Evermore - 𝑆𝑜𝑡𝑡𝑜 𝑖𝑙 𝐶...

By dyrneromance

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Dorothea ha ventiquattro anni e un sogno custodito nel cassetto della sua scrivania, tra bobine consumate dal... More

Disclaimer e Cast -
Intro -
𓆰𓆪
𝐑𝐄𝐂 𝟎𝟏
1 - Universi
2 - Portland, OR
3 - Sciarpe di Lino
4 - 15 years, 15 million tears
6 - Tinta sbagliata
7 - Fort Aberdeen
8 - Solo una stupida ragazzina
9 - Abissale
10 - Arvo
11 - In picchiata
12 - Poker e Umiliazioni
13 - Nei corridoi del Monev
14 - Noodles
15 - Ginevra
16 - June Kennedy
17 - La nostra più grande delusione
18 - Buon anno, sorellina
19 - I giardini di Babilonia
20 - Ragno Lupo
21 - Spike
22 - Qui o in camera, scegli tu
𝐑𝐄𝐂 𝟒𝟓
23 - Jack&Rose
24 - Poligamia malfunzionante

5 - Concime per le primule

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By dyrneromance

Aspaldiko – Questa parola basca descrive l'euforia e la felicità provate quando si incontra qualcuno che non si vede da molto tempo.

From sprinkler splashes to fireplace ashes

I waited ages to see you there


Il vicinato di Ranton Town del duemilaquattro conosceva da cima a fondo Tyrone Adams e Oakley Sullivan. Oltre ad essere vicini di casa, ad avere come madri due migliori amiche e a frequentare la stessa scuola dall'asilo in poi, i due amici erano conosciuti da tutti i ragazzini della zona ed erano contesi in amicizia e in amore, o almeno nelle prime cotte. Questi erano tutti fattori che avevano incentivato le loro probabilità di crescere insieme. Si poteva addirittura dire che vivessero in simbiosi. Un po' perché Oakley era figlio unico e trovare una compagnia, che gli era da sempre stata negata, era stata come una benedizione nella sua vita. Tyrone invece vedeva nell'altro il fratello che aveva da sempre voluto: stessa età, maschio e con l'identico piacere che lui stesso traeva nell'infastidire la piccola Dorothea che, all'epoca, aveva appena sei anni. Fonte di divertimento e burle di quelle due pesti che tanto si divertivano a rincorrerla e ad appendere le sue barbie ai rami della betulla del loro giardino, colpendole con terriccio, acqua melmosa della piscina dimenticata a se stessa durante l'autunno e a lanciarle mosche alle quali si divertivano nello strappare le ali.

Strambi, caotici, virili e furbi: questo erano quei due, eppure Dorothea non si era mai lamentata. Non che capisse più di tanto il loro comportamento, soprattutto in tenera età, però sopportava, sorrideva e cercava di partecipare a quelle burlate quanto più possibile. Questo perché era sempre stata sola, un po' per via della timidezza e il suo essere poco incline alla socializzazione, un po' per via del suo aspetto. Paffutella, con gli occhiali arancioni coi brillantini dei quali si era invaghita lo stesso giorno in cui era andata dall'ottico per la visita e li aveva scorti in vetrina. Aveva i capelli come la pece, così corvini e setosi in contrasto con la carnagione delicata, lisci come l'acqua di un laghetto ma sempre fuori posto, talmente arruffati da sembrare mossi a chi non la conoscesse.

Tyrone, per quanto fosse più vivace di lei, era sempre composto e con la fila dei capelli dritta, laterale, messa in ordine dal gel preferito del padre. Anche quando immergeva la manina nel verde della piscina per schizzarle l'acqua putrida, aveva sempre la camicetta nei pantaloncini e i lacci annodati in due perfetti fiocchi.

Eppure, nonostante questa netta differenza, non c'era mai stato giorno in cui Dorothea si fosse sentita in obbligo di incolpare Tyrone del favoritismo dei loro genitori. Perché sebbene da piccola, per un periodo di tempo, le attenzioni si fossero spostate su di lei in quanto figlia più piccola, Tyrone restava sempre il figlio che a nove mesi già camminava, la cui prima parola era stata papà, che a scuola otteneva sempre grandi risultati e che aveva ecceduto nella sua carriera, durante e dopo il college.

Che gli Adams fossero convinti che per diventare una persona di successo bisognasse servire lo stato americano in almeno un settore nazionale, beh questo si era capito. E proprio per questo motivo accoglievano in famiglia chiunque soddisfacesse quel requisito.

Nel duemilasei, dopo il divorzio, Tyrone andò a vivere col padre in uno degli alloggi concessi ai servitori dell'US Army, a poca distanza da Ranton Town. Ciò gli concesse di continuare a frequentare la stessa scuola e di mantenere il rapporto che si era instaurato con il suo migliore amico. Passarono gli anni ma non si separarono mai, c'erano sempre l'uno per l'altro e in ogni situazione. Alcuni anni prima, infatti, i genitori di Oakley morirono tragicamente in un incidente domestico, e fu proprio Evan a prendere sotto la propria ala il ragazzino a cui non poté far a meno di affezionarsi. Fu così che i due adolescenti poterono proseguire per la stessa strada.

Slanciato, due gambe lunghe che all'apparenza, sotto le uniformi pesanti, sarebbero potute sembrare magrissime, le spalle larghe proprio come Tyrone, allenate dagli allenamenti quotidiani e mattinieri a cui non osavano sottrarsi. I capelli erano corti, pieni di ciocche castane dalle punte arricciate che gli incorniciavano il viso delineato ed evidenziato dalla mandibola leggermente pronunciata: veniva persino il dubbio che allenasse anche quella, magari sollevando con i denti carichi pesanti come con quelle buste che trovi ai supermercati in cui vendono gli ortaggi. Aveva gli occhi vivaci, apparentemente scuri e un po' affossati dall'espressione accigliata che le rivolse.

Quando Dorothea scese in salotto per salutare gli ospiti, ricambiò con lo stesso sguardo confuso e sfaccettato, misto all'attonimento e a quel leggero imbarazzo che la distingueva. Nessuno dei due ricordava dell'altro, o almeno non si ricordavano così.

Cresciuti, maturi: lui un uomo, lei che appena poteva definirsi adulta, si osservavano intensamente come ad analizzare l'uno l'anima dell'altra. Gli altri continuavano a parlare tra di loro, c'erano altre persone oltre alla famiglia di Dorothea, eppure i loro occhi furono gli unici a trovarsi in quella marea di sguardi. Era quella sensazione di meraviglia che si prova quando giungi in un luogo che hai sempre voluto visitare, su cui hai fantasticato ad occhi aperti così a lungo e che, una volta arrivato, ti accorgi ti esser tornato nella casa che non credevi di aver abbandonato.

Sentì nascere un estraneo svisceramento dall'ombelico in su, che si dipanava nel petto in un misto di incertezza, euforia e conforto che non aveva mai provato prima. Proprio per questo, quello che ne seguì fu una totale negazione delle proprie emozioni, riducendole a qualcosa di fanciullesco, affrettato e ingiustificato. Si diede della rincretinita perché solo una persona così avrebbe potuto provare quel misto di emozioni per qualcuno che neanche conosceva.

«Oh eccola!», sentì la voce di suo padre venire da destra e dovette sforzarsi con tutta se stessa per distogliere lo sguardo dall'uomo che, dall'altra parte della stanza, avrebbe dovuto ascoltare ciò che Tyrone e una donna sulla sua sinistra gli stavano dicendo.

«Lei è Dorothea, mia figlia.» Suo padre la stava presentando ad una coppia di amici che, tra un discorso e l'altro, scoprì essere genitori della donna che affiancava il fratello. Si rese conto ben presto che la casa era affollata di gente sconosciuta e che ovviamente lei non ne sapeva niente di questa iniziativa presa sicuramente dai genitori. Quando ebbe l'opportunità di congedarsi, si mise stretta in un angolo sulle punte e con il collo allungato per cercare di scovare la madre o perlomeno Tyrone.

Fu a quest'ultimo che si rivolse quando lo notò rientrare in salotto dopo essersi allontanato per procurarsi la bevanda calda che allora reggeva tra le mani. «Che sta succedendo? Non sapevo che avremmo dato una festa.»

«Nemmeno io, te lo assicuro.» Le rispose portandosi alle labbra una tazza fumante dal contenuto sconosciuto, mentre spostava come lei lo sguardo da una persona all'altra. Dorothea si stava spazientendo, non conosceva nessuno e quel soggiorno sembrava pronto a deflagrare da un momento all'altro talmente era soffocante il calore del camino e quello dei corpi accalcati. «Ma ti ho visto parlare con delle persone, suppongo che ti sia fatto un'idea.»

«Sono tutti colleghi di papà e ci sono alcuni miei amici.» Tyrone rispose semplicemente, scuotendo le spalle su e in giù come se fosse nulla di che. Era mai possibile che nessuno riuscisse a coinvolgerla per un singola volta in quelle stupide decisioni di famiglia? Avrebbe potuto prepararsi, evitando di presentarsi in pantaloni della tuta e un maglione vecchio di almeno un quarto di secolo che le aveva regalato Mavis per il compleanno. Così sbuffò, tirò Tyrone per il braccio pur di costringerlo a mettersi davanti a lei, e cercò di nascondersi mentre si districava i capelli con le dita della mano.

«Mamma?»

«Sta versando il brulé di mele.»

Quella specie di conversazione terminò subito, dato che pochi istanti dopo furono raggiunti da colui che l'aveva annientata con lo sguardo nell'esatto momento in cui aveva messo piede tra quella gente. Credette per un briciolo di secondo che non l'avesse notata, mentre diceva qualcosa a Tyrone su un certo Cedric, facendolo scoppiare a ridere. Quando suo fratello si scostò di poco sulla destra, la testa di Dorothea gli spuntò dal fianco sinistro come un fungo e quella parve l'occasione giusta per salutarsi.

«Ciao...», si sentì costretta a dire accennando un sorriso impacciato, sebbene a Oakley sembrasse che si stesse sforzando di trattenerlo.

Tyrone si rese conto di non averli ancora ri-presentanti e si diede dello stupido per essersene dimenticato. «Oakley ti ricorderai di Dorothea, mia sorella. Ricordi cosa le facevamo passare?» Rise guardando la sorella mentre le poggiava una mano sulla spalla, come se stesse ammirando un pezzo da collezione.

«Come non potrei.» La risposta di Oakley la mise in soggezione, perché voleva dire che sì, ricordava perfettamente quella paffuta bambina di cinque anni, con le treccine snodate e quegli occhiali troppo grandi per il suo volto, che continuamente doveva sistemare dato che le cadevano sulla punta del nasino. Dorothea si chiese se ricordasse di quando le tirarono addosso il concime per le primule e di come lei se la fosse fatta addosso, letteralmente, dalla rabbia. «Come stai?»

Quella, era una domanda di circostanza che l'aveva sempre messa a disagio data l'indecisione sul rispondere onestamente, facendo fare una figuraccia colossale all'intera famiglia, e mentire per compiacere l'altro senza farlo sentire in obbligo di mostrare più confidenza del dovuto. Oppure deviare la domanda porgendo la stessa cortesia. L'ultima era la sua preferita.

«Come te la passi?» Le uscì tremendamente male e cercò di pensare in fretta a qualcos'altro che potesse risultare meno impacciato. «Sono anni che non ci vediamo.»

«Per tua fortuna, aggiungerei.»

Ammiccò quella risposta come se stesse cercando di metterla quasi in soggezione. Era soggiogata dal suo modo di esprimersi, di utilizzare lo sguardo per parlare quando le parole non erano abbastanza per esprimersi. Nella vita o si coglie subito l'essenza di una persona, oppure non la si coglie affatto. La chiave di tutto sta nell'empatia che, per quanto umana e utile possa sembrare, è quella che ti prosciuga più di ogni altra emozione. Dorothea si era sempre sentita come una carpa in un mare di infinità di onde salate dove lei, quell'unico essere della sua dolce specie presente in un ambiente che non l'apparteneva, veniva continuamente gettato alla deriva, trascinato dalla quella corrente di stereotipi e regole salate e asfissianti, per poi essere ripreso dalle onde che si infrangevano sulla riva sabbiosa. Quelle onde erano ogni componente della sua famiglia, ogni amica che aveva provato a trascinarla con sé in un mare che non l'apparteneva.

Oakley, in quegli istanti di quella breve conversazione che a nulla avrebbe dovuto far pensare, vestì i panni del pescatore in cerca di specie smarrite da salvare e così, mentre rispondeva a comando a quelle domande non più troppo scomode, lasciò che lui la cogliesse dalla riva, per essere portata in un dolce ruscello cristallino.

Solo che lei ancora doveva rendersene conto.

«Ora che sei grande, puoi tranquillamente sferrare qualche pugno e metterci al tappeto.»

«Spero per voi di non aver motivo di farlo.»

Lui sorrise a quella risposta e così fece anche lei, in quell'intesa che nessuno dei due avrebbe mai immaginato di ritrovarsi, scambiandosi sguardi che forse non avrebbero dovuto condividere con il resto delle persone presenti. Fu in quel momento che Tyrone decise di interrompere il proliferare di quell'affiatamento e in parte gliene furono grati: quello non era né il luogo né la situazione adatta.

«Ricordati che stai parlando con mia sorella...», gli diede dei buffetti amichevoli sulla guancia, il tono era irrisorio e ironico. «E ricordati anche dei tuoi trent'anni suonati, vecchio mio.»

La serata procedette così, tra un brulé di mele e qualche stuzzichino preparato da Anjette, tutti immersi in conversazioni cordiali e di circostanza. Dopo quella breve, brevissima, chiacchierata Dorothea restò sulle sue e nel suo mondo tutto il tempo, nonostante sua madre, una volta finiti i suoi doveri di padrona di casa, avesse provato a trascinarla con sé da un angolo della casa all'altro per tutto il tempo. Sembrò essersi dimenticata di aver messo alla luce alla ragazza più timida e allo stesso tempo esuberante di tutti gli universi riuniti insieme. Paradossale, contraddittoria, un po' incoerente, era così che Dorothea definiva il proprio carattere e per certi versi ne andava fiera. Aveva l'abilità di farsi gli affari suoi tutto il tempo e di intervenire per dire la cosa giusta, ma solo quando era richiesto. Era dettata da quello spirito di sopravvivenza che solo chi ha vissuto a lungo in un ambiente sterile alle proprie passioni o ai propri desideri avrebbe potuto sviluppare. Però alcune volte peccava di eccesso, lasciandosi trasportare da emozioni che non era mai stata capace di controllare, presa dalla furia di quel rabbioso calore che le strisciava lungo le ossa come un mamba che si trascina su per il tronco dell'acacia.

Assorta nella noia e nei suoi pensieri, non si accorse che dall'altra parte della casa, di quel salotto in particolare, in mezzo a masse sfocate e indefinite di uniformi mimetiche e calici semivuoti, c'era un uomo il cui sguardo era alla ricerca del suo. Consapevole di quanto fosse sbagliato quel suo atteggiamento, col senno di poi si ritrovò a pensare a quanto viscidi e inammissibili gli fossero sembrati i suoi pensieri quando l'aveva rivista dopo tutto quel tempo. Non avrebbe dovuto provare quelle sensazioni, in qualità di uomo più grande di più di un paio d'anni, di migliore amico del fratello e del ruolo che ricopriva da pressappoco sei anni. Ma l'essere umano più è consapevole di poter possedere qualcosa di proibito, più brama e desidera di poter conoscere, toccare, sfiorare col proprio respiro, l'ignoto.

Ma com'è che si dice? Senza il proibito, sarebbe tutto un caos; e se tutto fosse proibito, sarebbe un caos ugualmente.

La consapevolezza che quelle sensazioni fossero sbagliate e così proibite, scosse in Oakley quel tremito viscerale che la sola volontà di sperimentare sulla propria pelle le conseguenze verso cui si sentiva messo in guardia, di andare oltre i limiti delineati dagli altri per cedere alla tentazione di sfiorarla, avrebbero potuto calmarlo da ogni incessante spasmo che sentiva percuotergli il corpo.

Lasciava parlare a vuoto chiunque gli si avvicinasse per conversare, aveva altri obiettivi e quelli portavano tutti a lei. Non la ricordava così, era cresciuta meravigliosamente e, per quell'unica volta, maledisse il Maggiore Adams e la signora Anjette per avergliela portata via in quel modo improbo, negandogli il privilegio di osservare quell'unico fiore nontiscordardime crescere sotto i propri occhi, radicarsi, fiorire e poi sbocciare. Riusciva a vedere ancora vivide quelle sue labbra increspate in un sorriso forzato, forse riservatogli in modo innegabilmente increscioso, o quelle iridi miste in due colori così diversi che si chiese indeciso se preferisse il sinistro, tra il blu cadetto e il ceruleo, o il destro, profondamente indecifrabile. Voleva continuare a guardarla, analizzando ogni suo particolare, osservare le espressioni che assumeva, memorizzare ogni movimento dei suoi muscoli facciali che si contraevano in quel sorriso che pareva tanto sacro.

Quando le aveva parlato, aveva avuto come la sensazione di averla già vista prima, durante quegli anni di lontananza. Sentiva come se fin quel momento avesse peregrinato, vagabondato in un cerchio infinito, senza meta o guide, scoprendo infine di esser tornato dove tutto era iniziato. Era un andare e venire dallo stesso posto nello stesso posto; aveva viaggiato fino all'Iraq, in Afghanistan, era stato anche in Corea, eppure non si era mai concesso una meta felice, serena, lontana dagli obblighi e i doveri del lavoro. E come cita il proverbio del Profeta: se la montagna non viene a Maometto, Maometto va alla montagna, e Dorothea era piombata di nuovo nella sua vita, per volere del destino che era l'unico consapevole di come le cose, da quel giorno in poi, sarebbero cambiate.

Quando metà degli ospiti se ne furono andati, gli unici ad essere rimasti erano Oakley e Thomas, un anziano uomo del vicinato che era elogiato, rispettato e voluto bene un po' da tutti in quanto veterano dal Vietnam. Era l'una di notte passata, Tyrone gli prestava attenzione mentre raccontava l'ennesimo aneddoto di guerra, ogni tanto buttava qualche occhiata al padre come a dirgli di trovare il modo di congedarlo il prima possibile.

Mentre ascoltavano, fingendo il loro interessamento ma profondamente tediati da quelle chiacchiere, Anjette e Dorothea si davano da fare per sistemare quanto meglio possibile la casa. Sua madre non sarebbe mai andata a dormire sapendo di trovarsi in una casa messa sottosopra da estranei, quindi Dorothea dovette subirsi le manie di quell'ossessione compulsiva, seguendola con una busta di plastica tesa tra le mani, permettendo alla madre di gettare tovaglioli gualciti e bicchieri di carta vuoti. Invitare adulti per il dopocena, anche se effettivamente la cena non era avvenuta, aveva il vantaggio di non ritrovarsi a fine serata con molte cose da sistemare. Il piano superiore e la cucina, per loro fortuna, non avevano ospitato quella serata e il loro lavoro terminò quando dall'atrio si spostarono in salotto.

I quattro uomini erano seduti attorno al camino e solo uno di loro parve accorgersi della loro presenza. Dorothea gettò via dei bicchieri ammucchiati sul tavolo all'angolo della stanza, dietro le poltrone, mentre proseguiva a rialzare da terra un tovagliolo inconsapevole di avere addosso gli occhi di Oakley.

Il loro arrivo fu una manna dal cielo, primo per l'ultimo uomo citato, poi per gli altri due Adams che lietamente guardarono il signor Thomas alzarsi quasi con fatica dal suo posto e pronunciare: «Una bellissima serata per una bellissima celebrazione.»

«È stato solo un piccolo ritrovo per riunire i colleghi più vicini, ovviamente prima della vera cerimonia.» A Dorothea si illuminò una lampadina in testa grazie alle parole cortesi di sua madre. Come aveva potuto non capire che fosse stato organizzato tutto per Tyrone? Ogni persona presente in quella casa, quella sera, sprizzava orgoglio, medaglie e divise mimetiche da ogni parte.

Quando il signor Thomas se ne fu andato e Anjette decise di aver sistemato abbastanza per quella notte, Dorothea poté finalmente ritirarsi in camera sua, stremata ed estenuata dalla stanchezza. Uscì di casa per buttare l'immondizia nella pattumiera e, ritornata dentro, si mosse dritta al piano superiore senza ulteriori indugi.

Dormì bene, per le prime tre ore, poi qualcosa decise che sarebbe stato meglio bloccare la sua capacità di generare sogni nel modo peggiore di tutti. Aveva questo problema che le capitava soprattutto in periodi di forte stress, che la portava alla totale incapacità di sognare in modo chiaro, chiudeva gli occhi non riuscendo a distinguere figure nitide, queste si allungavano, prendevano forme contorte, perdevano ogni sembianza umana trasformandosi in realtà bidimensionali prive di peso, spessore o proporzione. Poggiavano su uno sfondo cupo, un estendersi nero indecifrabile, arcano e abitato dalle persone che Dorothea si costringeva a sognare. Era così estenuante il cercare di rendere quanto più chiare possibili quelle immagini, che ciò le causava pungenti emicranie che la costringevano a restare sveglia tutta la notte, finché il sonno non si fosse calato sui suoi occhi.

Ad un certo punto fu costretta a rinunciare, ad abbandonarsi allo sconforto nella speranza che quelle ore passassero il prima possibile. Allungò la mano verso il mobiletto posto accanto al letto, accendendo istintivamente l'abat-jour per illuminare quella piccola parte della stanza. Era quasi tentata a riprendere in mano il romanzo rimasto in sospeso, ma un'improvvisa secchezza alla sua gola la costrinse ad alzarsi in piena notte per scendere in cucina nonostante l'orario, la stanchezza e tutto il brulé che si era scolata in corpo. Aveva bisogno di acqua, la trachea le graffiava tremendamente l'interno del collo e fu proprio questo ad imporle di lasciare le calde coperte del suo letto per addentrarsi in quella gelida casa dove i riscaldamenti erano stato spenti. Scendendo i gradini decise che l'indomani avrebbe altercato con chiunque avesse deciso di spegnere i caloriferi durante la notte, come se la sua famiglia diroccata non avesse potuto permettersi quell'agio necessario in un mese così freddo. Oppure l'avrebbe fatto il quel momento, quando all'inizio del corridoio si accorse che le luci della cucina erano accese, indicando che qualcuno era sveglio proprio come lei. Per un attimo le balenò il pensiero che potesse trattarsi di ladri, però dalla spia dell'antifurto sulla parete, in corridoio, capì che nulla era stato manomesso. Nonostante ciò si rasserenò solo quando, entrando in cucina, vide sulla sua destra le gambe di suo fratello sbucare da sotto la semiporta del frigorifero.

«Mi passi l'acqua?» Provò a sussurrargli per non svegliare i genitori al piano di sopra. Ma le parole le morirono gola, in quel secco e arido strettoio, quando vedendo il frigorifero chiudersi, capì che le gambe magre che aveva scorto prima non erano per niente quelle del fratello. Il viso le andò in fiamme quasi istintivamente e all'improvviso mille domande le invasero la testa, passando dal chiedersi perché fosse ancora lì, al perché stesse frugando nella cucina della sua famiglia. Eppure non le uscì nulla dalle labbra, neanche mezza sillaba osò trapelare dalla sua bocca, lasciandola inebetita in quel vortice d'imbarazzo, stupore e sonnolenza. Per un attimo si domandò se stesse sognando, cercando una risposta istintiva pizzicandosi celatamente il lato della coscia.

«Non ce n'è...», Oakley le rispose quasi seccato, come la sua trachea. «Ho cercato ovunque ma sembra che ne siate a corto.»

Dorothea continuò a non rispondere, si limitò a guardarlo mentre lentamente, a passo di lumaca, le parole le arrivarono dritte in testa per essere recepite. Quando ciò accadde, si mosse automaticamente verso il lavello della cucina, aprì lo sportello inferiore e vi cacciò due bottigline d'acqua ed una grande da mettere in frigo. Vedendola in difficoltà, Oakley si avvicinò per aiutarla, e quando lo fece le loro mani per poco non si sfiorarono. La ragazza avvertì però, da quell'improvvisa vicinanza, un acuto profumo agrume che le riempì le narici, colpendole dritto in faccia l'olfatto. Inizialmente la infastidì, non riusciva a farsi un'idea chiara e precisa di quel profumo e a non permetterglielo fu proprio lo stesso uomo, il quale si allontanò subito dopo aver afferrato una delle più piccole quando lei gliela porse.

Rimasero lì a mantenersi lo sguardo a vicenda ancora, mentre sorseggiavano qualche sorso d'acqua, in piedi l'uno davanti all'altra a recuperare il tempo sottratto dalla serata. Lui strinse forse con più forza del dovuto la bottiglina ormai sigillata, nel tentativo di non rispondere a quegli istinti da cui si faceva trasportare da ormai due anni. Perché quando reggi tra le mani una carabina M4 per interi giorni, senza mai staccare la mente da certe armi, diventi schiavo degli istinti che reagiscono allo sgranare dei tuoi occhi, al battito cardiaco decelerato dalla crudeltà che ti travolge, mentre spari, colpisci, togli la vita al nemico perché il ruolo che ricopri ti costringe all'avidità a alla spietatezza. E poi ritorni alla vita normale, come se non avessi passato gli ultimi tuoi tempi a trucidare interi gruppi umani per riportare una stabilità e una libertà che, in cuor tuo, sai non saranno mai raggiunti appieno. Fingi che i giorni precedetti non abbiano lasciato un vuoto in te, dove le uniche cose rimaste sono i frammenti dell'ultima risorsa d'amore destinata a qualcuno che avrebbe voluto ancor più tenerti al suo fianco. Poi piomba lei, così inaspettatamente che gli sembrò di esser tornato in guerra, circondato da altri soldati che, come lui, si erano visti cascare davanti agli occhi una miccia lanciata dal nemico. Mai in vita sua aveva visto qualcuno con quel suo stesso sguardo, con quei suoi occhi eterocromi, profondi ma incredibilmente tristi. Non che ne sapesse molto sul suo conto, eppure sembravano più vissuti di quanto sarebbero dovuti essere gli occhi si una ragazza così giovane. Quel che non sapeva era che avrebbe penetrato lo sguardo di Dorothea fin dentro al suo essere, mentre lei cercava di stagli lontano, stretta nelle spalle ossute, con il cipiglio puntato nel suo.

Rimase a pensarci per tutta la notte, anche mentre le voltava le spalle per uscire da quella gelida cucina, saliva le scale silenziosamente e nello stesso modo si richiudeva cautamente la porta alle spalle, cercando di non svegliare l'amico che russava animosamente nel suo stesso letto.

S'infilò nel letto e solo quando ebbe sistemato le coperte pesanti sul proprio corpo si rese conto di avere ancora quella bottiglina tra le mani. Fossero stati i mille pensieri che scorrevano come acque di un ruscello uno dietro l'altro, scontrandosi con l'unico masso presente, ovvero lei; fosse stata quell'aria così pungente da toglierti dalla testa di avere ancora le falangi attaccate a quell'involucro di plastica sul quale giacevano le loro impronte, unite nello stesso punto per incrociarsi come due petali della stessa falena. Ci sarebbero potute essere così tante ragioni ad averlo spinto a dimenticarsi scioccamente di non aver mollato la presa, ma quella che forse spiegherebbe un po' tutte, è che lui voleva sentirla in qualche modo sulla sua stessa pelle. Era un'attrazione inspiegabile, normalmente ragazze come lei non gli sarebbero mai piaciute dal punto di vista estetico, infatti era proprio l'esatto contrario della modesta quantità di donne bionde dagli occhi magnetici con cui si era dato da fare. Questo fattore avrebbe potuto accodarsi a quegli altri motivi che avrebbero dovuto costringerlo o convincerlo a starle alla larga. Avrebbe dovuta considerarla come una delle tante regole riportare nel codice di arruolamento, un tacito giuramento a sé stesso e alla nazione, al suo migliore amico e a Dorothea stessa.

Si ritrovò intrappolato in una rete ingarbugliata di emozioni che sfidavano la logica delle regole che aveva sempre seguito. Iniziò così l'ennesimo conflitto ma, quella volta, la sua natura era ben diversa: una guerra interiore, una battaglia che avrebbe richiesto strategia e decisioni difficili. Perché il richiamo delle emozioni cominciò a sfidare logica, resistenza e quella disciplina morale che da sempre aveva difeso.







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