Quando Nasce un Amore

By MarvelAvengersHawk

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Christós, passeggiando per le strade della vecchia Torino, si imbatte in Erika e la aiuta a uscire da uno spi... More

Quando nasce un amore

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By MarvelAvengersHawk

Torino in autunno è magnifica, pensò Christós. Se non fosse stato per l'umidità e per le zanzare tigre, che avevano pasteggiato con le sue caviglie anche attraverso la stoffa dell'uniforme, sarebbe stata perfetta.

Camminando sotto i portici del centro osservava gli allestimenti delle vetrine delle boutique, le sale da tè di antico fascino, i coetanei della vicina università in chiacchiere fra loro, le signore eleganti dell'alta borghesia uscite per lo shopping.

Il lunedì successivo avrebbe preso servizio al lavoro e si era recato in avanscoperta, di sabato. La questura centrale era quasi vuota e i pochi colleghi presenti lo avevano squadrato dall'alto in basso. Il novellino dall'accento romano in divisa inamidata non attirava simpatie. Se lo aspettava e se ne sarebbe fatto una ragione.

«Lasciami» una delicata voce femminile che si lamentava lo distolse dai propri pensieri.

Con la coda dell'occhio intercettò un giovane in abito blu che spintonava una ragazza mora fino a farla cadere a terra.

«Tutte uguali, prima vi strusciate come gatte in calore, poi fate le santarelline. Pensavo che volessi pure...» dalla bocca schifosa dell'uomo erano uscite parole inenarrabili.

Che razza di soggetto si permetteva di utilizzare termini tanto pesanti e volgari nei confronti di una bella ragazza, in una scenata in pieno centro città?

Uno che ricevette da lei la ballerina destra beige, dalla punta nera, sul cavallo dei pantaloni, in un lancio micidiale e che si esibì in un orribile gridolino da eunuco.

«Caspita, che mira» Christós si complimentò.

La bruna aveva centrato l'avversario sui gioielli della regina, addirittura seduta sul pavé.

«Me la pagherai» pieno di cattiveria negli occhietti infidi, il ragazzo slavato dalle guance cadenti si buttò sulla sua vittima, in cerca di vendetta.

«Ora basta. Polizia dello stato italiano, si allontani e favorisca i documenti» almeno uscire in divisa era servito a qualcosa!

L'agente raccolse la ballerina da terra e lo sibilò, tentando di parlare un italiano privo di accento romano.

«No-no, io non ho fatto nulla, è stata lei» balbettò l'altro, cercando la carta d'identità nel portafoglio riposto nella tasca del blazer.

«Certo, una ragazza che pesa almeno trenta chili meno di lei! Permette che l'aiuti?» l'agente dai capelli biondi di riccioli ben definiti tese la mano alla mora che l'afferrò, rialzandosi e sistemando la gonna a pieghe dal tenue colore rosa antico.

«Grazie. Mi chiamo Erika» si presentò, nell'attimo in cui il gigante biondo si piegò davanti a lei, inginocchiandosi.

«Rimettiamo questa» Christós, con garbo, le infilò la ballerina al piede destro, intanto che il buzzurro accompagnatore era rimasto immobile con il braccio teso e il documento in mano.

L'agente restò incantato dalla perfezione della caviglia sottile, dal modo in cui la gamba si univa al malleolo, nel punto più sensuale del corpo di una donna, a suo avviso.

La pelle era nivea, morbida, il dorso del piede allungato alla maniera di una danzatrice classica, le dita minuscole, le unghie curate dipinte di uno smalto opaco chiaro visibile attraverso le calze velate color carne, in linea con la sobrietà della ragazza.

Il profumo di rosa selvatica dell'eau de toilette femminile gli entrò nelle narici, intossicandolo di un filtro stregato.

Erano stati pochi secondi, per lui durati un infinito di splendide elucubrazioni... durati troppo poco!

«Nonna, guarda, c'è Cenerentola col suo principe. Le ha addirittura infilato la scarpetta ed è biondo con gli occhi azzurri» una bambina di circa cinque anni, una miriade di lentiggini sul viso, due trecce rossicce ai lati della testa legate da elastici colorati, strattonò la nonnina, indicando la coppia.

«In effetti, la signorina è bella come una principessa e il poliziotto è un principe moderno. Andiamo, tesoro» l'anziana signora si rivolse prima alla nipote poi a Erika e Christós «Scusatela, ha tanta fantasia».

«Ehm, principe, potrei andare? Ho un altro appuntamento, con un'amica della tua principessa, una cessa che me la darà» il ragazzo col blazer insistette sulla linea della volgarità.

«Mi sfugge il complemento oggetto. Ti darà cosa? E soprattutto cessa non è il femminile di water. Esiste solo al maschile, per definire un uomo di paglia come te» il poliziotto avrebbe voluto usare un termine che non rimandava ai covoni di fieno ma alla ceramica bianca; soprassedette, davanti alla boria del damerino torinese «Riccardo Rinaldi. Signor Rinaldi, lei è solito mettere le mani addosso a una donna? D'abitudine o solamente quando non ottiene ciò che vuole?».

Riccardo restò senza parole e, comunque, non avrebbe potuto giustificarsi in alcun modo credibile.

Erika lo fissava attraverso gli occhiali da vista, stretta nel suo paltò, in un atteggiamento di chiusura, le mani a tormentare il cinturino di cuoio della tracolla.

«È stato un incidente, mi ha provocato lei».

«Dica un'altra bugia e il mio viso sarà l'ultima immagine che vedrà» nel rapporto di dimensioni Christós, allenato quotidianamente, superava il ragazzo di due spanne. Il fisico muscoloso era appena contenuto nella divisa. I bicipiti si gonfiarono nel sollevare il malcapitato dal collo, evidenziandosi attraverso la stoffa. Premette le dita sulla carotide del re della stupidità, il tanto sufficiente a che percepisse un senso di soffocamento.

Rinaldi vide letteralmente nero, farfugliando l'incomprensibile.

«Per stavolta passi. Sparisca, non prima di essersi scusato. E sia sincero, in caso contrario lo capirò» il poliziotto gli riconsegnò il documento e gli sussurrò all'orecchio «So dove abiti!»

Le tre parole furono minaccia e promessa insieme. Più che convincenti.

«Perdonami, Erika, ho sbagliato, non ricapiterà».

«Stanne pur certo» la ragazza gli mandò uno sguardo assassino, osservandolo allontanarsi con la testa infossata fra le spalle.

«Ti fa male?» Christós, preso dalla sublime caviglia, non aveva notato la sbucciatura sul ginocchio destro, appena sopra la ballerina che aveva aiutato a calzare. La calza rotta evidenziava la lesione.

«No, non è nulla. Grazie mille, buonasera» Erika si accomiatò, sperando di potersi spostare velocemente dal luogo del misfatto. Era certa di aver visto passare alcuni colleghi sulla strada principale; non voleva chiacchiere in università e gli studenti avevano notoriamente la lingua lunga.

«Non posso permetterlo. Sediamoci, beviamo una bibita e puliamo la tua ferita» Christós individuò un bar sotto gli antichi portici, scegliendo un tavolino laterale, adatto a una conversazione discreta e alla medicazione.

«Togli i collant in bagno, io vado dentro per recuperare la cassetta del pronto soccorso» senza darle il tempo di controbattere, si infilò fra le porte scorrevoli di cristallo, dirigendosi alla cassa. 

Lei lo seguì, cercando la toilette. Aveva ragione il poliziotto pratico e bello come un angelo; la ferita non era grave ma l'escoriazione doveva essere pulita. Si lavò le mani e gettò i collant nel cestino, per tornare al tavolino dove lui l'attendeva.

Pronto, in una mano teneva una boccetta d'acqua ossigenata, nell'altra un batuffolo di cotone. E si dimostrò un provetto infermiere «Brucerà un pochino, stringi i denti... io soffio» prendendola alla sprovvista, spruzzò il disinfettante sulla carne abrasa e tamponò il ginocchio.

La bruna si lasciò sfuggire un lamento a cui seguì un monsone degno di Eolo, con cui Christós, abbassato verso le sue gambe, alleviò il pizzicore «Meglio?» domandò, alle pozze scure che lo fissavano.

«Molto. È la gentilezza che fa vivere meglio e più a lungo, purtroppo nel mondo di oggi è rara. Sono colpita» Christós era una mosca bianca in un universo di egoismo, lo capì a pelle.

«Concordo. Non conosco i tuoi gusti, mi sono permesso di ordinare la merenda. Niente tisane tristi, ma un sano gelato» il cameriere posò due coppe di cristallo sfaccettato a forma di giglio rivoltato in mezzo a loro, sul tavolo, con lo scontrino già pagato. 

Le palline erano miste dei gusti di creme, ricoperte di cioccolato fondente fuso e di granella di nocciole tostate piemontesi. Ciuffi di panna montata disegnavano ad arte ghirigori golosi, cialde biscottate a forma di cuore completavano la composizione di un mastro pasticcere.

«Ottimo metodo per dimenticare l'accaduto» la moretta sorrise, con l'acquolina in bocca «È un gelato dei supereroi, degno di Hulk».

«Te piacciono i fumetti? Sono un patito, un nerd mancato, cosplay di Star-Lord» mentre si puliva le mani con un fazzoletto umido, si era lasciato sfuggire un te romano al posto di un ti, con naturalezza, e... non se ne era accorto.

«E bon, me piacciono 'na cifra» Erika controbatté in un misto fra il dialetto torinese e un'espressione romanesca, sbottando in una risata di pancia «Sei di Roma».

«Ehm, sì, si sente, vero?». Caspita, la moretta era 'na forza!

«Giusto un pochino. Amo i fumetti e i film sui supereroi, leggere, i programmi di grafica, la musica» si imbarcò in un elenco di attività gradite, fra un cucchiaino e l'altro di gelato. Credeva di non avere fame; invece la bontà delle creme e la piacevolezza della compagnia le avevano messo appetito.

«Anche a me e sì, sono di Roma, trasferito su mia richiesta alla questura centrale di Torino; prenderò servizio lunedì» le spiegò.

«Roma è una città splendida, offre molto a persone della nostra età. Ti sei trasferito per amore, neh?» quale altro motivo poteva esserci?

Christós si passò la mano fra i ricci, in lieve imbarazzo «Veramente, Erika, è il contrario. Roma è enorme, dispersiva. Cercavo un luogo a misura d'uomo, in cui i rapporti sociali fossero più semplici. Torino è una bomboniera al confronto» nonostante l'avvenenza, amicizie e relazioni romane erano state una vera delusione.

Sollevata inspiegabilmente dal suo status di single, lei si aprì a una confidenza «Ti rivelerò un segreto, non rimanerci male. Le cose vanno nello stesso modo anche a Torino».

«L'ho notato. Come ha fatto una studentessa carina come te a uscire con uno smidollato simile? Riccardo è un vero deficiente. Scusa, ma è così» non voleva offenderla, era una semplice curiosità.

Erika sistemò la gonna, lisciando le piegoline con le dita «Sembrava un bravo ragazzo, è un compagno di corso della facoltà di scienze della comunicazione e conosce il mio gruppo di amici. Non credevo che ci provasse in modo tanto viscido al primo appuntamento. Gli ho detto di vederci alle tre del pomeriggio e mi sono vestita da suora, per evitare che si facesse strane idee».

«Diamine, ho frequentato l'asilo dalle suore e, credimi, non assomigli loro nemmeno lontanamente» fu Christós a sbottare a ridere.

Erika arrossì sulle gote, nello stesso momento.

Lui spostò lo sguardo dagli occhi scuri, cercando una distrazione dall'ansia improvvisa che lo aveva avvolto.

La trovò, in un extracomunitario che passava fra i tavoli con un cestino di vimini «Scusa, puoi venire un secondo?».

Il ragazzo, dalla pelle molto scura e dagli abiti dimessi, spalancò gli occhi, al cenno. La divisa non prometteva nulla di buono «Ho il permesso di soggiorno e i documenti in regola» sussurrò in un italiano stentato ma comprensibile.

«Hai frainteso, amico. Volevo comprare delle rose per la signorina» boccioli di rose rosse baccarat spuntavano dalla parte aperta del cestino.

«Christós, no» Erika cercò di opporsi, sapendo già che sarebbe stato inutile.

«Quante?» domandò l'extracomunitario.

«Tutte, ovviamente» il biondo gli tese una banconota da cento euro, che superava in valore il conto dei fiori «però teniamo anche il cestino, per portarle. Per te, principessa» l'agente prese il cesto allo straniero, incredulo della propria fortuna.

Le rose trovarono posto sulla terza seggiola.

«Non dovevi» Erika ne afferrò una e portò il bocciolo al naso. Le rose erano davvero splendide nonostante fossero vendute da un ambulante.

«Permetti?» Christós staccò il fiore dal gambo e glielo incastrò fra i capelli sopra l'orecchio, fermandolo con l'ausilio della stanghetta degli occhiali. Il rosso vermiglio contrastava lo scuro dei capelli, creando una pennellata di colore da pittore francese di fine ottocento.

Christós era troppo perfetto. Ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni risposta sembrava uscito da una fiaba.

Erika si insospettì, forse era un mitomane vestito da poliziotto. Il suo intuito le diceva il contrario, ma volle andare a fondo «Cum al'è che le hai comperate?».

«Per rendere migliore la nostra giornata» replicò, candidamente «Se non ti piacciono, possiamo lasciarle in chiesa, sotto l'altare» sulla destra della caffetteria c'era una chiesetta dedicata a Maria, l'aveva vista passandoci davanti in precedenza.

Le coppe di gelato erano state vuotate, l'aria era rinfrescata. La bruna accarezzò i petali delle rose nel cestino, con la punta delle dita. Sarebbe stato peccato tenerle? No, ritenne «Le adoro. Potremmo andare lo stesso in chiesa? Per un preghiera?».

«Certo» Christós le spostò la sedia e recuperò il cesto «Non è un caso che la chiesa sia dedicata alla Madonna. Un tempo c'era l'usanza di ornare le statue della Vergine con ghirlande di fiori, in particolare rose. Da lì deriva la tradizione del Rosario e dei Fioretti. La rosa è il fiore per eccellenza caro proprio alla Madonna» avrebbe fatto la figura del chierichetto, se ne fregò.

«Sì, lo sapevo già. Sei cattolico praticante anche tu? Ti chiami Christós, la domanda è superflua».

«È inutile, ti sei risposta da sola. Se c'è un destino nel nome, lascerò presto la polizia per il sacerdozio» le dette il braccio per salire i gradini della parrocchia. La porta lignea era aperta, la chiesetta vuota, le pareti spoglie tranne per alcuni dipinti di santi e una raffigurazione in gesso della Vergine Maria. Vi regnava un senso di sobrietà senza eccessi.

«Ho queste, accendiamo una candela ciascuno» infilò due monete da un euro nella cassetta dell'offertorio e accese lo stoppino di due ceri con la fiamma di un altro.

In silenzio alzarono lo sguardo sulla statua bianca della Madonna, ognuno perso dietro i propri pensieri. 

Il mignolo della mano destra di lui sfiorò quello della sinistra di lei.

Le dita si unirono in un suggestivo e inevitabile incrocio fino al termine della muta preghiera che singolarmente avevano rivolto alla madre di Gesù. Senza guardarsi, troppo timidi per cercarsi con gli occhi l'un l'altra, si fecero bastare il minuscolo contatto.

«E' tardi, temo di dover andare. A cinquanta metri c'è la fermata del tram» turbata, Erika bagnò la mano nell'acquasantiera di marmo posta all'uscita della chiesa, cercando refrigerio all'ustione di terzo grado del mignolo nel liquido benedetto, conscia che non fosse una scottatura che si curava con una medicina tradizionale. Le venne in mente la canzone che, nell'ultimo periodo, ascoltava a ripetizione: Medicine dell'attore hollywoodiano Jeremy Renner. Sorrise fra sé.

«Sei contenta perché ci separiamo? Dovrei offendermi» Christós proprio non voleva lasciarla. Vide passare un taxi ed ebbe un'illuminazione. Fischiò per richiamare l'attenzione dell'autista, che lo sentì e si fermò «Ti accompagno io, dai al conducente l'indirizzo di casa tua» le aprì lo sportello e lei si accomodò, come un automa, nell'abitacolo in cui risuonava la musica dello stereo. 

Attraversarono il centro di Torino verso l'abitazione della ragazza, ambedue seduti di tre quarti col viso rivolto verso il finestrino, lei con le rose in grembo, incerti su cosa dire e cosa fare.

Si erano immaginati il loro feeling speciale, la connessione creatasi nei pochi minuti di conoscenza? Era stata un'illusione?

«Quella è casa mia, può fermarsi qui, per favore» alla fine del rapido tragitto, Erika indicò all'autista il suo palazzo, a pochi metri da esso. 

In quel momento il canale della radio passò una canzone cara a tutti e due i passeggeri... proprio Medicine, di Jeremy Renner.

«È il mio pezzo loop del momento, non troppo danzereccio. Ti andrebbe lo stesso di farmi l'onore di ballare?» Christós si precipitò dal lato dell'auto bianca dove la bruna stava scendendo, sperando di non sembrare troppo ridicolo agli astanti della piazzetta limitrofa e, soprattutto, alla sua dama.

«Alzi il volume» Erika, accettata la proposta senza indugio, sollecitò l'autista, non immaginando che la musica aveva richiamato diverse persone a balconi e finestre, anche i suoi genitori.

Che osservarono due figurette danzare sullo sfondo di una Torino magica, illuminata dalla luce di tramonto velato di rosso... in un ritmo perfetto.

I piedi si sollevavano magistralmente a tempo, le gambe scattavano in un abbraccio di contiguità sentimentale. 

Le pieghe della gonna rosa antico si aprivano delicate, petali di un fiore sbocciato nei volteggi; l'uniforme maschile risaltava a contrasto con la sagoma della lontana Mole Antonelliana.

C'era tutto in quell'abbraccio, in quegli occhi negli occhi, in quelle mani nelle mani: la bellezza della gioventù e la purezza di due anime simili e trasparenti.

Furono tre minuti di orologio e un pizzico di eternità assieme, che terminarono con l'ultima nota della canzone.

«Grazie per il ballo» Christós si staccò da Erika a malincuore.

«Grazie a te, per tutto» è stato l'appuntamento più riuscito della mia vita, pensò, e non lo disse per il proprio pudore di bambina.

«Arrivederci, Erika, mia principessa» il poliziotto si inchinò in un baciamano, cercando di portare con sé il sapore della sua pelle, più a lungo possibile. Le rubò soltanto il bocciolo di rosa che lei aveva fra i capelli, senza un'altra parola, semplicemente rimettendole a posto dietro l'orecchio la ciocca scura sfuggita.

«Ciao, Christós» riprendendo dal taxi il cestino di rose e la tracolla, la bruna mosse verso casa, rientrando nel portone. Non le aveva chiesto il numero di cellulare, che peccato. Erano state solo poche ore e sarebbero rimaste esclusivamente un bellissimo ricordo.

«Tesoro, chi era quel ragazzo? E che rose magnifiche, dai, prendiamo un vaso» la mamma di Erika l'aspettava sulla porta dell'appartamento e la tempestò di domande.

La figlia accennò brevemente al pomeriggio trascorso, rimettendo a posto il soprabito nel guardaroba dell'ingresso. Il suo cuore alternava battiti di felicità e delusione.

Quando aprì la zip della borsa per cercare il cellulare, la colpì il profumo che se ne sprigionò: un inaspettato e soave odore di rosa.

Guardò all'interno e vide un rettangolo di carta. Non era un foglietto o un biglietto ma un santino della Madonna con un appunto a penna nella parte superiore, che recitava Non pensavo di meritare un miracolo né una favola, fino ad oggi. Ti aspetto. Christós. Seguiva l'indicazione di una data e un orario: era un appuntamento per il giorno successivo! E ovvio quale fosse il luogo dell'incontro...

Il cuore di Erika, stavolta, perse un battito e poi un altro.

Sentì a malapena la voce di sua mamma mentre il santino le scivolava dalle dita e cadeva sul pavimento «Pensi di rivederlo, Christós?» e udì la propria risposta, forte e chiara «Sì, credo proprio di sì».

Fine

💘

Nota dell'autrice

E' una one shot semplice, che ho impostato come una favola. Qualcuno potrà dire che è piena di cliché, e lo è davvero, perché l'amore vero è un cliché, probabilmente, e pure una favola. 

L'amore è il sentimento più complesso che possa toccare in sorte, se si ha la fortuna di provarlo, ma anche il più semplice. Si compone di tanti piccoli gesti pregni di significato e forse banali o dimenticati, come regalare un mazzo di rose o aiutare una persona in difficoltà. 

Essere gentili, educati e di principi, sulla base dell'educazione familiare ricevuta, generosi e altruisti, non è una debolezza, bensì una forza. 

Probabilmente nel terzo millennio degli "After" i bravi ragazzi non vanno di moda, ma ne esistono ancora. 

L'augurio più grande, è che ogni donna meritevole tu possa incontrare una persona con la tua stessa purezza d'animo. 

Buona vita.





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