Evermore - 𝑆𝑜𝑡𝑡𝑜 𝑖𝑙 𝐶...

נכתב על ידי dyrneromance

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Dorothea ha ventiquattro anni e un sogno custodito nel cassetto della sua scrivania, tra bobine consumate dal... עוד

Disclaimer e Cast -
Intro -
𓆰𓆪
𝐑𝐄𝐂 𝟎𝟏
2 - Portland, OR
3 - Sciarpe di Lino
4 - 15 years, 15 million tears
5 - Concime per le primule
6 - Tinta sbagliata
7 - Fort Aberdeen
8 - Solo una stupida ragazzina
9 - Abissale
10 - Arvo
11 - In picchiata
12 - Poker e Umiliazioni
13 - Nei corridoi del Monev
14 - Noodles
15 - Ginevra
16 - June Kennedy
17 - La nostra più grande delusione
18 - Buon anno, sorellina
19 - I giardini di Babilonia
20 - Ragno Lupo
21 - Spike
22 - Qui o in camera, scegli tu
𝐑𝐄𝐂 𝟒𝟓
23 - Jack&Rose
24 - Poligamia malfunzionante

1 - Universi

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נכתב על ידי dyrneromance

Loskop - dall'Afrikaans è un termine usato per descrivere qualcuno che è smemorato, distratto e un po' svampito. Letteralmente significa "testa (los) - allentata (kop)" .

Ormai è risaputo che l'universo è tutto ciò che esiste fisicamente, un complesso che racchiude tutto lo spazio e ciò che in esso è contenuto: la materia e l'energia, i pianeti e le stelle, le galassie e il contenuto dello spazio intergalattico.

Tutto quello che noi conosciamo è comunemente chiamato universo e lo studio delle innumerevoli supernove, nel corso degli anni, hanno dimostrato che questo, sembra espandersi a un ritmo sempre più crescente. La Teoria della cosmologia inflazionaria del fisico Stephen Feenrey vuole dimostrare come l'intensità del Big Bang abbia generato i piccoli quanti di cui è fatto l'universo, i quali si allungherebbero tantissimo per cercare di riempire lo spazio disponibile, dando origine ad altri scoppi, e quindi ad altri universi.

Oppure lo studio olandese e l'esperimento dei neutroni di Michael Sarrazin e la sua equipe, la cui teoria parte proprio dalla rapida scomparsa dei neutroni, dietro la quale potrebbe nascondersi il passaggio ad un altro universo: cioè i neutroni non decadrebbero, ma passerebbero ad un'altra dimensione.

Quella più nota è la Teoria delle stringhe, il cui studio ha appassionato così tanti studiosi che ne è difficile citarne uno in particolare. Secondo la teoria, la materia è fatta di atomi che a loro volta sono fatti di neutroni e protoni, particelle piccolissime composte da particelle ancora più minuscole dette quanti. Questi ultimi sarebbero fatti di stringhe, le quali si comportano come corde di violino ed emettono delle oscillazioni di energia che danno vita ad altre particelle diverse, come fanno le corde con le diverse note. Generano così infiniti big bang di energia, che a loro volta generano infinitamente una miriade di universi.

I multiversi, secondo alcuni, non sono altro se non "prove" di universi adatti a generare la vita. Quello in cui viviamo sarebbe proprio l'universo con le giuste condizioni. Tutte queste realtà rappresenterebbero universi paralleli, infinite vite identiche alla nostra ma diverse a seconda dei fati: è come quando ci si chiede - E se avessi scelto quell'altro, al posto di questo? - oppure - E se avessi risposto a quel messaggio? - .

Kundera fa un discorso simile, e dice : "[...] In qualche punto dell'universo esiste un pianeta dove tutti nasceranno una seconda volta. Allo stesso tempo, saranno pienamente coscienti della vita passata sulla Terra, di tutte le esperienze che vi hanno acquisito. Ed esiste forse ancora un altro pianeta dove nasceremo tutti una terza volta con le esperienze di entrambe le vite precedenti. E forse esistono ancora altri ed altri pianeti dove l'umanità nascerà sempre di un grado (di una vita) più matura."

La parte razionale di Dorothea Adams, quella quasi discorde al suo lato da immaginifica lettrice, credeva fortemente in queste teorie, attirata dalla stessa domanda esistenziale che quasi tutti gli esseri viventi si pongono anche al giorno d'oggi. Con tutta sincerità, io non l'avrei mai definita "razionale": il motivo si celava dietro all'estrema convinzione dell'esistenza pura e metafisica delle anime. Distribuite in diversi universi, in corpi diversi e con vite totalmente opposte alla sua, queste anime commettevano errori le cui conseguenze venivano pagate dalle anime più pacate. Ne era così convinta che, quando le capitava una giornata negativa, faceva di tutto pur di commettere errori, di litigare con e infastidire gli altri, così da farla pagare a quelle altre versioni di se stessa in quelle altre versioni di realtà.

Dava colpa a quelle Dorothea parallele anche quando i suoi sogni o i suoi incubi si rivelavano nella realtà, facendole perdere lucidità per quella frazione di secondo in cui si rendeva conto di quanto assurda fosse la sua vita.

Ma col passare degli anni, e superata l'adolescenza, si era resa conto che forse la vita era semplicemente troppo prevedibile e che nessuno avrebbe mai potuto determinare il destino di qualcun altro.

Nello Stato Australiano di Victoria c'è un posto magico, campestre e casa della ragazza di cui andrò a parlare. Altona Valles è una distesa di campi fioriti di desert flame e grevillea, che si prolunga per ettari ed ettari in un oceano rosso e verdastro, talvolta interrotto da stradine che collegano la campagna alla città. È come ritrovarsi in un libro di Jane Austen, alcune volte sembrava di scorgere carrozze scoperte e gonne lunghe color polvere tra i vari volti familiari delle poche persone che abitavano quella zona. Gli alberi di illawarra flame circondano le case di periferia e di campagna, raggiungendo addirittura l'altezza di trenta metri. Quando l'albero fiorisce, le foglie cadono ed esso rimane coperto da tantissimi fiori a campana di colore scarlatto raccolti in ampi grappoli su gambi ramificati dello stesso colore. Durante la piena fioritura, l'albero sembra infiammarsi; poi, con l'appassire dei fiori, emergono le nuove foglie verdi.

Le giornate sembravano sempre tremendamente brevi, mentre Dorothea Adams le trascorreva all'aria aperta o nel capanno dove Anjette, la madre, aveva fatto posizionare con fin troppa insistenza l'enorme e colma libreria della figlia. La innervosiva osservare qualcuno stare ore ed ore con il capo chino su delle pagine inanimate, aggiungendo che trovava inutile farlo dato che i romanzi non erano altro che una falsa rappresentazione della realtà. Ma Dorothea in fondo l'aveva sempre saputo che, per essere se stessa, avrebbe dovuto stare lontana dalla sua famiglia.

Lo stridio delle lame graffiava lo spesso strato levigato e ghiacciato della pista, mentre tendeva la mano fingendo di essere un grazioso cigno, muovendosi con naturalezza. A quattordici anni si chiedeva quali fossero i suoi sogni in quegli altri universi, se lì avesse lo stesso talento e se a tale fosse stata data maggior importanza, più di quanta gliene concedeva la sua famiglia. Era dotata di quella disinvoltura piena di grazia che contrastava con la forza immane che impiegava nei passi più difficili. Alla rigidità si alternava la fiacchezza corporea, sciogliendosi e assodandosi ritmicamente, passo dopo passo.

Si diede una spinta con una gamba, drizzò la schiena e, con agilità, alzò per un secondo la gamba opposta in un chassè perfettamente eseguito.

Girava in volta da almeno mezz'ora, invertendo il senso di marcia con un solo piede, roteando il corpo nello stesso senso in cui percorreva quell'astratto cerchio immaginato sulla superficie ghiacciata.

«Alza la destra e piega la sinistra!» Christina la incitò, mentre si occupava del solito, inflessibile, gruppo di bambine. La ascoltò ma per poco non cadde: la sua caviglia sinistra non aveva la stessa forza della destra e restare in equilibrio le risultava ancora difficile. Guardò l'insegnante ridendo scomodamente, la quale rivolse gli occhi al cielo senza dire altro. Sapeva benissimo cosa le avrebbe detto, se avesse parlato, ma era ancor più consapevole che pattinare col cambio gamba non faceva per lei. Percorse tre archi di cerchi immaginari, di lunghezze differenti, raccordati tra loro in un'unica traccia che rassomigliava ad un infinito, portando più volte il peso sul piede destro.

«Non ne sono capace, è inutile insistere.» Aveva detto a Christine una volta raggiunta la medesima parte della pista. La donna emise un grugnito animalesco con i denti, a dirle che era solo l'ennesima scusa da parte sua per non dare il meglio di sé. Non faceva altro che ripeterlo, aggiungendo che era troppo pigra per poter gareggiare. E ogni volta Dorothea le ricordava che c'era un motivo se non si era mai iscritta davvero a un concorso.

Christine Romowld, o semplicemente Tina, insegnava all'O'Brien da almeno una decina d'anni quando Dorothea mise piede per la prima volta nella struttura. Aveva tredici anni, qualche chilo di troppo per poter praticare uno sport simile, la trasandatezza e la goffaggine gentilmente offerte dall'enorme peso della timidezza, la quale costrinse sua madre a non iscriverla ad alcun corso ma ad accompagnarla lì almeno tre volte alla settimana per permetterle di svagarsi un po'.

Quando crebbe abbastanza, e con lei fiorì anche quella maturità e quella forza d'animo per poter riuscire fare passi più grandi, fu Tina a chiederle se volesse entrare in squadra. Ovviamente rifiutò, non sarebbe mai riuscita a mettersi in mostra davanti a tutti, anche se le poche persone presenti nella struttura mostravano sempre stupore sui loro volti. Decise però di iscriversi al corso, spinta anche dell'indipendenza economica raggiunta grazie a ciò che era riuscita a mettere da parte facendo qualche lavoretto nei weekend.

Tina si rese conto sin da subito di quanto duro e impermeabile fosse il coccio di Dorothea e così, dopo svariate prime volte in cui provava a convincerla, smise semplicemente di farlo. Ma teneva a lei più di quanto sarebbe stato ammissibile, più delle sue stesse allieve, e proprio per questo non le importava di dover "perdere" il suo tempo nel condividere i suoi consigli, senza ricambi di alcun genere se non piacevolmente visivi, con quella ragazzina dalla criniera lunga e corvina.

Provò un axel, che le riuscì meravigliosamente essendo il suo cavallo di battaglia. Poi, però, cadde per una semplicissima luna interna.

«Sei solo stanca, torna a casa a riposarti», le consigliò la donna mentre aiutava una bambina a rialzarsi. Dorothea le diede ragione, così la salutò e si diresse negli spogliatoi.

Quel giorno faceva abbastanza caldo, l'aria umida primaverile di novembre stava lasciando spazio all'afa estiva di dicembre. La pecca di vivere in quella zona dell'Australia era l'enorme quantità di pioggia che cadeva costantemente in ogni stagione, per tutto l'anno. Proprio per questo motivo, le giornate in spiaggia erano rare almeno quanto quelle nevose, così ci si limitava a restare nelle proprie abitazioni o ad usufruire dei centri delle città vicine che permettevano di intrattenersi quotidianamente.

Goccioline di pioggia battevano sul terreno australiano anche quel giorno, cadendo leggere sul tetto ligneo del capanno dove la ragazza si rintanò mezz'ora dopo. Aveva dimensioni ridotte rispetto ad una normale e piccola casetta di campagna, ma la trovava così confortevole che poco importava quanto grande o piccola fosse. Si trovava proprio nella parte posteriore alla villetta in cui viveva con la madre, sulla parte destra di un giardino così grande che visibilmente sembrava estendersi ben oltre il limite demarcato dalla recinzione.

Il legno wengé donava uno stile classico ed un'eleganza d'altri tempi, lasciandoti trasportare la mente nelle campagne inglesi della Bretagna. Le finestre ad inglesina, dalla cornice di un leggero carta da zucchero, avevano doppi vetri coperti da una tendina blu notte interna, su cui la luce solare esterna rifletteva raggi cupi e lievemente tetri, specialmente quando aveva bisogno di più privacy e meno luce pur di addentrarsi meglio nella lettura di romanzi o manuali universitari.

Aprì leggermente la finestre, quel tanto che bastava a non far entrare le goccioline d'acqua ma ad accogliere abbastanza aria da non asfissiarla. Gettò il borsone per terra, accanto al letto dalla testiera bianca in ferro battuto e le lenzuola azzurro cielo. Ripose la sua Canon Legria sopra al comodino laterale e solo dopo essere rientrata in casa e aver fatto una doccia veloce, uscì frettolosa di casa raggiungendo la sua amata jeep verde acido.

Doveva recarsi da Thea's land che sfortunatamente si trovava al centro di Melbourne e a venticinque minuti di distanza in macchina. Non era così male, solitamente non le pesava guidare fin lì, però quel quarto d'ora di ritardo avrebbe seriamente potuto mettere in pericolo l'intera lista di compiti che avrebbe dovuto svolgere quel giorno. Che poi non amava così tanto definirli "compiti": amava catalogare nuovi libri, sistemarli sui lunghi scaffali in quel posto che profumava di inchiostro su pagine e carta appena stampata.

Trovò traffico, ovviamente, e si maledisse per essere nata così sbadata. - Ti auguro di rinascere diligente e avveduta - le avrebbe ripetuto la sé tredicenne, ogni qualvolta si fosse trovata in situazioni simili. Aveva il talento di essere così maldestra e sprovveduta di nascosto, lontano dall'attenzione della madre, ma di mostrarsi agli altri come la più vigile e accorta delle persone.

Si era costruita quella doppia faccia grazie a tutti gli anni passati sotto la guida della famiglia, o di quello che ne era rimasto. Non amava mostrarsi per quello che realmente era, spaventata dalla sua stessa sensazione di inadeguatezza e poca autostima che, per forze maggiori, avvertiva dal ruolo apprensivo di sua madre la quale si lasciava andare a quel lato ossessivo del suo carattere, ma sempre e solo nei momenti meno opportuni.

Si scusò con Mateo - collega in quella libreria e unica pecca di quel posto - almeno tre volte prima di chiudere, all'entrata di un cliente, una possibile ramanzina che sarebbe potuta durare a lungo. Fortunatamente l'avrebbe lasciata sola per il resto della mezza giornata a camminare con il sorriso sollevato, immersa in quella marea di copertine e rilegature. Ne leggeva di libri, di letteratura di ogni genere, da quella occidentale a quella orientale, di cinema, di storia, di scienze e più assorbiva quell'enorme ondata di conoscenza, più il suo sogno di scoprire quante più storie, rivelazioni, aneddoti e pensieri possibili, si protendeva ed espandeva nella sua mente.

Com'è che si dice? La letteratura, come tutta l'arte, è la confessione che la vita non basta.

E un po' si pentiva di aver intrapreso quel percorso universitario, quello di legge: si era indirizzata verso quel tipo di studi perché spinta dalla stessa passione di sua madre, dalla quale assorbiva la più grande influenza e una irremovibile soggezione. A dirla tutta si era informata negli ultimi tempi, era venuta a conoscenza di un certo dipartimento di Arte e Scienze Sociali al Trinity College della capitale. Bramava una conoscenza di tutt'altro genere rispetto alle norme, ordinamenti, diritti e sistemi legali.

La sua peculiarità era l'innato bisogno di creare e slanciarsi sempre oltre tutto ciò che rendeva la sua vita così com'era.

Allora lasciava tutto in sospeso, i saggi che avrebbe dovuto studiare, la conoscenza che avrebbe potuto acquisire, l'orgoglio che ne avrebbe potuto ricavarne. Più desiderava di leggere e conoscere, più sentiva i piedi affossarsi in un blocco di cemento, come ad avvertirla che tutto ciò sarebbe potuto rivelarsi sbagliato, la strada più deludente da intraprendere. E quando non afferrava i pattini acuminati appesi dai lacci alla sbarra del letto, si lasciava travolgere dalla vita stessa.

Rintanandosi in un luogo creato dalla propria immaginazione, scorrendo tra le bobine e riprese che le offrivano suggestioni di ogni genere, protraendola in una spirale incessante di quel mondo estraneo e lontano da quello reale.

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