Evermore - 𝑆𝑜𝑡𝑡𝑜 𝑖𝑙 𝐶...

By dyrneromance

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Dorothea ha ventiquattro anni e un sogno custodito nel cassetto della sua scrivania, tra bobine consumate dal... More

Disclaimer e Cast -
Intro -
𓆰𓆪
𝐑𝐄𝐂 𝟎𝟏
1 - Universi
2 - Portland, OR
3 - Sciarpe di Lino
4 - 15 years, 15 million tears
5 - Concime per le primule
7 - Fort Aberdeen
8 - Solo una stupida ragazzina
9 - Abissale
10 - Arvo
11 - In picchiata
12 - Poker e Umiliazioni
13 - Nei corridoi del Monev
14 - Noodles
15 - Ginevra
16 - June Kennedy
17 - La nostra più grande delusione
18 - Buon anno, sorellina
19 - I giardini di Babilonia
20 - Ragno Lupo
21 - Spike
22 - Qui o in camera, scegli tu
𝐑𝐄𝐂 𝟒𝟓
23 - Jack&Rose
24 - Poligamia malfunzionante
Avviso

6 - Tinta sbagliata

82 14 25
By dyrneromance

Komorebi 木漏れ日– si riferisce alla luce che filtra attraverso le foglie degli alberi; è un termine composto da tre parole: 木 ki, albero, 漏れ more, 漏れる moreru, perdere e infine 日 hi, sole.

Your touch brought forth an incandescent glow
tarnished but so grand


Quella notte si lasciarono senza dirsi nulla, lui la sorpassò semplicemente e tornò nella camera degli ospiti senza ripensamenti. Poche ore dopo il sole iniziò a sorgere e pian piano la luce diurna s'insinuò nella stanza di Dorothea, valicando il sottile strato della tenda color panna, stendendo i suoi raggi sul volto stanco della ragazza. Non aveva dormito molto, dopo essere tornata sopra si era stesa ed aveva aspettato che il sonno la travolgesse, mentre gli occhi sul soffitto riuscivano ad immaginare il volto vivido di quel ragazzo inobliabile.

Verso le otto sentì movimenti dal piano superiore a quello inferiore, i quali le fecero ipotizzare che fossero tutti svegli. Osservò, dalla finestra di casa sua, il cielo limpido e azzurro assicurarle una giornata soleggiata ma ventilata. Così indossò dei vestiti pesati, infilò le converse meno adatte a quel periodo dell'anno e cercò di risvegliarsi lavando il proprio viso con acqua fredda, pentendosene immediatamente. I riscaldamenti erano stati riaccesi e una volta tornata in camera si concesse qualche minuto vicino al calorifero, prima di trovare le forze per scendere in cucina e subirsi quel contatto umano mattutino.

Mezz'ora dopo, però, la casa sembrò deserta. Mise una tazza di latte e caffè nel microonde a riscaldare e nel frattempo diede un'occhiata in salotto, in sala svago e sul retro, senza trovare traccia di nessuno. Fu all'improvviso che, mentre ripercorreva il corridoio per tornare in cucina, sua madre sbucò dal nulla facendola sobbalzare all'indietro, urtando il soprammobile così bruscamente che il vaso vetrato posto lì sopra rischiò di cadere. Per un attimo le parve di sentire il cuore arrestarsi, s'immaginò lo sguardo inferocito della madre e le sue urla rimproverarla di quella malaccortezza, ma tutto ciò sbiadì in quella frazione di secondo poiché, con la maestria di una precisione quasi disumana, una mano grande e affusolata raccolse il vaso rimasto a mezz'aria, pronto ad infrangersi sul pavimento.

Il respiro che aveva trattenuto le rimase bloccato in petto, mentre man mano una pressione fastidiosa le si insinuava per tutto il torace, come per avvertirla che di lì a poco la sua giornata avrebbe potuto prendere il sopravvento. Non guardò nessuno dei due, sentì a malapena la madre ringraziarlo gentilmente, tra una critica e l'altra per la goffaggine della figlia, mentre una Dorothea taciturna tornava in cucina, recuperando la tazza ormai fumante, uscendo in giardino dalla porta sul retro. Il viso le andava in fiamme al pensiero che lui avesse visto quanto fosse maldestra, probabilmente si era accorto anche di come, entrando in cucina, fosse inciampata sui suoi stessi piedi riuscendo però a mantenere l'equilibrio.

Tutti quei frastuoni e quello sguardo di troppo le mandavano in tilt il cervello, decise così di concedersi un po' di pace, consapevole di quanto questo avrebbe potuto affievolirle il mal di testa dovuto alla mancanza di sonno.

Si ritrovò a pensare che forse tutto quello che le era accaduto nelle ultime ore, fosse solo frutto della sua immaginazione, che come sempre si fosse spinta un po' oltre la realtà. Tutta quella protrazione era spinta, incoraggiata, dagli innumerevoli libri letti e film visti lontana da tutti, alcuni nascosti e custoditi nel capanno di casa sua, in un mondo creato per scappare da quello quotidiano. Aveva ventiquattro anni e così poca esperienza, cercava continuamente di piacere a tutti e sperava di essere accettata così com'era, nonostante questo fosse difficile perché ogni persona è diversa dall'altra e non si può pretendere un'approvazione universale del nostro vero essere. C'erano momenti in cui le bastava ciò che aveva: quell'unica amica fidata, la sola figura famigliare presente, il pattinaggio per quanto ristretto al solo hobby e, per ultima ma con primordiale importanza, l'immaginazione. In altri momenti, in maggior misura, sentiva la mancanza di quel qualcosa di euforico ma allo stesso tempo rassicurante che solo l'impatto di una buona lettura o visione avrebbe potuto dissetarla da quella sete di vita.

Durante l'adolescenza aveva letto di tantissime storie d'amore: Edward Ferras ed Elinor Dashwood, Natsya e John, Tru Walls e Hope Anderson, Anna e Vrònskij , Emily Dickinson e Susan Gilbert, avrebbe saputo nominare tantissimi di quegli amori letterari che avrebbe trovato solo in pagine consumate dalla lettura, dai polpastrelli pressati sui bordi in attesa che gli occhi febbricitanti e celeri divorassero parola dopo parola. Aveva provato a rilassarsi, come Ramona e Bellie le avevano suggerito in passato, a lasciarsi andare con i ragazzi e a non aver timore di non piacere agli altri. Negli ultimi tempi era stata ad un solo appuntamento e questo era finito in un tremendo bacio sbrigativo, forzato dall'insistenza di lui e terminato dal disagio di lei. Poi era capitata qualche storiella da una notte ma quel tipo di relazione non faceva affatto per lei.

Aveva paura di soffrire e per questo motivo alzava barriere invalicabili fatte di tutte quelle insicurezze causate dalla timidezza, da quell'ansia sociale che l'attanagliava e dalla paura di finire come i suoi genitori, separati dopo anni di apparente affetto retto solo dalla nascita dei figli. Alcune volte arrivava a pensare che soffrire, provare dolore o solitudine, fossero le uniche emozioni che la vita avrebbe mai potuto concederle, bloccandola in un presente infelice, nell'attesa di un futuro incerto, di cui però desiderava conoscerne ogni circostanza.

Avrebbe voluto essere protagonista di un libro in cui il lettore capisce che aver paura di amare non è altro se non amore stesso, la consapevolezza che quelle palpitazioni cardiache siano dovute all'adorazione di qualcuno di cui si ha paura ma che si ha abbastanza coraggio da amare. Voleva amare, provare tutto ciò che quello stato psichico avrebbe comportato, sentire un altro calore intrecciarsi col proprio fino a creare un ibrido, poggiare il proprio petto a quello di qualcun altro, sentire due respiri unirsi in un unico, piangere, soffrire, ridere, invaghirsi ancora di più. Ma più l'opportunità le si presentava davanti, più lei faceva retromarcia, cambiando rotta per la solita ennesima volta.

Si era addentrata di nuovo nel boschetto dietro casa, il tempo e le scarpette indossate prima di scendere le avrebbero concesso di immergersi di più nella natura circostante. La pace nel silenzio della natura, lontana dal frastuono umano, il solo fruscio delle foglie danzanti nel vento secco e nordico, la luce che le pioveva addosso come coriandoli che filtravano tra i rami degli alberi più fitti. L'odore di erba bagnata e di ghiande spaccate sul terriccio umido, il canto della ghiandaia azzurra, il ronzio del vento tra gli spifferi delle cortecce.

La città non le apparteneva, il suo cuore richiamava la natura ovunque si trovasse. In quel momento la nostalgia, messa a tacere dagli ultimi avvenimenti, tornò come se non si fosse mai attutita. Mossa da tale emozione, allungò il passo fino all'altalena che l'ultima volta non era riuscita a raggiungere e scoprì, con stupore e meraviglia, che le incisioni sul sedile in gomma non erano state consumate dal tempo. Aveva graffiato quel Dotty il giorno del suo quinto compleanno, dopo essere scappata dal giardino di casa per colpa dei genitori. Non le risparmiarono l'ennesima litigata nemmeno in un giorno così importante, davanti a tutti gli invitati, mettendo in imbarazzo una bambina che avrebbe dovuto pensare solo a divertirsi ma che viveva costantemente nel timore di vederli discutere. Ovviamente quel giorno Tyrone c'era e fu lui a seguirla nel fitto di quegli alberi per tranquillizzarla, cercando di distrarla il più possibile, in una collaborazione tra sorella e fratello che si sforzavano di mettersi in quiete a vicenda, costantemente impensieriti per il cedimento del legame dei propri genitori.

Le si riscaldò il cuore a quell'unico di pochi ricordi felici che riuscì ad attribuire al fratello, mentre pian piano si lasciava dondolare da quell'altalena dall'aspetto un po' frusto. I quattro giorni successivi passarono così: si alzava, usciva ad addentrarsi nel boschetto - tempo permettendo - , tornava in casa, leggeva, mangiava qualcosa, tornava a dormire. Alcune volte l'ordine s'invertiva ma generalmente erano queste noiose attività ad accompagnare quel suo soggiorno, mentre ovviamente non si lasciava sfuggire lamentele sulla noiosità di quella situazione e sul fatto che non trovasse giusto spegnere i riscaldamenti di notte.

Non rivide più Oakley e, anzi, scoprì che la sua permanenza di qualche notte prima, fu dovuta al congelamento del motore dalla macchina che nel bel mezzo della notte aveva deciso di non funzionare più, costringendolo ad accettare le lusinghe della signora Anjette e del suo amico Tyrone. Seppe, poi, che per via del lavoro a Fort Aberdeen non avrebbe potuto passare a trovarli di nuovo a Ranton Town per almeno un paio di giorni. Anjette si era lamentata a riguardo, credeva non fosse giusto sommergere di lavoro dei ragazzi così giovani e aveva insistito affinché Tyrone invitasse Oakley a restare per un fine settimana.

«Potresti venire a dare un'occhiata...», Dorothea sentì Tyrone proporre, il quale stava racimolando gli ultimi fiocchi d'avena dal suo piatto. «Non credo tu abbia mai visitato una base militare, vero?»

«E perché dovrei?» Si domandò tra sé e sé, lasciando credere al fratello di aver posto a lui la domanda.

«Ti lamenti dicendo che qui ti annoi, quindi ho pensato che passare del tempo con me invece che con mamma avrebbe potuto rallegrarti un po'.» Ma Tyrone non riuscì neanche a finire la frase che sua madre, spazientita dalla sfacciataggine insolita del figlio, gli tirò un ceffone dritto alla nuca. Il ragazzo, perché da come si comportava non poteva essere definito uomo, nascose il divertimento dietro un sorriso di scuse mentre, pian piano, sua madre si ammorbidì mostrando il suo piacere per quella proposta fatta alla sorella.

Erano passati almeno settanta minuti quando anche il campo d'addestramento di Fort Aberdeen capii che il Sergente Sullivan, quella mattina, aveva la testa da tutt'altra parte. Quel giorno il cielo era limpido, invaso da un'unica grossa nuvola candida e compatta, così come anche la mente di Oakley aveva un unico ingombrante ma fulgido pensiero. L'aria gelata gli sbatteva in faccia e sulla pelle delle braccia lasciata esposta nella speranza di trovar distrazione ai pensieri in quell'indolenzimento fisico, mentre percorreva per la settima volta quei quattro chilometri, allora divenuti ventotto.

Fino a quattro giorni prima gli era sembrato che tutti i suoi problemi fossero spariti, ponendoli da parte pur di meditare ed esplorare quelle nuove scosse tanto sconosciute. Non aveva avuto molto tempo prima che la quotidianità lo richiamasse alla realtà e il pomeriggio successivo si era ritrovato di nuovo nel suo appartamento della trecentotreesima di Nickerson St, chiuso in se stesso e in quelle quattro mura gelide che odiava più di se stesso.

Pur di sfuggire alla possibilità di farsi destabilizzare troppo da quella chiave di volta, aveva iniziato ad allenarsi di più, alcune volte prendendo il posto di guida del Maggiore per allenare i privatisti, decidendo anche di passare più tempo negli uffici dell'amministrazione, dove le giornate procedevano frenetiche come sempre. 

A breve ci sarebbero state le celebrazioni per avanzamento di grado per la maggior parte dei Caporali e dei Sergenti di squadra, ciò avrebbe voluto dire o vacanze anticipate, oppure maggiore probabilità di ritrovarsi con la merda fino al collo. Celebrazioni come quelle, comportavano il ritiro di soldati dalle basi militari sparse in certe zone orientali, il che significava minore presenza di squadre in difesa, più rischio d'attacco, e maggiore probabilità di ricevere chiamate d'incarico a dir poco indesiderate. 

Questo Oakley lo sapeva bene dato che, proprio a causa di questo, due anni prima si era ritrovato in terra maghrebina, e poi afghana, nel giro di tre settimane e mezzo. Era tornato nelle Americhe da appena quattro mesi e proprio per evitare una situazione simile a quella precedente, aveva subito fatto richiesta di congedo per almeno i due anni a venire.

Ottenere quello, era solo uno dei tanti obiettivi che si era proposto. Uno dei primi, appena tornato in Oregon e aver fatto conoscenza di una certa personcina, era stato andare a trovare June, una donna sui quaranta che aveva conosciuto durante il secondo arruolamento. Non c'era nulla di necessario da definire tra loro due, si facevano bastare qualche nottata insonne e infoiata, e la cosa finiva lì. Grazie a lei riuscì a scovare l'unica cosa che riuscisse ad allontanarla dai pensieri, poiché ancora si rifiutava di dedicarle certi giudizi peccaminosi. 

Aveva trentaquattro anni, responsabilità di un certo spessore che però non gli impedivano di concedersi quel piacere necessario un po' a tutto il genere umano. Non che fosse un libertino: si poteva dire di tutto su Oakley, che fosse sporadicamente scontroso e rigido soprattutto in divisa, che aveva sempre quell'aria da uomo vissuto - che un po' non era da biasimargli dato il genere di lavoro che si ritrovava a svolgere - , oppure che volesse sempre usare la ragione, escludendo a prescindere qualsiasi tipo di alternativa legata a qualsiasi tipo di senso, al di fuori di quello logico. 

Tyrone lo rimproverava in continuazione, nonostante avesse meno medaglie e fosse di qualche mese più piccolo di lui. Non smetteva mai di ripetergli di smetterla di essere per certi versi così arrogante oppure costantemente intransigente in placide situazioni. Proprio per questo suo modo di essere, sin da giovane, quando più volte gli si erano presentare sul piatto d'argento certe opportunità, aveva mantenuto la testa sulle spalle.

Eppure, come tutti gli esseri umani, il ragazzo dai riccioli in ordine e la divisa mimetica, nascondeva una parte di sé antitetica a ciò che tendeva a mostrare. Poche erano le persone a cui erano concesse le sue sfumature più empatiche o voluttuose, preferiva mostrarsi per ciò che non era pur di non mettere a rischio il suo vero essere: quello di un uomo estremamente sensibile ma capace di armarsi di uno scudo fatto di imperturbabilità, distacco e formalità.

L'abitudine a comportarsi in questo modo era stato ciò che lo aveva reso così precario e suscettibile negli ultimi giorni. Dopo essersi imbattuto in quella fluente chioma corvina, che tanto ricordava quella distesa di violae nigrae viste in Qatar qualche anno prima, non aveva smesso di pensare a lei nemmeno un secondo, neanche mentre si trovava nella villetta a schiera di June Kennedy, mentre la teneva a novanta sfogando tutti i turbamenti nei confronti di quella situazione. E più lo faceva, più si dannava nella consapevolezza di quanto gli sembrasse oggettivamente sbagliato incolparsi di qualcosa di così spontaneo. 

Non era colpa sua se il suo istinto lo trascinava nei meandri più lussuriosi del suo essere, in un'euforia lasciva ma allo stesso tempo aurea, beato da un ilarità serena generata da quelle vibrazioni che Dorothea gli trasmetteva. Piuttosto, trovava paradossale e un po' adolescenziale percepire tutte quelle emozioni così tardi e così all'improvviso. Non aveva mai provato cose simili con Sierra, June o, esagerando, con Margaret, la sua prima cotta liceale. Aveva trascorso quei trent'anni tra un campo all'altro, concentrato sulla sua carriera, impedendosi di concedersi batticuori o inquietudini. Per lui questo era l'amore, una costante irrequietezza causata dal pensiero di avere un obbligo emotivo nei confronti di qualcuno. 

O, almeno, lo era prima di incontrare lei.

Con questi pensieri ad affollargli la mente, credette per un frangente, di soffrire di allucinazioni. Così assottigliò le palpebre, allungò lo sguardo e l'affanno che gli percuoteva il torace fu a sua volta scosso da un ulteriore accelerazione cardiaca. Li vide parlare pacatamente, mentre camminavano dall'altra parte del campo e Tyrone allungava il braccio per spiegarle, forse, qualcosa sulla struttura. Allora senza neanche pensarci, Oakley riprese a correre, diretto verso di loro pur di dare conferma a ciò che i suoi occhi credevano di vedere. Ma più vi si avvicinava, più quelle sfumature, quei tratti che da lontano parevano combaciare alla perfezione a quell'emblema d'intreccio tra grazia e peccato, lo portavano alla realizzazione che lei non fosse lì.

Si diede dello stupido, un ebete totale per essersi lasciato andare in quel modo, in quell'atteggiamento da ragazzino tredicenne. A peggiorare la cosa fu Tyrone che, essendosi accorto della confusione e delusione sul volto del maggiore, se ne uscì con un «Ti fa così schifo vedermi, Sergente di prima classe?».

«Non lo sono più, ormai.» Gli rispose provando ad uscire da quella situazione. Mentre i due parlavano, riuscì a mettere a fuoco il viso della donna al fianco di Adams, la quale si rivelò essere Ginevra, amministratrice degli uffici di consulenza. Aveva decisamente cambiato look, i lunghi capelli lisci e castani erano stati coperti con ciocche troppo simili a quelle di Dorothea, se viste in lontananza. Pensò che una volta dileguato avrebbe punito se stesso con cento flessioni per aver confuso un volto così maturo con quello fresco e acerbo che lo tormentava.

«Ciao Oakley...», Ginevra gli sorrise ammiccando uno sguardo affettuoso con quegli occhi a mandorla color nocciola tanto espressivi. Oakley nascose la solita agitazione che lo sguardo della collega gli causava, era qualcosa a cui aveva fatto abitudine ma più andava avanti meno riusciva a capire come fosse possibile che lei non avesse capito che lui non fosse interessato.

«Ciao Ginnie.» 

«Non ti chiamerò Sergente Capo!» Tyrone ignorò lo scambio di saluti tra i due colleghi ed esclamò quella presa in giro alzandogli il dito medio. Era così strano pensare che avessero solo pochi mesi di differenza: più passavano gli anni e più trascorreva le giornate con lui, meno riusciva a capacitarsi che fosse il suo migliore amico.

Tyrone era esattamente il suo opposto: cordiale, ottimista, ardito ed estremamente loquace. Si compensavano a vicenda, riuscivano ad andare d'accordo nella discordia dei loro caratteri e, più di ogni altra cosa, ad accomunarli c'era la medesima volontà di restare al fianco dell'altro in qualsiasi situazione. Avevano combattuto sempre insieme, in qualsiasi spedizione, nonostante alcune volte i differenti obblighi li avessero tenuti separati a lungo. 

Dopo tutto, Tyrone era una delle uniche persone di cui Oakley poteva fidarsi: c'era lui nel momento più buio della sua adolescenza, o quando gli arrivò quel messaggio alle tre e ventisette del mattino, oppure mentre combattevano in Yemen. 

C'era il diciannove dicembre di sei anni prima, quando l'alba che segnò una tregua dalla guerra illuminò la stanza in cui si trovava, inconsapevole che di lì a poco sarebbe dovuto scendere di nuovo in campo.

Perché l'amicizia, quella vera e felice, è senza interessi, pretese o obblighi. È l'esserci sempre anche se si è distanti; quando nonostante i chilometri che ti separano dall'altro, sei consapevole di poterlo chiamare in qualsiasi momento che lui ti darà le risposte che cerchi.

Amicizia è ricordarsi che non bisogna pretendere tutto, se per primi non si è disposti ad offrire. È reciprocità di gesti, è sincerità nonostante i difetti e le diversità, è convinzione e sicurezza che l'uno possa contare sull'altro. Oakley e Tyrone non erano solo colleghi che condividevano anni di servizio militare, non si parlava semplicemente di un rapporto costruito dopo anni e anni di amicizia: il loro era un legame che andava oltre quello fraterno.

Ma la ragazza dai capelli corvini e gli occhi eterocromi enigmatici che era ripiombata nella sua vita dopo così tanti anni, aveva acceso in lui una scintilla mai provata prima, un fuoco che avrebbe potuto incenerire ogni sua convinzione, le sue stesse credenze, elimando la logica delle regole che fino ad allora avevano guidato la sua vita, avvampando le fiamme attorno a tutti i pochi rapporti sicuri che da sempre gli avevano infuso fiducia e sicurezza.

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