatamente astuto e l'avere vista e udito vigili gli era stato utile anche quella volta. Non avrebbe potuto spiegarglielo in quel momento, non voleva alimentare la tensione tra Tyrone e l'altro uomo. Ma quella strana sensazione gli si arrampicò su per lo stomaco. O forse era solo l'alcool. Ma il dubbio c'era e non poteva far finta di nulla, quindi agì silenziosamente.

Vestiva di un certo fascino quella sera. Non lo avrebbe mai ammesso perché l'ultimiltà ha un certo valore, eppure alcune donne avevano provato ad appocciarsi fallendo miseramente, attratte da quel sorriso che di rado rivelava e dallo sguado che, nel buio di quel locale, sembrava di un grigio intenso. Allora si scusò con una certa Jessie che gli si era aggrappata al blazer sportivo che indossava, lasciandosela alle spalle per seguire parte del gruppo. Di Tyrone e Paul non c'era più traccia, Ronnie gli passò accanto mentre remava in quella marea di gente, per poi sparire di nuovo.

In corridoio si respirava un'aria più fresca, probabilmente l'aria proveniva dalle finestre aperte nei bagni. Dorothea si appoggiò con la spalla destra al muro, Lizzie la imitò dell'altra parte, sorridendole con occhi umidi di ubriachezza.

«Credo di aver perso un quarto di udito.» Rise contagiando Dorothea. Aveva i capelli biondi un po' arruffati e il rossetto leggermente sbavato, ma la mora decise di non dirle nulla perché sapeva che se ne sarebbe resa conto da sola una volta in bagno. La fila iniziò a scorrere e più si avvicinavano più avvertivano un'aria fresca stranamente gradevole. «Dopo ho bisogno di prendere un po' d'aria, questa non mi basta.»

Quando finalmente l'ultima ragazza uscì dal bagno, Annalize chiese a Dorothea di reggerle il suo Long Island mentre si sbrigava. Rimase sola nel corridoio, l'unica persona presente era un ragazzo un po' troppo annoiato che aspettava impazientemente fuori dalla toilette degli uomini.

Tirò un respiro profondo chiudendo gli occhi stanchi. L'alcool le faceva da sonnifero, che ne bevesse molto o poco nulla cambiava. L'unica cosa che avrebbe potuto risvegliarla era una tazza fumante di caffelatte, preferibilmente amaro.

E invece no.

A risvegliarla, seppur malauguratamente, fu la voce di chi era costretta a sopportare da ormai quasi una settimana. Biascicava ma riusciva a reggersi sulle gambe troppo poco robuste per essere quelle di un Sergente. Sicuramente aveva bevuto più di lei, forse più del gruppo stesso, ma ciò non face altro che accentuare quella personalità altezzosa fin troppo poco apprezzata da i suoi stessi simili. Si maledisse per non essere entrata in bagno con la cognata e nei minuti seguenti maledì con più ardore l'uomo che in quel momento la affiancò.

«Adams...», si costrinse a non guardarlo, puntò gli occhi fissi davanti a sè mentre lo sentiva avvicinarsi pian piano a passo pesante. «Ti stai annoiando, vero?» Continuò ma lei non gli rispose, sperando solo che chiudesse il becco e che il ragazzo che era appena entrato e occupava il bagno si sbrigasse il prima possibile. «Questa merda di musica mi sta facendo scoppiare la testa...».

Dorothea alzò lo sguardo per osservarlo appoggiarsi pigramente al muro. Sembrava avesse le guance scottate dal sole e gli occhi imbevuti di rugiada, la loquacità traeva in inganno e i suoi movimenti a rilento gli davano un'aria assolutamente goffa. Le venne quasi da ridere mentre la fiancheggiava inclinando all'indietro il capo, come se stesse cercando sollievo a tutto quel peso insostenibile. Immaginò che gli dolessero le tempie, non poteva essere possibile che in quella testa ci fosse un carico così pesante da schiacciargli il collo.

«Non credo che il problema sia la musica.» Le uscì sincero, un po' canzonatorio.

«Guarda che non ho bevuto più di quanto lo abbia fatto tuo fratello, che tra l'altro non riesco a trovare in mezzo a quel casino.»

«Sembrano essere evaporati tutti.»

«Beh, io e te no.»

Non gli rispose perché sentiva che, se lo avesse fatto, si sarebbe addentrato oltre il recito di sicurezza della sua mente - su cui, tra l'altro, aveva affisso un cartello enorme che vietava l'accesso ad Alex Fassbender e compagnia. Si limitò a tornare sulle sue, standosene zitta e sbirciando sul cellulare l'orario sbagliato che ancora segnava le ore australiane.

«Puoi anche smettere di far finta di non sopportarmi.» Fulmine a ciel sereno, qualcuno avrebbe dovuto seriamente suturare la bocca di quell'uomo. Dorothea si voltò di scatto con la fronte corrugata e una voglia matta di dire «Non ho bisogno di sforzarmi così tanto.» 

Ma non lo fece perché Alex non le diede modo di dirlo. La costrinse a fare tutt'altro mentre, da che era al suo fianco, le si parò di fronte quasi a sovrastarla. Era alto tanto quanto il suo ego, nonostante le spalle strette e il corpo sottile riusciva a incuterle un po' di timore per il semplice fatto di essere un uomo. Perché lui si sentiva uomo e lei, in quanto donna, in quanto ragazzina non aveva alcun potere su di lui. Poteva soggiogarla, convincerla in qualsiasi modo, sottometterla e arrivare a farsi implorare per un po' di attenzione. Questo pensava, di questo era convinto, su questo si sbagliava.

«Ti stai avvicinano troppo.»

«Lo so, non fingere che ti dispiaccia.»

«Allontanati, sei ubriaco.»

«Se non lo fossi cambierebbe qualcosa?»

«Ti sto avvertendo.» Lo stava avvertendo ma non le dava ascolto. Era così vicino a lei da lasciarle sentire l'odore alcolico nel suo respiro. Le sue guance si tinsero di un rosso acceso, proprio come lui. Dorothea provò a svincolarsi di lato ma il tentativo fu arrestato dalla gamba sinistra di Alex che si allungò e piegò abbastanza da riuscire a impedirle di andare via. Era in trappola, poteva tentare.

«Solo uno...», cominciò ad implorare toccandole l'avambraccio esile. Non era un tentare, era divenuto un istigare. Il suo volto ad un soffio dal suo la disgustava. Odiava la sensazione di caldo secco che avvertiva quando le stava così vicino, era opprimente, si sentiva claustrofobica e col fiato fermo in gola dal profilo di Alex che si insinuava tra i suoi capelli. «Giuro che non ne farò parola con nessuno, Tyrone compreso.»

«Smettila.» Le tremava la voce, non dalla paura ma dalla rabbia, dal fremito che sentiva formicolare dalla punta delle dita dei piedi fin su, lungo le cosce e poi, come un pugno, nello stomaco e ancora nel petto e le braccia, nei palmi delle mani e nelle dita strette in pugni dolenti. L'altra mano, quella di Alex, avida sul lato del collo mentre le sussurrava un «Dai» supplichevole come ad anticipare quello che sarebbe successo tre attimi dopo, quando il destro freddo e spigoloso di Dorothea gli colpì lo zigomo sinistro, spostandogli il volto verso destra e costringendolo a grugnire quasi in modo animalesco.

Non sentiva più nulla, più nessuno, non vedeva nient'altro che la parete del muro di fronte. Sentì dei lamenti in sottofondo sovrastati dalla musica che intanto si era fatta avanti ancora più rumorosa lungo il corridoio. Non vide nessuno, finse di non vedere Alex strisciare lungo la parete e accasciarsi per terra con metà volto tra le mani. Finse di non vedere Annalize che in quel momento era uscita dal bagno con un sorriso ignaro sul volto, che le si spense davanti a tale confusione. 

Finse di non vedere Oakley che, silenzioso come un giaguaro in agguato, passò in rassegna la scena. E sul suo volto fu chiaramente leggibile la preoccupazione nei confronti di chi trovò al posto di Dorothea. Non era la stessa ragazza di mezz'ora prima, quella con l'espressione volutamente imbronciata. Stava lì ferma, lo guardava inorridita, spaventata, infuriata, rinfrancata dal suo arrivo. Voleva andare via da lì, non avrebbe mai dovuto seguirli in quel posto. Non avrebbe mai dovuto guardare al lato positivo della serata perché non ce n'erano di lati positivi. 

Aveva freddo, non le piaceva l'alcool, odiava Alex, odiava le sue mani su di lei, odiava Tyrone per averla convinta con costrizione, odiava Annalize per averla lasciata nel corridoio da sola, odiava i suoi genitori e il loro modo di comportarsi come se di mezzo non ci fosse un divorzio, odiava l'America, odiava se stessa per aver scelto di essere se stessa.

L'unica cosa a non odiare, l'unica persona che si concesse di non odiare, fu proprio lui.

Oakley, che le afferrò il polso e la trascinò via con sé.

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