Kiribaku One Shot

By eris_lunaa

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One shot Anime manga. Kiribaku ⚠️ SMUT More

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By eris_lunaa

...continuo...

Quando ero piccolo pensavo che gli altri avessero il cuore di polistirolo. Mi dicevano che ero come un fiore di marzo, bello e fragile, anche se di bello avevo solo la bellezza della mia stessa fragilità, perché aveva il potere di farmi provare emozioni che credevo perdute. Ero un piccolo marmocchio che si perdeva nella sua testa e non sapeva mai dove. Mai.

Quando ero bambino credevo veramente che gli altri avessero il cuore di polistirolo. Lo immaginavo ancora a vent'anni. Però, Kirishima che dormiva sul mio letto, con la febbre e col panno sulla fronte, iniziai a pensare che il suo non era fatto di polistirolo, né di carne. Era fatto di gentilezza. Così tanta gentilezza da esserne sensibile e rivoltarsi contro se stesso, a volte.

E non avevo mai avuto il piacere di vedere o sentire così tanta grazia. Tanto silenzio. Tanta bellezza...

Era lui al momento, il fiore di marzo.

I capelli gli dondolavano davanti le ciglia. Osservavo i suoi dettagli, qualunque, e poi, lo riportavo sul foglio. Ad ogni posizione che cambiava durante il sonno, io la raffiguravo. Avevo perso il conto di tutti i pezzi di carta conservati sul cassetto dove il suo viso ne era il protagonista, insieme agli altri.

Ogni singolo momento avevo la voglia di alzarmi, andare lì, e di accarezzargli il viso. Ne avevo una voglia matta.

Pensai che non si sarebbe svegliato se l'avessi fatto. Stava dormendo profondamente, e neanche il rumore della pioggia l'aveva turbato, al contrario di me.

Detestavo profondamente i rumori, non riuscivo a sopportarli. Certe volte non riuscivo a sopportare neanche il rumore della matita sul foglio. Da lì ho cominciato ad ascoltare le canzoni metal, sovrastavano qualsiasi frastuono e lo dilaniava.

Tutto per me faceva chiasso, persino i miei stessi battiti del cuore. Però quando Kirishima era accanto a me, chissà perché, la profondità degli strepiti, si dissolveva quasi del tutto.

E mi ero già alzato da quella seggiola. L'unica fonte di luce era una lampadina che mi accompagnava quando disegnavo, riuscivo ugualmente a vedere perfettamente ogni lineamento che lo valorizzava.

La mezzanotte cominciava a farsi sentire sulle mie palpebre, ma non m'importava. Volevo sapere cos'era la sensazione della pelle oltre le mani. Mi sedetti sul materasso. Lui aveva la bocca leggermente socchiusa, e si intravedevano i suoi denti un po' più appuntiti del normale.

Gli accarezzai le guance accaldate. Gliele lisciai con la delicatezza che posseggono solo le ali delle api, e il sapore del miele. Non c'era molta luce che lo illuminava, però, il colore di quelle goti arrossate era impresso nella mia mente.

Forse la finezza non bastò. Aprì gli occhi. Si vedevano solo due fessure, e mi guardava come se ci fossero le stelle nella stanza.

«La febbre è abbassata, però sei ancora un po' accaldato.» Cercai una scusa, ed ero bravo a mentire, le mie espressioni non mi contraddicevano mai, ma il battito del cuore, sempre.

Nonostante questo, avevo la sensazione che lui non avesse creduto alla mia scusa.

Una volta mi chiamò "Bakugou Katsuki Anti-sgamo", un nomignolo che non mi si addiceva minimamente, ma detto da lui sembrava veramente che le bugie che dicevo mi si sgretolassero davanti, da renderle evidenti come un pennarello rosso su un foglio di verifica.

«Stavi controllando la temperatura della febbre... dalle guance? Accarezzandomi le guance? Anti-sgamo, Bakugou.» Sogghignò e questo mi fece arrossire e balzare. Non amavo che le persone mi contraddicessero.

Però, cazzo, lui aveva ragione.  Aveva fottutamente ragione e io non sapevo come controbattere, perciò, tirai la prima cosa che mi passò per la mente in quell'istante.

«Non chiamarmi così, vaffanculo! Cioè, la fronte era coperta dai capelli, e.. non volevo disturbarti e la guancia era a portata di mano. Voglio dire... scusami, non avrei dovuto importunati.» Borbottai ad ogni singola parola ed ero così stupido e impacciato, che era impossibile non ridere, infatti, lui stava ridendo.

Questo stronzo!

«Sta' tranquillo, non mi hai importunato. In realtà ero più qui che lì. La febbre è scesa?»

...Che diavolo avrei dovuto rispondere? Io mica gli avevo davvero misurato veramente la febbre a questo!

«Sì(?)» Avevo finito la frase con un tono interrogativo, e me ne accorsi dopo. Avrei voluto darmi tanti di quegli schiaffi da farmi saltare la mandibola.

«Sì...? Si tratta di un "Sì?" o di un "Sì"?»

«Sì. La febbre è abbassata.»

«Sicuro? Perché non mi sento un gran...».

«Cazzo, è abbassata!» Non alzai il tono di voce di tanto, ma era una delle poche frasi in cui ero riuscito ad esprimere almeno un minimo di colore. Non era uno dei miei colori preferiti l'arancione (il nervosismo), ma era un colore, e bastava questo.

«Okay, va bene....Di quanto?»

«Cosa?»

«Di quanto è abbassata? Di tanto o di poco? Sono caldo o sono più freddo di prima?»

«Kirishima, finiscila! Non ho idea di quanto ti sia abbassata la febbre. Rimettiti a dormire. Domani mattina ti si abbasserà sicuro.»

«Vedi?! Mi stavi accarezzando!»

«Io me ne vado»

«E dove? Abiti in un monolocale»

«Sei... Sei fastidioso! Dormo nella vasca  se continui».

No, non era vero. Non era fastidioso. Non so se riuscirò mai ad ammettere cosa pensavo in quel secondo di Kirishima Eijiro, ma era tutto, tranne che fastidioso. Proprio lui, non mi dava fastidio. Tutto, ma lui no.

Passò il silenzio e sembrava un vecchio amico, ci tappava la bocca e non provavamo nemmeno a sconfiggerlo, almeno io. Tenevo lo sguardo basso, Perché sapevo che se mi giravo lo ritrovavo a guardarmi gli occhi. Gli piacevano così tanto i miei occhi perché diceva che erano uguali ai suoi. Probabilmente era vero. Anzi, sicuramente era vero, ma come sempre la mia voglia di non ammettere le cose era intrepida e come un frastuono travolgeva la verità.

Gli diedi un'occhiata sfuggente, e mi diede l'impressione che la luce che marchiava le sue iridi, non avesse la minima paura di affrontare una guerra. Se avesse visto dinamiti e proiettili, loro non avrebbero il coraggio di passare sopra a quel bagliore.

Provai ad alzarmi, ma mi prese la mano. Per istinto la tirai, e per la prima volta fui io a chiedere scusa.

«Sono io a doverti chiedere scusa, ho agito senza pensare, perdonami.»

Non provai a controbattere, era una cosa monotona ricevere le scuse di Kirishima, eppure non le accettavo mai quando erano insensate.

«tu es magnifique ce soir» Parlò in francese, ed era evidente che stesse delirando a causa della febbre e dell'effetto di lieve sonnolenza che dava la melissa.

«Non capisco un'emerito cazzo di francese, e lo sai»

«Je sais, mais tu es vraiment belle et je ne peux pas m'empêcher de te parler dans cette langue pour te séduire»

«Stai farneticando»

«je pense que je t'aime» buttò un sospiro dopo averlo detto ma non gli diedi peso.

«Cazzo, Kirishima, non ti capisco! Parla la mia lingua.»  Spostò le coperte e si sedette vicino a me. Non disse assolutamente niente, e nemmeno io. Stavo cercando di capire solo che stesse cercando di fare. Mi guardava come un cerbiatto e lentamente con lo sguardo e la mano rivolta alla mia, mi chiese se potesse prendermi la mano. Non potei fare a meno di annuire.

Cosa avrei dovuto fare? Anzi, Cosa non avrei dovuto fare? Mi sentivo più sensibile, era impossibile negare oramai quel contatto, credo. Non avrei immaginavo che un giorno qualcuno mi avrebbe toccato con tale facilità.

«Ti dà fastidio il mio tocco?»

Negai all'istante.

E allora lui, con l'altra mano, mi accarezzò la guancia, con più gentilezza di come io avrei mai potuto fare.

«E ti dà fastidio... quest'altro tocco?»

Negai.

«E... questo?»

Si avvicinò col volto, lento, e io lo guardavo, indifeso come Bambi nel bosco durante la sua prima pioggia senza madre. Non mi toccò, ma nemmeno un millimetro distava dalle nostre labbra.

«Questo può darti fastidio?» I nostri nasi si carezzavano e mentre mosse la bocca riuscì a sfiorare la mia.

«Non... lo so»

«Se ti dà fastidio non non impiegherò un'istante a staccarmi»

Non mi lasciò rispondere. Non mi stava baciando, mi stava sfiorando. Era impercettibile la sua pelle, e tentennava ad approfondire quel bacio. Sentivo il suo respiro, più che altro, ed era flebile. Sembrava una carezza, e anche le carezze sono pungenti, se date dalle spine.

Appoggiai delicatamente il palmo sulla sua spalla e lo scansai gentilmente.  Era facile ferirlo e non era quello che volevo. Era egoistico, ma non volevo ferire nemmeno me.

C'erano due tipi di rosso.

Rosso di rabbia, e rosso d'amore.

Quale diavolo avevo davanti?

Ferire qualcuno vuol dire rabbia incanalata tra due sponde di cicatrici immateriali.

E io volevo il contrario.

Ma quel rosso era talmente acceso e presente che non avevo idea che cazzo fosse quel fuoco.

«Ti sei trasformato in poco tempo dall'uomo che rifiutava di tendermi la mano, all'uomo che con la sua, adesso mi accarezza l'anima. Non frantumarla più di com'è già ridotta»

Non era quello che volevo fare.

Ma mi era impossibile comprendere esattamente il modo in cui dovevo reagire.

Aveva cambiato espressione in poco tempo. Gli occhi trasparenti, come se avessero appena scavato dentro egli, così tanto da prendere il colore delle emozioni vere e proprie.

Era così bello anche così, che per un secondo temetti che nelle sue vene scorresse il sangue degli dei.

Sentivo il viso bagnato, e le lacrime stavano varcando le ciglia. Ogni mia percezione era sparita Sentivo solo rosso. Era tutto dannatamente rosso, cazzo, e non distinguevo altro.

Guardavo un punto indeterminato nella stanza, comunque, era sfocato. Le lacrime sembravano incanalarsi nei polmoni e stringerli come catene.

Capivo che mi stava asciugando le lacrime e scommetto che avevo quella solita faccia colma d'apatia.

«Prima, avevo detto... che credo di amarti. No... ne sono certo, al cento per cento. Ti ho sfiorato le labbra e mi è bastato solo quello per capire. Ti prego, dimmi che è lo stesso per te...»

Non lo so.

Non so niente.

Come si fa?

Come si capisce di amare una persona?

Cosa senti?

Cosa si prova?

Rosso. Cos'è? Qual è dei tanti? Sembra fuoco...

«Io... non lo so. Non ne ho idea. Scusami,++ davvero.»

«Non lo sai o non vuoi ammetterlo?»

«Non lo so! Lo sai che non lo so» Alzai la voce, ma lui era ancora lì, ad asciugarmi le lacrime con il pollice.

«Puoi almeno pensarci?»

«Ci penso ogni giorno, da quando ti ho conosciuto. Non sono in grado di distinguere le mie emozioni. Non ci riesco.»

Era un continuo rispondere alle sue domande. Avevo pianto così tanto da essere diventato un ostaggio della mia coscienza. Era un bene, probabilmente, lasciarmi nella mani di ciò che più mi era difficile controllare, ovvero, le emozioni stesse.

Mi sentivo come un uccellino cessato e tumefatto nel centro di un'autostrada. Volevo parlare ma non sapevo cosa dire. Volevo agire ma non sapevo cosa fare. Allora non feci assolutamente nulla, e mi lasciai trasportare dall'istinto.

Da quel momento, ogni mossa che avrei fatto era desiderata da un'arcana parte di me stesso.

«Non fraintendermi, non sto dicendo che non provo nulla per te. Ma non so cosa sia esattamente»

«Se dovessi fare un riassunto di quello che stai dicendo mi basterebbe dire "Non"» sdrammatizzò. Era estremamente bravo a farlo, e lo fece perché sapeva che mi trovavo in difficoltà, e che mi ci vollero sforzi interiori per pronunciare quelle parole.

«Non fare così, non sto scherzando!»

«L'hai ridetto.» E risi, mi fece ridere nel momento in cui ero rinchiuso e non sapevo dove. Anche se, nessuna risata che mi avesse donato, aveva mai fatto così male da contorcermi dal dolore.

Avevo l'eco delle sue parole in gola, e non riuscivo a inghiottirle, o tanto meno sputarle fuori.

«Ti aspetterò, te lo prometto» disse.

Kirishima era gentile, sì, ma era fragile, più di me. Prometteva, e quando lo faceva, si mantecava in quella promessa e si fondeva con essa, fino ad incalcarsi nel cranio ogni singola parola che pronunciò quando promise. Non aveva mai infranto nulla, e lui prometteva sempre. 

Mi addormentai poco dopo al suo fianco, e quando mi risvegliai lui non c'era più.

Me lo sentivo lo stesso sulla pelle, ad accarezzarmi le dita, e il suo respiro unito al mio. Era solo la luce del sole.

Quando mi alzai vidi sul tavolo che c'erano due ciambelle con la marmellata di fragole, e un biglietto.

«"La febbre è abbassata. Ti ho preso le ciambelle perché so che ti piacciono tanto... . Non voglio pressarti, è l'ultima cosa che disidero fare. Voglio solo dirti, che se non riesci esternare a parole i tuoi sentimenti, puoi farlo con ciò che ti riesce meglio. Prendi una tela bianca, e tingila coi colori che più ti senti di esprimere. - Eijiro K.»

Rosso.

Rosso, cazzo.

Solo un dannato e fottutissimo rosso infernale.

Ero devastato. Il cuore dilaniato.

Quel bigliettino giaceva nella mie mani, con la sua calligrafia elegante e la sua firma incantatrice. Avevo sentito la sua voce attraverso le parole, e gironzolava sulla mia testa.

Mi sentivo quasi in colpa e sapevo che era sbagliato, che non avrei dovuto.

Non ero un cretino, anzi, ero un genio.

Nessuno sapeva collocare i colori come facevo io.

Nessuno sapeva fare quelle miscele di colori che sapevo fare io.

Nessuno come me riusciva a rendere quell'effetto fluo persino sui colori chiari.

Ero un genio, eppure ero così stupido da non riuscire a comprendermi.

.

Quello stesso sabato mattina andai a comprare una tela bianca, dopo aver finito le ciambelle. Misi un berretto, un cappottino e una sciarpa  e andai da Wendy.

Wendy era un negozio specializzato in tutto ciò che riguardava l'arte. Era un misto tra bricolage e belle arti. La commessa mi conosceva, ci andavo come minimo una volta a settimana.

Entrai ed era tutto... così colorato, come sempre. Le pareti macchiate di rosa mi rasserenavano . Mi sentivo a casa lì dentro.

«Tela 40x60 ? Pennello sottile con pelo di scoiattolo? Non dirmi che ne hai perso un altro, sarebbe il secondo questo mese!» infatti, conosceva le mie abitudini.

«Buongiorno anche a te, Ashido. No, non l'ho perso, e no, mi serve 30x40»

«Strano, non fai mai dipinti così piccoli» aveva il viso macchiato di blu, e un grembiule decisamente vecchio e consumato ad altezza vita, anch'esso macchiato da tantissime tinte differenti. Era una giovane artista e mia compagna di corso all'università. Aveva talento, ma era un po'... sbandata, credo. Ma da qual che la storia racconta, i più strani sono quelli che lasciano il segno, di sicuro però non vanno né sano e né lontano.

zampettò da uno scaffale all'altro e mise nel sacchetto la tela.

«Vuoi altro?»

Ci pensai su.

A casa avevo tonnellate di acrilici, olio, tempere, acquarelli, ogni angolo del mio appartamento era un covo d'arte : quadri ovunque, cavalletti con tele incomplete, la mia scrivania era costantemente in disordine con tubetti di colore di ogni tipo sparsi e schizzi con idee future. Persino le posate della cucina erano colorate.

Volevo qualcosa di unico. Non volevo che fosse come come tutti gli altri.

«Sono arrivati martedì scorso dei nuovi barattolini, di una marca che viene dall'estero e hanno ammesso anche in Giappone. Li ho provati e non sono male, sono molto accesi, riesce un'effetto fluo spettacolare»

«Riuscirei ad ottenere un'effetto fluo anche col marrone, Ashido, ma comunque, fai vedere»

No non è vero, era improbabile far uscire il fluo col marrone, ma non avevo del tutto mentito. Era una tecnica di illusione ottica, sfondo chiaro e soggetto scuro, così si metteva tutto in risalto. Non era fluo, ma andava vicino.

mise una scatola con dei barattolini da circa 50ml sul bancone e....

Erano... troppo accesi.

Ma quel rosso...

Bruciava. Ardeva. Non dimenticherò mai quel fottuto barattolino e la sensazione che mi diede a prima vista.

«Sono acrilici?» chiesi.

«Yes!!»

«Prendo il rosso e il bianco. Anzi, anche il giallo... e il blu. Metti anche il pennello sottile, non voglio vedere la tua faccia per almeno due settimane.»

«Antipatico. Sono 10.000 Yen»

«Boia! Quanto costano questi cosi?»

«Scherzavo, 7.000 Yen»

«è comunque tanto ma più fattibile. Metti sul conto, pago a fine mese, come sempre.»

«Va bene, ma con questo acquisto adesso mi devi 36.000 yen!»

«Sempre meno degli altri mesi.»

Portai a casa il malloppo e, non avendo spazio sopra la scrivania, mi misi a gambe incrociate sul parquet.

I pennelli li avevo. La tela l'avevo. I colori li avevo.

Nonostante questo, mancava qualcosa.

Non so quanto tempo stetti lì, sul pavimento, come un'angelo di neve, a pensare cosa fare.

Avrei preferito scappare in un'altra dimensione, qualcosa di ascetico. Ma l'ascetismo per me era qualcosa di impervio.

Conoscevo a memoria i sintomi del raggiungimento della follia, e l'impervietà si addiceva ai canoni del delirio. Non sapevo se ero delirante, maniacale o irrazionale, ma di sicuro non ero assennato.

Riconoscevo la mia ostilità profonda nei confronti del mio stesso senno, e quando la mia mente non riusciva a giungere ad alcun principio, quando ce ne sarebbe stato il bisogno, mi lasciavo alla pura follia.

Come se ogni mio criterio scomparisse. Ogni avvedutezza si eclissava. Ed era una cosa voluta.

Era strano il fatto che non riuscivo a identificare le mie emozioni, ma avere il completo controllo della mia sanità mentale, eppure, l'imprevedibilità mi perseguitava dapprima che io nascessi.

Non sapevo bene cosa stessi facendo. Facevo solo quello che mi sentivo di far in quel momento.

Non mi uscì nulla, né quel giorno, né l'indomani, né l'indomani ancora.

Quella tela era ancora bianca, e quel rosso ancora sigillato, ed io, ero ancora sul pavimento.

Ero... apatico, più del solito. Stavolta mi sentivo abulico. Incitavo la inerzia a scrollarsi dalla mia più completa volontà. Solo quando le lacrime scendevano lente, senza avviso, riuscivo a fiutare un esigua quantità di mestizia. La presi, la trascinai dentro la gabbia toracica e gli feci fare il giro del mio mondo.

Non mi ero mosso e non avevo mangiato. Mia madre aveva chiamato ma io non avevo risposto. Anche Kirishima aveva chiamato, diciassette volte. Messaggi da chiunque, ma io ero ancora lì, come un'angelo di neve sdraiato sul pavimento.

Avevo la sensazione che se ne fosse andato via.

Non volevo rifiutarlo, ma se non sapevo cosa provavo, non potevo illuderlo, e non potevo illudere nemmeno me.

Mi sentivo vuoto al solo pensiero di non rivedere più le ciambelle calde che mi portava sempre per colazione.

Non volevo diventare mucido e disgustoso, perché era questo quello che ero, senza il calore che mi dava.

Mi ero autoconvinto che le meraviglie che riusciva a donarmi erano solo frutto di un'amicizia. Tuttavia, anche l'amicizia era una forma d'amore, e io non riuscivo a comprenderlo. Dovette dirmelo un tizio, per farmi aprire gli occhi.

Avevo un'anomalia dentro, e avrei voluto che qualcuno la curasse.

*

Mi alzai esclusivamente per andare all'università, ma la mia testa era più lì che qui.

Recuperai un po' di consapevolezza solo quando qualcuno mi sgambettò contro in cortile, dopo le lezioni.

Non poteva che trattarsi di Shiro. Quello stronzo respirava ancora e io non potevo impedirgli di farlo.

«Oi, Katsuki Bakugou, sei ancora vivo? L'autismo non ti ha ancora ucciso?» L'arroganza e presunzione con cui lo disse mi fece quasi ridere.

«E a te, nessuno ti ha ancora rigato quell'auto di merda che ti ritrovi? Scommetto che paparino si arrabbierebbe se un giorno gliela tornassi con un secchio di vernice indelebile rosso sul parabrezza. Non rompermi i coglioni e levati di torno» Non avevo nessuna voglia di ricevere un altro gancio destro in pieno stomaco, ma non avevo neanche voglia di farmi mettere i piedi in testa.

«Ti piace proprio nominare mio padre, cos'è, ti piacerebbe succhiargli il cazzo?»

«Oh no, è lui che s'inginocchia e si ficca il mio in gola, se vuoi questa sera quando viene da me a trovarmi, ti faccio un video dimostrazione così che almeno hai la possibilità di segartici sopra. Ah ehm, "viene" in tutti i sensi» prima che lui mi importunasse ero seduto su una panchina, poi, mi ci misi davanti, e il mio sguardo non aveva mai assunto un espressione così lontana dall'apatia, tutt'altro umore della mattina stessa. Era un ghigno che tracciava il mio volto, come se fossi davvero superiore a lui, e mi ci sentivo.

«Ma che cazzo di problemi hai? Frocio e anche autistico. Fatti vedere da uno psichiatra, forse riesce a farti diventare minimamente normale.» Ormai la conversazione si era fatta pubblica a causa dello stronzo che continuava a sbraitarmi in faccia. Molti studenti ci giravano attorno, e forse mi parve di vedere una chioma rossa.

«Wow... è strano sentire da uno con problemi di bipolarismo con probabile sindrome di bordeline, che ha il padre con precedenti legati al tentato suicidio e la madre con depressione cronica, di andare in psichiatria solo perché preferisce il cazzo ed è autistico. Ah, comunque, l'autismo non uccide, è un disturbo, ma a quanto pare quello disturbato sei tu, insieme a tutti quelli che ti stanno attorno.»

Avevo indagato dopo l'ultima volta. L'avevo visto in farmacia comprare i suoi farmaci e riconoscevo la confezione, l'avevo vista in tv. Per quanto riguarda i suoi genitori bastava chiedere in giro e cercare il suo cognome su internet.

Mi spinse così forte che per un secondo mi preoccupai, temendo di rompermi la testa sbattendola sulla panchina.

Non caddi, Kirishima e Kaminari si trovavano già alle mie spalle e riuscirono a prendermi.

«Andiamocene da qui» disse Kaminari, e solo per un secondo decisi di dargli retta.

«Scappa, Finocchio senza palle.»

Io non ero un senza palle, e anche se avevamo la stessa altezza di un metro e settanta circa, mi sentii estremamente più alto. Stavolta fui io a mollargli un gancio destro sulla mandibola, e il sangue cominciò a scorrermi dalle nocche fino a gocciolare sull'asfalto. Ero minuto e delicato, anche un misero pugno non rivolto a me poteva distruggermi il polso.

Sentii i brividi del dolore lancinante attraversarmi la spina dorsale, ma fortunatamente  l'adrenalina riuscì a distrarmi.

«Bakugou! Andiamo.» Parlò Kirishima e lo ascoltai, non perché me lo chiese lui, ma perché ormai non avevo più nulla da fare lì.

Mi portarono in bagno per sciacquarmi il dorso della mano dove colava sangue, e allora lì mi resi conto, la tonalità che dovevo raggiungere. Mi fissavo il palmo come se fossi dentro il Louvre.

«Ti fa male?» Domandò Kirishima. Io negai con la testa. Faceva un male boia.

Aprì il rubinetto e si bagnò le sue mani. Le unì, imitando un recipiente e ne rovesciò un po' sul mio dorso.

Il sangue colò sulla ceramica bianca, e io ammiravo incantato quella sottospecie di... fenomeno, che stava accadendo sotto i miei occhi.

Rosso sangue. Nulla più del mio rosso stesso riusciva ad accumunarmi con qualcosa che non riuscivo ad apprendere.

«Tu invece, stai bene?» Kaminari appoggiò il gomito sulla mia spalla, ma lo scansai nonostante la testa tra le nuvole. Comunque, annuì, eppure, non stavo bene. Ero certo che da lì a poco sarebbe uscito fuori un'ematoma, o una distorsione al polso.

«Non hai risposto alle mie chiamate in questi giorni, ti ho lasciato dei messaggi, non li hai visualizzati.» Con la sua solita gentilezza mi cullava le dita, idratava i taglietti sul dorso, e scacciava via il sangue tamponando con della carta.

«Non ho risposto a nessuno in questi giorni.»

«Non hai dormito, perché?»

«Cosa ne sai se ho dormito o no?»

«Le tue occhiaie. Hai mangiato?» Non riuscivo più a mentire. Dopo quello che era successo tra di noi, avevo la sensazione di essermi smembrato gli organi. Provavo un dolore lacerante e non nel polso. Tentavo di capire dove, senza risultati. Ero uno sprovveduto inerme.

«Le ciambelle»

«Hai comprato altre ciambelle? So che ti piacciono, ma non devi esagerare»

«Le ciambelle che mi hai comprato tu, quelle ho mangiato»

«Non mangi da sabato mattina?!» lo dissero entrambi all'unisono.

Annuii. Kirishima chiuse il rubinetto, e con con le mani bagnate mi spinse fuori dal bagno.

«Ti porto a casa, devi mangiare qualcosa. Perché diavolo non hai mangiato nulla?»

Apprezzavo che lui si stesse preoccupando per me. Ma non volevo metterlo di mezzo, ancora. Volevo stare solo, risolvere il mio enigma interiore, e non ci sarei mai riuscito con lui tra i piedi o con altre distrazioni.

Quindi mi fermai.

«No, vado solo.» Mi guardò, e sembrava... triste, triste davvero. Blu.

«Denki, accompagnalo tu.»

Non insistetti. Letteralmente un muro separava i nostri appartamenti, quindi accompagnando me, lui avrebbe raggiunto casa sua.

Mi sbagliai. Piombò dentro il mio appartamento come una cimice.

«Che casino che c'è qui dentro, sembra essere così... colorato!» Non tolse neanche le scarpe quando entrò, e giurai che se avessi beccato sotto quella suola lurida un solo filo d'erba, gli avrei bruciato le scarpe. Fu solo fortunato.

«Cosa vuoi, Kaminari?» lo bloccai a braccia conserte, e glielo chiesi, prima che facesse un altro passo e lordasse il parquet con qualsiasi cosa ci fosse sotto le Vans.

«Eijiro è stato esplicito, Devi mangiare, anche solo un latte macchiato e qualche biscotto. E devi bendarti quel polso, comincia a gonfiarsi»

«Come fai a sapere che mi piace il latte macchiato?»  sbuffò.

«Andiamo, Bakugou, lo sai che Eijiro è follemente innamorato di te. Mi racconta qualsiasi cosa; le ciambelle alla fragola, l'odore della menta, che quando bevi una tazza di tè non metti alcun dolcificante perché prima ti metti in bocca una zolletta di zucchero. So tutto, in pratica è come se io ti conoscessi già.»

E il senso di colpa ripartì, nonostante io sapessi che non era colpa mia, e che effettivamente non avevo nessuna colpa da affiliarmi.

«Cazzo!»

«Cosa?»

«Ma volete smetterla tutti quanti voi?! Lo so benissimo che Kirishima è innamorato di me, lo sapevo ancora prima che lui me lo dicesse. Il problema è che io non so se provo lo stesso! Vorrei farlo ma non lo capisco, porca paletta! » Crollai ancora una volta, abbandonato ad ogni forza fisica. Ormai quel pavimento lo reputavo più comodo del letto.

«Tu lo sai cosa provi, è solo che non vuoi ammetterlo.» Si coricò accanto a me, come se entrambi stessimo guardando il cielo.

«Se sapessi cosa provo in questo momento sarei con lui.»

«Vedi? Sai cosa provi, ma non vuoi ammetterlo»

«Ma sei scemo? Te l'ho già detto...» mi interruppe.

«So cosa mi hai detto, tu forse non lo sai. Parti dal presupposto che le emozioni debbano corniciare la tua vita e decidere per te. Qui non stiamo parlando di sentimenti, ma di emozioni. Non è detto che se non riesci ad identificare le tue emozioni, esse siano del tutto inesistenti. Cavoletti, lo guardi come se fosse un fiore nel deserto! Hai letteralmente scansato il mio braccio per il contatto ma ti sei fatto accarezzare le mani da lui! Poi scusami, tu gli vuoi bene?»

«Ovvio, è mio amico»

«L'amicizia è una delle più grandi forme d'amore che ci sia, se riesci a riconoscere quella, l'amore allora sarà una cavolata!»

Non riuscivo a capire se avesse ragione. Mi stava mandando in confusione.

Forse avevo bisogno di odiarlo, di trovare un motivo per farlo, un pretesto o una scusa. Ma quel rosso era troppo potente.

Mi resi conto che ormai ero completamente perso dentro quel rosso, e che qualunque cosa essi fosse, mi aveva travolto come un'onda.

«E se tu ti stessi sbagliando?»

«Io ti direi di provarci e vedere come va. In caso, ti do l'ordine di venirmi a tirare i capelli e strapparmeli fino a diventare pelato.» Mi fece sorride, l'ammetto.

«Sai... quando Eijiro aveva quindici anni circa, aveva un fratello maggiore. Era autistico, per niente grave. Riuscì a passare con centodieci e lode all'università, faceva lo stesso corso che Eijiro sta facendo adesso.»

«Kirishima non ha un fratello.»

«Morì di cancro al cervello a ventisette anni, accadde tutto in fretta e questa è ancora una ferita aperta per lui. Non so, forse tu gli ricordi suo fratello, ma una cosa è certa, non credo che tra tutte le cotte che Eijiro si sia preso in tutti questi anni, abbia mai raccontato di una cosa così intensa e speciale. Provaci, come ti ho detto, male che vada resterete amici, e nessuno perderà l'altro.»

Non mi aveva mai raccontato di suo fratello, o della sua famiglia in generale. Volevo che lo facesse, e io volevo raccontargli di mio padre, e di me.

Kaminari la faceva sembrare così facile che forse in realtà lo era davvero.

Quanto fanno male i "ti amo".

Perché fa così male, l'amore, quando in realtà dovrebbe farti solo del bene?

«Ci proverò»

«Va bene. Adesso mangia, e dopo chiami Kirishima per dirgli di venire. Se me lo lasci fare, ti medicherò quel polso»

E mangiai. Non molto, ma mangiai. Lui mi medicò il polso, sotto mie direzioni. Mise del ghiaccio sottile in un panno fino, e poi una crema che conteneva camomilla.

«Non esporti troppo al sole, e se dovesse farti ancora più male sarebbe meglio andare all'ospedale, se diventa più scuro avvertimi, potrebbe essere un'emorragia, ma per il momento stai tranquillo, non sembra nulla di grave.»

«Studi medicina?» gli chiesi. Sembrava stupido, ma le sue conoscenze mi sorpresero.

«Certo! Voglio fare l'infermiere, si rimorchia tantissimo. Sto imparando a fare la firma incomprensibile, ma devo seguire ancora alcuni tutorial»

Infatti, era uno stupido. Mi spaventò la serietà con cui lo disse.

Dovevo ammettere che ero in ansia. Era raro che accadesse, eppure.

Si fece buio, e il polso cominciò a gonfiare, era completamente viola e s'intravedeva dalle garze, ma non m'importava. Kaminari se ne andò, e io sistemai la stanza. Ma c'era ancora qualcosa di incompleto. Il dipinto.

Non avevo tempo per farne uno, ma potevo fare qualcos'altro.

Pigliai dal cassetto i disegni che avevo di Kirishima, e ne trovai uno dove il volto era esposto maggiormente.

Con dello scotch lo attaccai alla tela, e tentai di realizzare il colore identico che poche ore prima colava dalle mie nocche.

Ed era perfetto. Chiaro ed acceso.

Nel mio balcone conservavo qualche piantina e dei fiori, e tra loro c'erano delle margherite. Le tagliai senza danneggiare la radice, e le macchiai col rosso. Poi, tamponai la tela con esse.

Non era una grande opera d'arte, ma almeno non era più una tela bianca. Quando lui bussò ero ancora seduto sullo sgabello, con il pennello tra le dita e la tela incompleta davanti.

«Entra, è apetro.»

Aprì, e ovviamente aveva del cibo con sé. Noodles.

«Hey.» disse lui. Io lo salutai con un cenno alla testa.

«Hai mangiato?»

«Latte macchiato e biscottini.» Sorrise. Posò il sacchetto sopra il tavolo e dal frigorifero prese delle bibite gasate. Apparecchiò con tovaglioli e bacchette, e poi venne verso di me.

«Ehm, posso vederlo?»

«Mi hai chiesto tu di farlo, mi pare ovvio.» Si chinò e quando lo vide sembrava, non so, contento?

(Tipo così (?))

So solo che sorrise ancora.

«In questi giorni non ho avuto idee, e l'unica cosa che mi è venuta in mente era questa.... Non sapevo cosa fare...»

«è perfetto,» guardava più me che la tela. «Il rosso? Per che cosa sta?» Chiese.

«Il rosso è il colore del fuoco e del sangue, quindi è spesso associato a energia, guerra, pericolo e potere. Ma anche passione, desiderio e amore. Io so solo che vedo tutto rosso.» Persi il conto di tutte le volte in cui lui sorrise.

«Hai del rosso sulla guancia, e su tutta la maglietta.»

«Cazzo, la mia magliettina!» stavo per prenderla dai lembi con entrambe le mani, ma il polso mi faceva dannatamente male, e più il tempo passava più si gonfiava.

«Fa vedere»  dava l'impressione che si stesse inchinando a me, e io gli porsi la mano.

Con delicatezza tolse la benda, ed effettivamente, era molto più scuro di prima, quasi bordò.

Arrossii quando poggiò le sue labbra proprio lì. Mi fece un po' male, ma quella sembrava la cura.

«Mangiamo, dopo ti porto alla guardia medica.»

Annuii e ci sedemmo sul tavolino.

«è piccante?» chiesi.

«Naturalmente.»

«Gli hai detto di mettere il tabasco?»

«Sì.»

«Due cucchiaini?»

«Sì.»

«Come piace a me?»

«Come piace a te.»

Era buffo dare un colore a tutti i sentimenti, ma del resto, gli altri gli danno un nome.

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