Royal Thief II

נכתב על ידי Destiny_of_the_Soul

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Sola e prigioniera del suo stesso Regno, Lyra capirà di poter contare solo su sé stessa, costretta a stringer... עוד

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CAPITOLO 151
CAPITOLO 152
CAPITOLO 153
Capitolo 155 - Epilogo
ANNUNCIO

CAPITOLO 154

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נכתב על ידי Destiny_of_the_Soul

Sapevo quanto prolifera fosse quella Tribù, eppure realizzai veramente quanti membri appartenessero ai Rayag solo quando raggiunsi il luogo dell'assemblea. 

Appollaiati sui rami più protrudenti e scarni degli alberi circostanti alla grande quercia, si nascondevano nella penombra del fogliame delle appendici superiori, folte.

Immobili e in silenzio, con il viso nascosto dietro i teschi delle loro maschere e in attesa che Nai Nai cominciasse il suo discorso, solo gli scuri mantelli pendenti nel vuoto rivelavano, mossi dal vento, come quelle non fossero statue, ma esseri viventi.

Cercai una chioma cremisi in quella foresta di ossa, ma non riuscii a trovare Thui da nessuna parte.

Un improvviso fruscio di foglie cadute, attirò la mia attenzione.

In un'altra situazione non l'avrei distinto, ma in quell'assordante silenzio le mie orecchie trovarono sollievo in quel flebile suono.

«Signor-»

Si sentì, prima che Dollarus mise a tacere uno dei suoi uomini.

Il raro rossore che riconobbi sul viso dell'omino e la sua postura instabile, mi fecero capire come avesse appena scampato una brutta caduta.

Trattenni una risata strozzata e, per un istante, quasi dimenticai i pesi che mi opprimevano il petto, che però tornarono poco dopo, facendo sbiadire il sorriso sulle mie labbra.

Con un cenno del capo feci segno a Gideon di portarmi al fianco di Dollarus e, giusto il tempo di raggiungerlo e prendere posto, Nai Nai cominciò il suo discorso.

«Molti già sapranno il motivo per cui ho richiesto la vostra presenza quest'oggi.»

La sua postazione era decisamente più comoda e stabile della nostra, seppur meno spaziosa: seduta, su uno dei due troni incisi nella cavità dell'unico ramo spezzato dell'immensa quercia, aveva a stento spazio sufficiente per alzarsi in piedi. 

Con la mano destra stringeva il palmo del nipote, seduto sull'altro trono al suo fianco, mentre con la sinistra le nocche di Aerin.
Del bastone non c'era traccia.

Mi accigliai, mentre un fremito di terrore mi graffiava la schiena.

Non era tanto la presenza del Kelpie in quella posizione di così tanto rilievo a preoccuparmi, ma la sua espressione.

Aerin era rannicchiata in un angolo del ramo, con la schiena ricurva che seguiva la piega naturale della parete interna dell'appendice dell'albero, così tanto stretta, che probabilmente si sarebbe sentita più libera nella prigione del palazzo nella quale era stata rinchiusa per chissà quanto tempo. 

Eppure il suo volto era radiante.

Non l'avevo mai vista così, neanche quando aveva riabbracciato Gideon per la prima volta dopo tanti anni.

«Cosa ci fa lì mia madre?» Sentii Gideon bisbigliare al mio fianco ma, ancora incredula davanti quella scena, non mi voltai per guardarlo.

«È quello che vorrei chiederti io.» Risposi.

Con la coda dell'occhio, lo vidi scuotere la testa. «Non ne so nulla.»

E la cosa era ancora più preoccupante.

«Mio nipote...» Nai Nai continuò il suo discorso. «...avrà l'onore di sposarsi con un Kelpie e, questo incontro, serve anche per ufficializzare quest'unione.»

Anche?
La situazione iniziò ad insospettirmi ancora di più.

Aspettai che la vecchietta proseguisse, ma al posto della sua voce, il mio orecchio sentì prima dei sussurri, vicini.

«Non posso crederci.»

«Ha davvero perso la testa.»

«Capisco che sia anziana, ma confondere un essere umano con un Kelpie...»

«Non ho detto nulla finora solo per non fare un torto a Thui.» 

Mi girai, frenetica, in cerca di quelle voci, ma le maschere nascondevano qualsiasi parvenza di movimento sui loro volti.

«Ci sono alcune dicerie nella Tribù. Qualcuno crede che sia la Principessa.»

Mi irrigidii, rischiando di perdere l'equilibro e cadere dal ramo, ma cercai di non darlo a notare.

Rimasi in ascolto, con lo sguardo fisso avanti ma le orecchie attente a ciò che accadeva dietro.

«Impossibile. Se fosse stata la Principessa ci avrebbe uccisi o svenduti molto tempo fa.»

Era davvero quello ciò che pensavano di me?
Era davvero quello ciò che gli era stato insegnato crescendo?

«E che mi dici dei Rasseln che hanno attaccato il villaggio delle Banshee qualche settimana fa? Non stavano cercando di attaccare la Principessa?»

«Hai sentito anche tu cosa ha detto Thui.»

«Gli credi?»

Silenzio.
Quell'esitazione aggiunse altra angoscia a quella già esistente.

«Io-»

«Ma non è questa l'unica bella notizia che voglio portarvi oggi.»

I sussurri si acquietarono subito alla voce di Nai Nai.

«C'è un altro motivo, degno di festeggiamenti.»

Osservai Aerin e la sua espressione: il sorriso sembrava essersi ingrandito ancora di più.

L'inquietudine mi frustò il petto con maggior forza.

«Il lungo percorso che abbiamo intrapreso anni fa e per cui il mio stesso figlio ha dato la vita, sta finalmente giungendo al termine.»

E come se le mie pene non fossero già sufficienti, sentii Dollarus irrigidirsi al mio fianco.

Questa volta mi girai nella sua direzione, per essere sicura di non essermi immaginata nulla.

Non gli ci volle molto a percepire il mio sguardo su di lui, eppure non osò guardarmi.

Ma io dovevo sapere.
Dovevo capire cosa stesse accadendo, dove Nai Nai stesse portando il discorso, cosa Dollarus sospettasse.

Feci per parlargli, ma mi interruppe ancor prima che potessi cominciare. 

«Aspetta.» Mi disse solo, come se lui stesso fosse in attesa di ulteriori prove che confermassero la sua ipotesi, qualunque essa fosse.

Mi voltai di nuovo verso Nai Nai, la mia impazienza sempre più crescente, ma questa volta la mia attenzione fu attirata da Thui.

Era a testa bassa, con le nocche del pugno stretto spinte contro le labbra e il gomito che gli puntellava la coscia fremente.

Le sopracciglia erano corrugate.

Era come se, obbligandosi a tacere, stesse cercando di mantenere un segreto che gli si sarebbe ritorto contro, ma allo stesso tempo non potesse fare altrimenti che rivelarlo.

Il mio piede iniziò ad agitarsi nel vuoto.

Lui sapeva.

Qualsiasi cosa Nai Nai stesse per dire, lui sapeva.

Ma allora perché non me ne aveva parlato? 
Perché non me lo aveva detto?

«Thui...» Il suo nome uscì dalle mie labbra come un sussurro, un pensiero che aveva inconsciamente trovato voce.

La sua testa scattò, sollevandosi dal pugno chiuso, e i suoi occhi incontrarono i miei.
Le pupille affilate rivelavano il colore dell'ambra, eppure erano spenti.

Durante queste ultime due settimane lo avevo visto convivere giorno dopo giorno con un peso sul cuore tale da ingobbirgli la schiena, eppure mai, mai, mai prima d'ora i suoi occhi erano stati così vuoti, supplichevoli.

Mi ero sbagliata.

Qualunque cosa fosse, l'aveva appena capita ma, a differenza di Dollarus, lui ne era certo.

Vidi la sua bocca muoversi.

Strizzai gli occhi, sforzandomi di leggerne il labiale nonostante la distanza. 

Risultò a tratti confuso e spezzato, eppure inconfondibile: Mi dispiace.

Le unghie spaccarono la corteccia del ramo su cui ero seduta. 

Perché?
Cosa era successo?

Il piede ora era immobile.

Quelle erano state anche le ultime parole di Coline.

Mi sbatteva la testa.
Dovevo calmarmi.

«La battaglia che abbiamo combattuto, ma perso...» La voce di Nai Nai mi fischiava nelle orecchie. «Sta finalmente dando i suoi frutti dopo oramai diciotto anni.»

La corteccia rimasta incastrata sotto le unghie mi punse la carne.

La Grande Vendetta era scoppiata diciotto anni fa.

«Finalmente un altro dei nostri avversari ha avuto la fine che meritava.»

E così, in quel momento, tutto mi fu chiaro: l'evento degno di festeggiamenti, la guerra, il sorriso di Aerin... tutto.

Quell'immagine raccapricciante prese una forma fin troppo concreta nella mia testa, le parole successive assunsero un suono nelle mie orecchie ancor prima di essere pronunciate.

Il cuore mi piombò nello stomaco, annegando nell'inquietudine di un'ipotesi.

No, di una certezza.

Scossi la testa.
Era un tic, nervoso.
Uno spasmo, inconscio.

Una sensazione di nausea mi stava percuotendo l'esofago.

«Gideon.»

Si voltò verso di me.

«Devo scendere.»

«Ma Lyr-»

«Fammi scendere!»

Non stetti a guardare in quanti avessero sentito il mio grido di dolore nel silenzio, in quanti si fossero girati ad osservarmi.

Non sarei rimasta lì un minuto di più.

Volevo solo scendere da quella maledetta pianta, avere la terra sotto i piedi.

Anche se questo voleva dire buttarsi di sotto.

«Nostra Benefattrice, vuoi annunciarlo tu?»

No, no, no.
Taci.

Volevo tapparmi le orecchie.
Gridare e coprire la sua voce con la mia.

Perché se non l'avessi sentito, se solo non lo avessi sentito, avrei potuto ancora negarlo, affidarmi al beneficio del dubbio.

Avvolsi le braccia attorno al collo di Gideon.

Si. Mi stavo sbagliando.
Non era una certezza, ma un mio delirio.
Si, stavo delirando, per forza.

Era la stanchezza.
Avevo solo bisogno di riposare. 

«Lyra mi stai soffocand-»

No, quella che stava soffocando ero io.

Un improvvisa pressione alla testa mi stava facendo mancare il respiro.

Ero in aria, ma era come se stessi sprofondando in un abisso.

Perfino nel lago di Ofelia, quando ero stata sul punto di annegare, adesso mi sarebbe sembrato come prendere una boccata d'aria.

Lì Gideon mi aveva salvata, era stato il mio ossigeno.
Eppure ora, nonostante lo tenessi così stretto, così vicino, non mi aiutava a stare meglio.

Ero sicura fosse l'altezza, forse per l'aria più rarefatta, la stanchezza e la ferita che ancora doveva rimarginarsi del tutto.

Probabilmente Dollarus non aveva controllato bene.

Forse aveva fatto infezione.

Ma ora che i miei piedi avrebbero toccato il suolo sicuramente mi sarei sentita meglio.

Dovevo solo avere un punto fermo sotto di me e anche i giramenti di testa si sarebbero placati.

Ma quando Gideon atterrò e le mie gambe scivolarono via dalla sua schiena, Aerin emanò la sentenza finale, quella che mi avrebbe condannata a morte.

«L'ultimo dei peccatori è morto.»

Un ginocchio mi crollò al suolo.
Forse avevo messo male il piede a terra, prendendo una storta.

Non c'era altro motivo per cui le mie gambe non dovessero reggere il mio stesso peso.

Il colore pallido della mano di Gideon si mischiò con il verde dei ciuffi indefiniti d'erba quando provò ad aiutarmi.

Sollevai il palmo, immobilizzandolo.

Giusto.
Aerin doveva dire qualcosa.

No. Aveva già detto qualcosa.

Aveva pronunciato delle parole... quali, però, non le avevo sentite bene.
Sicuramente non le avevo sentite bene.

Mi alzai da sola, guardando Gideon.

Vidi il mio riflesso tremare nei suoi occhi.

«Sono stanca.» Sorrisi. «La ferita non deve ancora essersi rimarginata del tutto.»

Mi morsi la guancia, spingendo gli angoli delle labbra ancora più verso l'alto.

«Mi fa-»

La visuale risultò più sfocata.

«Mi fa ancora male qui.» Portai una mano sotto la scapola sinistra.

«Lyra quello non-» 

C'era caldo, eppure sentivo l'aria fredda pizzicarmi gli occhi.

Seguirono dei secondi di silenzio che mi sembrarono infiniti.

Perché se ne stava lì immobile a fissarmi?

Stavo bene.
Davvero.
Ero solo un po' stanca.

Stanca, e nostalgica.

Improvvisamente sentivo il bisogno di tornare a casa.
Casa mia.

Ma non mi riferivo né alla capanna in paglia che Thui aveva fatto preparare per me, né al palazzo nel Regno Imperiale, né al rifugio a Kohl.

Il sorriso lentamente scomparve dal mio volto.

Iniziai a digrignare i denti.

Non so perché lo feci, ma concentrarmi sul loro rumore nella mia testa mi aiutò a svuotarla da qualsiasi altro pensiero, a indirizzare la mia attenzione altrove.

«S-sono sicura che del buon riposo metterà tutto apposto.» 

Lo aveva sempre fatto.

Mi voltai.
Le falcate ampie, rapide.

«Tutto apposto.» Ripetei tra me e me, aumentando l'andatura.

«Devo solo dormire.»

Iniziai a correre.
E corsi.
Corsi solo.
Fino a raggiungere la porta della mia stanza.

La aprii, fiondandomici dentro con così tanto impeto da inciampare nei miei stessi passi.

Caddi.

Le ginocchia e i palmi si sbucciarono, iniziando a sanguinare.

Rimasi a terra, ad osservare le ferite.

Non volevo ammetterlo, eppure sapevo che facesse male, malissimo.

Sapevo che bruciasse come se una fiamma mi avesse ustionata.

Non riuscivo a trattenere il pianto.

La sofferenza era troppo forte, asfissiante, mi opprimeva il petto.

Mi piegai su me stessa, ginocchia al petto, attaccando la fronte al suolo, bagnando la polvere sotto il mio volto.

Non singhiozzavo, a stento respiravo.

Il mio volto era contratto in una smorfia, la mia bocca forzata a rimanere aperta.

Annaspavo e, ogni volta, il mal di testa aumentava, così come la nausea.

Iniziai a tossire.
La saliva si mischiò al sapore del sale e della polvere.

Guardavo i miei palmi abrasi, la visuale sempre più annacquata.

Come avevo fatto a sopportare tutto quel dolore per così tanto tempo?

Volevo andare a casa.

Ma sarebbe stato impossibile.
Non sarei mai più potuta ritornarci.

Ora, di quella mia nostalgia, rimanevano solo macerie.

Sollevai il busto con uno scatto.

Ero seduta a letto e delle fitte mi martellavano la testa.

Non mi ero neppure accorta di essermi addormentata.

La stanza era vuota, eppure qualcuno doveva avermi spostata, quello stesso qualcuno che mi aveva bendato le ferite.

Appoggiai i piedi al suolo.

Sentivo le palpebre gonfie e pesanti, ma sapevo che non era per il sonno.

La gola era secca.
Avevo bisogno di bere, ma la caraffa era vuota.

La afferrai, uscendo dalla stanza.

Strizzai gli occhi.

Era notte, avevo imparato a riconoscerlo dalla posizione dei soli, eppure la luce era accecante.

Erano momenti come questi in cui mi mancava il buio.
Momenti in cui solo l'oscurità avrebbe potuto placare le mie emozioni, cullandomi tra le sue braccia.

Ma era inutile rimuginare su cose che non sarebbero potute cambiare.

E avrei dovuto capirlo molto tempo prima.

Abbassai lo sguardo.
L'erba mi solleticava la pianta dei piedi.

Per un istante, mi fermai a fissare i ciuffi verdi spuntare tra le dita.

Mi ero dimenticata di indossare gli stivali.

Mi inginocchiai in riva della fonte d'acqua più vicina, immergendo la caraffa.

Che senso aveva riempire una cosa che prima o poi si sarebbe svuotata?

Che senso aveva combattere per la vita, se poi ci saremmo arresi davanti la morte?

Mi ricordai di sbattere le palpebre quando uno schizzo d'acqua mi entrò nell'occhio.

Un fruscio.

Qualcosa, alle mie spalle, si era appena mosso.

Un tempo, forse, mi sarei allarmata.

Ora invece la mia mente era tranquilla, silenziosa, impassibile.

Ma come una scritta che gli occhi non possono far altro che leggere, le mie orecchie non riuscirono ad ignorare il ritmo di quel suono, il ritmo di quei passi, rendendomi consapevole di come non appartenessero né a Gideon, né a Dollarus o qualcuno dei suoi uomini, né tantomeno ai Rayag, che si muovevano sugli alberi.

Anche gli animali erano da escludere: loro non sarebbero stati così cauti, non ne avevano motivo.

Ma non importava.

Non volevo combattere.
Arrendersi sarebbe stato più facile.

Eppure abbandonai la caraffa sulla riva e iniziai ad avvicinare lentamente la mano all'elsa del pugnale legato attorno al mio stivale.

Ero stanca.
Stanca di tutto questo.

Aspettai qualche altro istante poi, sicuro della direzione, il mio bracciò lanciò l'arma alle mie spalle.

Il mio busto scattò in piedi.
Il pugno già stringeva un'altra daga.

Le bende impregnate d'acqua erano un ostacolo all'aderenza della mano. 

I miei occhi guardarono intorno, in cerca di qualsiasi movimento.

Il respiro si ridusse al minimo.

Ma io volevo solo tornare a letto.

Ed ero sul punto di farlo, quando una voce mi risvegliò dal mio torpore.

«Finalmente hai imparato a non mirare più in basso.»

Il pugnale mi cadde a terra.

No.
Non era possibile.

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