LOVE ON THE RUN

By meemedesimaa

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Grace Jasmine Wolff, la figlia del famoso Team Principal Toto Wolff, ha 18 anni, quasi 19, e ha sempre avuto... More

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.cinque.

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By meemedesimaa

Guardo le stelle che sembrano brillare di più rispetto a quando sono arrivata in questo posto con Hamilton.

La mia immaginazione ritrae nuovamente una A grazie all'unione di alcune stelle, come fosse una costellazione.

Me la stavo immaginando o era reale?

Me la stavo immaginando di sicuro, ma nonostante questo amavo pensare che Hubert fossi lì sopra di noi e vegliasse sul nostro rapporto cercando di incollare i pezzi che erano rimasti.

Parliamoci chiaro, di pezzi sani, ne erano rimasti ben pochi e la lontananza li stava facendo marcire, ma Anthoine era in grado di tutto.

Il suo numero 19 splendeva ovunque quando mi capitava di guardare l'ora e il suo numero era inciso sul display del mio cellulare mentre la foto di sfondo ritraeva noi da piccoli.

Mi piaceva pensare che lui fosse lì con me, perché c'era sempre stato e se gli altri sulle spalle avevano l'angioletto e il diavoletto, io avevo solo Anthoine che scacciava via ogni malessere; certo doveva ancora imparare a farlo bene, ma ogni tanto mi portava fortuna.

Le nuvole ritraevano spesso il suo viso dolce e ogni volta che per caso, non stavo pensando a lui, la sua canzone preferita rimbombava tra le casse di un'auto che passava di fianco a me, quasi come a ricordarmi di lui.

Come se lui stesso si impegnasse a far tenere vivo il suo ricordo dentro la mia mente caotica.

Quello che non sapeva però, era che la sua immagine era accesa dentro il mio cuore e che non avrei mai potuto dimenticarlo.

Il primo pensiero alla mattina andava a lui e l'ultimo alla sera cadeva inevitabilmente sul suo carattere dolce.

Mi piaceva pensare a queste cazzate, a questi "segni del destino".

Perché che fossimo legati era una storia già scritta ormai.

Non sapevo dove fosse esattamente la sua mente, ma ero convinta che il suo cuore appartenesse, in parte, al mio.

Ero una ragazzina con i sogni più grandi di lei, credevo che una parte del cuore dei miei migliori amici, si fosse fuso con il mio e viceversa, una cosa equa, per non farci litigare, ma alla fine eravamo caduti nella trappola mortale dell'uomo e ci eravamo scontrati come due placche terresti che causano un terremoto; ma altro che terremoto, noi avevamo causato l'esplosione di una supernova.

"Quella litigata, all'ospedale, quel giorno" Gasly interrompe bruscamente i miei pensieri, prende un respiro profondo e continua mentre io afferro la collanina regalatami da Hubert un'infinità di anni prima.

Mi dava sicurezza.

Mi permetteva di mantenere la calma.

"Ci ho pensato e ripensato più volte e ci ho incolpati della morte del nostro amico" lo guardo confusa, non riesco davvero a capire cosa voglia dire.

Lascio che la mia mano scivoli via dalla collana e si vada a incrociare al petto insieme all'altra.

"È come se la nostra litigata abbia spezzato il legame che ci teneva uniti e ognuno di noi avesse dovuto combattere per la vita da solo. Ho pensato che forse, se avessimo lottato un po' di più, se dopo esserci insultati ci fossimo abbracciati, forse Anthoine ora sarebbe qui" dice senza mai staccare gli occhi dall'orizzonte.

Non fiato, non saprei cosa dire, non ero per niente pronta a tutto questo.

Non ero pronta a perdere Anthoine.

Non ero pronta a sentire queste parole dal mio migliore amico, o ex migliore amico.

Merda, non ero nemmeno pronta a vederlo.

Invece eravamo qui.

Lui stava parlando e inevitabilmente il nostro discorso era ricaduto su colui che ci aveva tenuti legati per ben 14 anni.

Se avessi incontrato Pierre il giorno seguente, tutto sarebbe stato più facile, ero pronta, me lo aspettavo; ma oggi, in quel locale pensavo di essere al sicuro dai brutti ricordi.

Perché nonostante Hubert fosse stato la cosa migliore che mi potesse capitare, non riuscivo a capacitarmi di come il mondo avesse potuto togliermelo dalle braccia così facilmente.

Lo tenevo stretto, eppure la vita me lo aveva strappato via con una facilità assurda, tanto da far sembrare che manco avessi lottato per tenerlo con me.

Nonostante l'apparenza, io avevo lottato, eccome se lo avevo fatto.

"Credi sia stato lui a farci rincontrare?" chiedo sottile.

Credevo nelle piccole cazzate.

Cazzate come questa.

Illusioni e nient'altro.

"Ho sempre creduto nel destino, e lo sai, ma da quando quel ragazzo non c'è più credo che sia lui a far accadere le cose" ammette guardando il cielo.

Annuisco.

Capisco ciò che vuole dire.

Era una sensazione strana.

Ogni tanto mi capitava di percepirlo, di sentire la sua presenza alle mie spalle.

Poi mi giravo e lui non c'era, ovviamente.

Era come se vegliasse su di noi, come se attorcigliasse le braccia intorno al nostro corpo per proteggerci dai duri colpi della realtà.

Di botte ne avevo prese nella mia vita, era caduta, mi ero rialzata, poi uno schiaffo brutale mi aveva ristesa al tappeto e dato la forza di tirarmi su sputando sangue.

Il sapore metallico del liquido rosso che ci tiene in vita, era pane quotidiano per me.

Sapevo cosa fosse il dolore, lo avevo toccato con mano e sperimentato talmente tante volte che non avevo più paura di niente.

L'unica cosa che mi spaventava era l'amore, lo stesso amore che non avevo mai avuto la forza di donare a qualcuno.

Ero stata in diverse relazioni, ma nessuna di quelle mi aveva portato a capire cosa fosse l'amore vero e proprio e quando non conosci qualcosa, quella ti spaventa, ti fa tremare le mani e sudare incessantemente.

Ecco, io non avevo paura della morte, ma l'amore mi spaventava assai.

Non credevo tanto in quello che tutti chiamavano le farfalle nello stomaco e se dovevo essere sincera non credevo nemmeno nel fatidico amore a prima vista, eppure ne avevo una paura inestimabile.

Non ci credevo, ma avevo paura.

Quando Pierre parla di nuovo, svuoto la testa cercando di levarmi dalla mente questi pensieri totalmente fuori discorso.

"E tu, credi sia stato lui?" mi pone la stessa domanda.

Anthoine?

Si, è stato sicuramente lui.

"Penso che lui non avrebbe mai voluto vedere che ci ignoriamo come due sconosciuti, quindi sì, credo che lui ci abbia messo del suo" sorrido pensando che mettersi in mezzo alle situazioni per cercare di risolverle era proprio nell'indole del pilota di formula 2.

Rimaniamo in un religioso silenzio.

I miei pensieri vagano da un discorso all'altro senza un filo logico.

"Torneremo mai quelli di una volta?" chiede.

Era così pieno di domande che mi stava esasperando.

Però mentirei se non dicessi che quello era il mio stesso pensiero.

Guardo in aria.

Torneremo mai quelli di una volta?

Non lo sapevo, certo ci speravo con tutto il cuore, ma non ne ero così certa.

La paura ormai faceva parte di me.

Io amavo Pierre, lo amavo da morire, mi sarei messa davanti ad un treno in corsa per lui, avrei preso una granata, un proiettile dritto alla testa per lui.

Non ero riuscita a salvare Anthoine e allora avrei protetto Pierre con le unghie e con i denti, anche se non saremmo mai tornati quelli di una volta, io sarei rimasta lì, avrei lottato con forza per lui.

Speravo davvero di riuscire a recuperare il mio rapporto con lui, ma non sapevo se avevamo la forza necessaria per lottare così tanto.

"Tu cosa dici?" domando tranquilla non volendo dire ciò che penso a riguardo.

"Io lo spero, ma non lo so" enuncia.

Annuisco.

Questo era quello che intendevo quando dicevo la stessa persona in corpi diversi.

Eravamo come connessi.

Programmati per pensare le stesse cose.

Così era anche Anthoine.

O meglio, era partito tutto da lui, che tra i tre era il più sfacciato, ma anche il più timido.

Se ti conosceva bene era in grado di sputarti la verità in faccia, anche se quella ti avrebbe distrutta.

Se invece non aveva molta confidenza con te se ne stava volentieri in disparte ad ascoltare una conversazione che non riusciva a fare sua, in cui faticava ad esporre il suo pensiero.

Amava la velocità, cazzo se la amava, era forse la cosa che più gli piaceva fare.

Stare seduto. Schiacciare due pedali e affidare la sua vita a quella monoposto che racchiudeva la sua felicità.

La stessa monoposto che lo aveva tradito nel circuito in cui tra pochi giorni i piloti di formula 1 avrebbero gareggiato.

Mi chiedevo come fosse possibile che affidassero con così tanta facilità la loro vita a due pedali meccanici, poi mi ricordavo che per anni io avevo posto la mia esistenza nelle mani di un animale di 700 kg e capivo che la passione e l'adrenalina superavano di gran lunga la paura.

I minuti di silenzio che seguono sembrano interminabili.

Io penso a cosa dire, a cosa fare, come se ogni mia azione o parola potesse distruggerlo o farlo scappare.

Non volevo distruggerlo e sapevo bene che la mia lingua tagliente era in grado di cose che nemmeno io mi capacitavo e farlo scappare era diventata la mia ansia più grande.

Avevo imparato a convivere con la sua assenza ed ero riusicta a capire come consolarmi da sola, ma adesso che il mio cuore lo aveva sentito più vicino, avrei faticato tanto a farlo riabituare alla sua assenza.

Se qualche minuto prima non avrei desiderato altro che ferirlo e scappare, ora volevo solo cercare di dosare la mia indifferenza, perché forse non ero poi così fredda nei confronti di Pierre.

"Ti accompagno in hotel?" spezza di nuovo il silenzio.

Volevo lasciare il discorso ai nostri pensieri? Si.

Ma volevo davvero buttare all'aria una serata così? No.

Avrei lasciato che le nostre menti continuassero il discorso, mentre avevo altri piani per i nostri corpi.

E non intendevo niente di surreale, nonostante camminare sulla luna sarebbe stato elettrizzante.

Volevo correre, lasciare lì ogni nostra discussione e scappare via.

Amavo correre, mi sembrava di liberarmi la testa da tutte le stronzate che si impadronivano nella mia psiche.

Le lasciavo indietro, permettevo che mi seguissero e quando le percepivo più vicine aumentavo il ritmo.

Correvo.

Correvo.

E non gli per mettevo di avvicinarsi.

La mia scelta di indossare le Jordan era stata così casuale, ma ora sembrava avere un senso fuori dal normale.

"Ho un altra idea" sorrido veramente per la prima volta in questa serata, o forse negli ultimi due anni.

E non perché non amassi il mio sorriso, al contrario, avevo dei denti talmente perfetti da fare invidia a qualsiasi dentiera.

Il sorriso se lo erano portati via i due ragazzi francesi, le mie due roccie, le mie due montagne.

Lo avevano rubato e lo avevano tenuto con loro.

Forse per ricordarsi di me o forse per ricordare a me che non avrei mai potuto vivere senza di loro.

Gasly mi guarda senza emozioni.

Mi spaventa.

Ma lo faceva spesso.

Me lo ricordo.

Lo ricordo bene.

Ha già intuito ciò che voglio fare, lo sa eccome, lo capisco dagli occhi che luccicano in modo ipnotico.

"Corriamo" affermo prendendo la sua mano e tirandola con me, mentre il suono delle nostre Jordan riempie il silenzio della notte.

Mi volto di poco e vedo il ragazzo sorridere illuminato dalla luce della luna.

Lascio la sua mano, sicura che continuerà a seguirmi, sorpassiamo il gruppo di ragazzi che stava fumando quando siamo usciti.

Mi fischiano dietro e io con il mio bellissimo e poco raffinato comportamento alzo il dito medio provocando una risata a Gasly.

"Potrai dire di essere cambiata, ma io in te, ci vedo la stessa bambina che ho conosciuto 17 anni fa" ride.

La sua risata è fantastica, non ricordavo quanto fosse in grado di farmi bene al cuore, di aggiustare i pezzi rotti del puzzle.

17 anni.

17 lunghi anni, erano passati dal giorno in cui mia madre disperata si era presentata a casa di sua madre.

Ero un bambina innocente avevo a malapena 2 o 3 anni e non capivo molto di quello che stesse succedendo intorno a me.

Blake, mio fratello, mi teneva stretta al suo petto, impedendomi di vedere la mamma piangere.

Ricordo che 17 anni fa non capivo cosa ci facessi in casa sua e ricordo che mi odiava così tanto da volermi strappare i capelli.

Avevo invaso casa sua e utilizzato i suoi giochi, avevo rotto qualche pupazzo perché ero una bambina estremamente stressata e con un'ansia incredibile.

Per puro caso avevo conosciuto Anthoine che aveva fatto in modo di far ragionare Gasly e fargli capire che non lo facevo apposta a rompere tutti i suoi giochi, ero solamente troppo piccola per intuire come usarli.

Eravamo andati in vacanza assieme, poi mio papà era tornato e mamma aveva cominciato a sorridere di nuovo.

Ci siamo spostati in America e avevo cominciato a vedere Pierre e Anthoine solo tramite Skype e durante le vacanze che erano sempre troppo poche per i miei gusti.

Poi di nuovo la catastrofe, il divorzio tra mia madre e mio padre, la morte dei miei nonni e tutto cedette in fretta.

Tranne il mio rapporto con i due francesi.

Loro due erano solidi come due montagne, nemmeno un uragano avrebbe potuto smuovere le loro posizioni.

Rido tornando alla realtà "Dovrei forse prendermela perché mi stai dando della bambina?" chiedo.

"Per me lo sarai sempre" afferma con un leggero fiatone.

Sorrido per la dolcezza e per l'accento francese con cui pronuncia quelle parole.

Si, per lui sarei sempre stata una bambina piccola e mi andava bene così, ma doveva imparare a capire il mio carattere; perché che fossi cambiata non ci voleva una laurea a capirlo, che il mio cuore non battesse più come una volta era palese e che il mondo là fuori mi aveva lasciato segni indelebili era ancora più visibile.

Pierre doveva capire la mia voglia di stare sola e affrontare le difficoltà con i pugni tesi davanti alla faccia.

Doveva capire che il mondo era stato così crudo con me, che non mi aveva lasciato altra scelta. Non mi fidavo più.

E nonostante per me, lui fosse ossigeno puro, non riuscivo più a fidarmi nemmeno di lui.

No. Non mi fidavo affatto.

Ma lui era Pierre, e mi sarei presa tutte le ramanzine che avrebbe voluto darmi, mi sarei sfracassata le nocche delle mani a furia di colpirlo dal nervoso, ma alla fine lui era Pierre ed era impossibile odiarlo.

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