Cave magam

By Lice_and_catz

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Le streghe e gli umani non si amano particolarmente, nemmeno a Mediterra, dove sono costretti a vivere gomito... More

Premessa
Dediche
1. Le streghe
2.1. Forse oggi non verrai maledetto
2.2. Forse oggi non verrai maledetto
3. Mai traslare nelle borse altrui
4. Ci pensiamo noi
5. Voudou e aculei
6. Testimone oculare
7. Sanza infamia e sanza lodo
8. Puma e altri animali selvatici
9. La battaglia del pianerottolo
10. Sputa il rospo
11. Non c'è peggior sordo
13. Servizi misteriosi
14. Flora Fabulosa
15. Lo spirito della festa
16. Filogenesi della teoria dei famigli
17. Fa freddo
18. A ciascuno la sua
19. Sistemi comunicanti
20. Non si sputa sulle tradizioni di famiglia
21. Colpi di testa
22. Sintomi trascurabili
23. Analisi
24. Cosa si nascondeva sotto la cattedra
25. Bacio accademico
26. Gita nella palude
27. Cosa covava nell'ombra
28. Per un pelo di donnola
29. Tè e divani
30. In territorio nemico
31. Punti sul vivo

12. Umana avvisata, mezza salvata

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By Lice_and_catz

Si stava truccando davanti allo specchio in camera propria quando la porta si aprì di colpo. Mai una volta che sua madre si degnasse anche solo di bussare. "Allora? Perché qui con la porta chiusa?"

"Non volevo sentire la TV" rispose senza distogliere lo sguardo dallo specchio, vedendo però il riflesso di sua madre, incorniciata dagli stipiti bianchi. "Ora che sono cresciuti un po' potresti passare in negozio a farti fare un incantesimo di estensione".

"Te l'ho già detto, mi piacciono così"

"Sembri un uovo, ti stanno male".

"No, mamma. A te non piacciono, mi stanno come mi stanno. E siccome sono sulla mia testa ti assicuro che vanno benissimo così".

"Perché ti stai truccando?"

"Esco stasera".

"È ora di cena. Non vai da nessunissima parte, signorina"

Sempre la solita storia. "Mamma, te l'ho detto stamattina prima di uscire, e tu mi hai detto che andava bene. Ho ventitré anni, non tredici. E poi Janche è sempre fuori, con lei non te la prendi"

"Lei non va in giro conciata come un pagliaccio il giorno di Carnevale e soprattutto non mi risponde in questo modo".

"Mamma, davvero. Non ho voglia di litigare. Se hai cucinato per me lasci le cose in frigorifero e le mangio domani", commentò esausta rinunciando definitivamente al kohl sulle palpebre, visto che le servivano calma e silenzio per evitare di fare un disastro, ma nessuna delle due cose era disponibile al momento. Appoggiò la matita nera sul tavolo stizzita e si girò a guardare sua mamma. I capelli raccolti in una mezza acconciatura fatta di boccoli perfetti, gli occhiali con gli strass agli angoli tenuti troppo vicino alla punta del naso che tanto assomigliava al suo. Assomigliava terribilmente a sua madre, e se ne rendeva conto sempre di più mano a mano che gli anni passavano. La stessa mascella pronunciata, lo stesso naso e le stesse mani allungate. Gli stessi fianchi. O meglio, sarebbero stati gli stessi fianchi se Chanej avesse avuto venti chili di più addosso. "Non guardarmi così, te l'ho detto. Non ho voglia di litigare". La donna la fissava senza muovere un muscolo, come si fissa uno scarafaggio prima di prendere la ciabatta.

"Se non avessi voglia di litigare faresti quello che è utile per la famiglia ogni tanto. Hai già chiesto la tesi?"

"Cosa c'entra adesso la tesi?" chiese esasperata alzandosi e andando a recuperare dall'appendiabiti attaccato ai piedi del letto a castello la borsa di pelle che portava quando non usava la cartella. La superava di una testa e se si fosse avvicinata abbastanza avrebbe potuto godere della visuale perfetta sulle radici dei suoi capelli, tinti da ormai una settimana, con quell'incipit di grigio sul punto di emergere abbastanza da richiedere un'altra passata di colore che nascondesse il passare del tempo. Aveva smesso di essere la figlia preferita quando aveva compiuto tredici anni, secondo i suoi calcoli, quando sua madre aveva capito che probabilmente la figlia preferiva cose diverse e di certo non voleva fare la parrucchiera. Non c'era niente che non andasse nella professione di sua madre, checché ne dicesse lei, Chanej aveva rispetto per il suo essere riuscita ad aprire un negozio e a tenerlo aperto. Era sua madre il problema. Non il suo negozio. O il suo livello di istruzione, nonostante a lei piacesse tanto rinfacciarle di aver deciso di studiare perché si vergognava di lei. Era l'atteggiamento velenoso e perennemente scontento di qualsiasi cosa il mondo attorno a lei decidesse di fare.

"È importante che tu faccia la tesi se ti vuoi laureare in tempo. Non voglio pagare nemmeno un semestre di più"

"Non pagherai un semestre di più, tranquilla". Alzò gli occhi al cielo e la superò infilandosi nella fessura tra sua madre e lo stipite. Percorse il corridoio alla massima velocità, senza correre, per evitare altre domande. Per sua sfortuna sua sorella era seduta sul divano con in mano il telecomando. "Ehi, dove vai? Non ceni?"

"Mettetemi le cose in frigorifero, ci vediamo dopo" rispose tagliando corto e prendendo la giacca e la sciarpa dall'attaccapanni. Prima che sua mamma potesse raggiungerla, agguantò le chiavi dallo svuota-tasche e uscì dalla porta d'ingresso. Si fermò solamente per infilare la giacca dopo aver fatto tre piani di scale. Si palpò la tasca e sentì un rigonfiamento rassicurante. Come da istruzioni Bastiardo si era fatto trovare al posto giusto. Lo tirò fuori e controllò che stesse bene, e, nonostante il pelo del muso un po' arruffato sembrava parecchio soddisfatto della fuga da ricciocraz. I suoi occhietti neri luccicavano comunque nonostante la luce fioca delle scale. Non prestò troppa attenzione ai rumori che venivano da casa sua, tre piani più in su, aveva cose ben più importanti a cui pensare. Anni prima si sarebbe sentita in colpa a omettere dove stesse andando davvero, ma quelli erano tempi andati, in cui aveva ancora paura.

Nonostante fosse venerdì e nonostante fosse sera, aveva un impegno importante. Avrebbe preso la linea serale per andare a casa di Tibu. Da lì, lei a Cato l'avrebbero accompagnata a un'altra, ennesima, riunione. Questa volta non l'avrebbero lasciata andare da sola. Da lì sarebbero poi tornati nel quartiere studentesco in qualche modo per raggiungere Kizia a casa sua. A quanto pareva Naria aveva dato una festa e abbandonarla completamente da sola in quel marasma sarebbe stato davvero meschino. Quando aveva raccontato loro quel che aveva trovato nella borsa dopo l'assemblea al teatro, subito la sera stessa chiamandole al telefono sulla via del ritorno, in macchina con Ibrahim, era rimasta più sconvolta di quanto probabilmente aveva lasciato trasparire. Doveva essere terrificante sentirsi braccati in quel modo. Dava per scontato che si fosse trattato di una minaccia da parte degli umani, ma come aveva fatto giustamente notare Kizia in tono pragmatico, poteva essere stato Apter e il suo gruppo di trogloditi a scrivere la minaccia, per eliminare due avversari in un colpo solo. Chanej non ne era convinta, ma la decisione di organizzare una specie di scorta personalizzata per Tibu era stata accolta all'unanimità.

Fuori dai palazzoni del complesso dove viveva, chicca dell'architettura razionale e del risparmio dei materiali di costruzione, la città dava gli ultimi segni di vita prima di addormentarsi. Non che Mediterra dormisse mai davvero. Le linee metropolitane chiudevano a mezzanotte, e anche i tram, e i pullman notturni diventavano davvero pericolosi solo dopo una cert'ora e senza famiglio. Con Bastiardo al suo fianco c'era poco che un borseggiatore base avrebbe potuto fare. Dalla sua parte c'era anche l'aspetto, i simili non si attaccano tra loro, quindi quando si sedette vicino alle porte di salita del pullman non sembrò così fuori luogo nel panorama urbano. Non era ancora l'ora dei disperati sui mezzi, c'erano ancora lavoratori di ritorno, impiegati con gli occhi cerchiati e qualche studente di ritorno da qualsiasi attività svolgessero i liceali umani a quell'ora. Ne approfittò per infilarsi i guanti e controllare il cellulare, mentre le luci dei lampioni venivano distorte e stirate come nastri luminosi ogni volta che il bus accelerava. Le fermate da fare erano dieci, ma senza traffico non ci mise nemmeno molto. Era solo la prima piccola parte di una ben più lunga attesa che l'aspettava, al freddo. Pensandoci avrebbe potuto prendere qualcosa di più pesante per affrontarlo, seduta in un corridoio della politecnica non riscaldato. Kizia doveva studiare e aiutare Naria a preparare l'appartamento. Pallia era da sua madre e sarebbe arrivata con la macchina all'ultimo minuto. Rimanevano lei e Cato a poter offrire i loro servizi, nonostante Chanej dubitava che in una situazione di bisogno il ragazzo si sarebbe dimostrato di particolare intraprendenza offensiva. Aveva buoni riflessi, l'aveva visto bene durante il breve scontro prima del seminario, ma non l'avrebbe mai definito un tipo da rissa. La faccia pulita, l'aspetto eternamente ordinato e i vestiti sempre stirati in maniera impeccabile lo rendevano un umano parecchio strano per lo standard "Gladiatore da cartellone pubblicitario" che tanto veniva propinato in giro. Non si sarebbe stupita troppo a scoprire che avesse origini celtiche. Biondo, occhi chiari, pelle pallida. L'altezza era l'unica cosa molto latina. Per quanto agli umani piacesse bearsi della grandezza di Roma, non vi era assolutamente nulla di grandioso nella statura media. Dall'altro lato Ibrahim, dalla Trinacria, di origini probabilmente nordafricane, era un gigante. Molti puristi dell'estetica latina sarebbero rabbrividiti all'idea, per fortuna molti di loro erano morti con le loro idee bizzarre e dannose, sepolti in un qualche cimitero di stato da cui non potevano più far male a nessuno. A una fermata salirono sul pullman tre ragazzi che Chanej capì immediatamente essere strighi. Non tanto per l'abbigliamento colorato, che seppur di rado anche gli umani sfoggiavano, ma per l'espressione. Lo sguardo da preda braccata che sa comunque di essere pericolosa, e anche per i tatuaggi sulle mani uno di loro, un sole e una luna nella foggia degli antichi manoscritti pre-romani che spesso finivano sui libri di storia magici. Difficilmente un umano avrebbe potuto conoscere quel tipo di rappresentazione. Si sedettero dal lato opposto del mezzo. Sentì Bastiardo agitarsi nella tasca e temette che stesse per succedere qualcosa di pericoloso da innescare il meccanismo di protezione del suo famiglio, ma al contrario lo vide solo appoggiare le zampette anteriori all'orlo della tasca per sporgere il muso. Dalla tasca della giacca a vento di uno degli strighi seduti spuntò un musetto triangolare verde acceso. Il piccolo serpente fece guizzare la lingua un paio di volte, e il suo padrone notò lo scambio di sguardi tra famigli e accennò un saluto. Chanej rispose per cortesia e iniziò a contare le fermate mentre i due spiriti si osservavano. Non riusciva a capire se fossero tranquilli e stessero in qualche modo conversando senza aprire bocca, o se si stessero semplicemente studiando. I famigli erano tutti strani, molto più simili a persone piuttosto che agli animali di cui prendevano la forma. Mediamente non parlavano ma trovavano il loro modo di comunicare, a parte Bradamante che era ancora più strana per gli standard dei famigli. Bastiardo rientrava nella media, per essere uno spirito molto giovane era pieno di energie e spesso si controllava male, in compenso era una palla di aculei molto protettivo, anche a sproposito. Allungò un dito e gli fece una carezzina sulla testa.

Iniziò a riconoscere i palazzi di Città Studi, dove Pallia e Tibu condividevano un bilocale vicino all'università. I locali si moltiplicavano, le strade diventavano più larghe e i lampioni erano più numerosi. Si potevano vedere ragazzi accalcati fuori dai bar o dai ristoranti a fumare e chiacchierare. Fece un ultimo cenno agli strighi e scese dal pullman. Affondò le mani in tasca, facendo attenzione a Bastiardo e percorse una traversa secondaria per entrare nel quartiere. All'angolo tra due vie di soli condomini studenteschi, vicino a un anonimo portoncino di metallo c'erano Tibu e Cato ad aspettarla.

"Buonasera, scusate il ritardo"

"Non ti preoccupare, sono io che sono arrivato in anticipo" rispose Cato. Sembrava aver abbandonato l'abbigliamento da università, molto più formale, per un paio di jeans e delle scarpe da ginnastica. Tibu, invece, come sempre, splendeva completamente vestita di bianco.

"Ho pensato che visto che siamo in anticipo potremmo andare a piedi. Camminiamo e ci scaldiamo. Un po' di movimento non ha mai ucciso nessuno" disse Tibu, caricandosi in spalla lo zaino. L'aria era fredda e scaldarsi non era una così cattiva idea. Si incamminarono, Tibu in mezzo a guidare la spedizione.

"Pensi che vi faranno parlare questa sera?" chiese Cato dopo due minuti, fendendo il muro di silenzio che si era immediatamente creato.

"Non so cosa aspettarmi, che è peggio. Potrebbero farci parlare ma non ascoltarci o non contare poi i nostri voti. Se stesse succedendo con un qualsiasi altro gruppo troveresti titoli che inneggiano allo scandalo ovunque. E abbiamo già visto che sono capaci di fare minacce".

"Dovrebbero solo ringraziare il cielo che sei tu candidata e non Kizia, o io o anche Pallia. Non saremmo state così gentili come sei stata tu" commentò dando un calcio a una castagna matta che rotolò e finì addosso a un palo della luce, producendo un suono metallico. "Non hai pensato a fare un incantesimo di richiamo sul foglio? Magari hanno lasciato delle tracce".

"No, era completamente pulito. O si tratta di umani oppure di qualcuno abbastanza sveglio da aver occultato la propria energia" rispose Tibu scuotendo la testa impercettibilmente. Le faceva molta impressione vederla così scorata. Tibu non era l'anima della festa, era semplicemente la persona più integerrima, più buona e più giusta che conoscesse. Ogni tanto si ricordava di quando aveva incrociato lei e Pallia per la prima volta, a metà del primo semestre del loro anno da matricole, quando ancora conosceva solamente Kizia. Si erano trovate assieme nel gruppo di Fondamenti di letteratura magica, propedeutico obbligatorio per tutti gli indirizzi e la noia aveva fatto il suo mestiere. Poche lezioni erano soporifere come quelle e proprio durante quelle ore di noia mortale aveva scoperto che esisteva una sciamana del ventunesimo secolo che ancora non mangiava culturalmente determinati cibi, si vestiva solo di bianco e non consumava carne prima del plenilunio. Pallia aveva anche detto loro che all'inizio le due erano rimaste terrorizzate da lei e Kizia e sinceramente col senno di poi poteva anche capirne il perché.

"Quindi non c'è modo di sapere, con la magia, chi l'abbia scritto" cercò di capire Cato. Doveva apparire tutto così confuso ai suoi occhi. Poi però Chanej dovette ricredersi "Perché non provate a evocare l'essenza di chi l'ha scritto?"

Entrambe le streghe si voltarono verso di lui, colpite e al contempo confuse dal fatto che sapesse anche solo dell'esistenza di un rito del genere. "Non sapremmo comunque a chi appartiene. Le essenze sono davvero inintelligibili senza l'aiuto di un esperto, e nessuno di noi è esperto in evocazione. Poi una volta evocata, il possessore, se fosse magico, potrebbe rendersene conto. Ma tu come fai a saperlo, scusa?" chiese senza molti filtri Chanej, che da un lato era davvero stupita, mentre dall'altro vagamente infastidita che una conoscenza loro, magica, fosse finita così casualmente in mano a un umano. Di certo Cato non sapeva come si praticava l'evocazione di un'essenza, ma improvvisamente sapeva cos'era.

"Mi sono messo a studiare un po'. Ci sono un sacco di libri interessanti in realtà che spiegano tutte le diverse applicazioni della magia e wow, non sapevo servisse qualcuno di così specializzato per un'evocazione, ma non ti preoccupare. Vedrai che non succederà niente stasera. Vedranno che non sei da sola, e che hai un umano al seguito. Sia che siano umani o magici quelli che ti vogliono mettere all'angolo, tu stasera hai dei testimoni" disse Cato e poi si sporse verso il palo del semaforo per chiamare il verde pedonale.

"Aspetta, ti sei messo a leggere un libro di teoria della magia. E come lo stai trovando?" chiese Tibu, incuriosita. Scattò il verde e attraversarono la strada.

"In realtà è molto interessante! Non so se l'autore sia un umano o uno strigo, ma mi ha incuriosito!" parlava velocemente, con entusiasmo che Chanej non sapeva se avrebbe avuto in prima persona per qualcosa di umano specialistico. E davanti a quel pensiero non sapeva se sentirsi in difetto. In fondo il mondo e la cultura umana erano ciò a cui erano costrette e la cultura magica un orpello secondario, agli occhi dei più.

"Cos'è che stai trovando più interessante?" chiese Chanej.

Cato fece spallucce e pensò un secondo. "Difficile a dirsi. Per ora mi sembra tutto estremamente diverso ma interessante. Forse tutto il concetto di mondo degli spiriti, che per me è una cosa completamente estranea". Tibu rise a sentire quella frase e anche Chanej trattenne un ghigno. "Concetto del mondo degli spiriti? È come se si parlasse del concetto di accelerazione. È una cosa che esiste!"

"No, lo so, lo so. Ma è stranissimo pensare che esiste una parte di mondo che noi non possiamo vedere e di cui non possiamo avere nessuna prova fisica. O secondo la nostra definizione di fisico".

"A dirla tutta – rispose Tibu – gli umani possono averne un'esperienza ma è tipica solo di elementi particolarmente sensibili. Esistono i veggenti umani e anche se hanno davvero poco controllo su quel che possono o non possono fare, è la stessa cosa. Non so precisamente quale sia la percentuale di umani sensibili per stato, ma so che a Mediterra è bassa".

"È davvero raro che un umano si interessi così al nostro mondo" riuscì finalmente a dire Chanej.

"Che cosa stupida. Scommetto che ci sarebbe molto meno razzismo se più umani avessero la voglia e l'interesse di leggere queste cose"

Amaramente, Chanej pensò fosse una visione estremamente superficiale. Il problema era più profondo: non era una questione di rapporto con una cultura diversa, era riconoscerla come cultura, riconoscerla come identità. E, soprattutto, riconoscere il valore delle streghe e degli strighi come esseri allo stesso livello. Esseri umani ed esseri magici. Ma non disse nulla, preferendo non rovinare il momento di autocoscienza positiva del ragazzo. Che vivesse quella beate illusione di semplicità ancora per un po'. Girarono l'ultimo angolo e arrivarono a vedere la facciata imponente della Politecnica, protagonista dell'enorme piazzale. Nonostante l'ora di cena qualche studente bazzicava ancora qua e là, la maggior parte si stava però allontanando. Un venditore ambulante stava piazzando il suo carretto-bicicletta vicino a una delle panchine. Si sedette e si mise a mangiare qualcosa.

"Sai già in che aula è?" chiese Cato

"Aula Cicerone" rispose Tibu e tirò fuori dalla tasca un prospettino scritto a mano con una grafia ordinatissima "Pallia l'ha chiesto a Livia e Livia mi ha mandato queste indicazioni"

"Sì, puoi essere sconvolto" disse Chanej notando gli occhi sgranati con cui Cato osservò la grafia di Tibu. Era una reazione comune a quello stampatello che sembrava uscito più stampato che scritto a mano. "Quella non è magia. Scrive davvero così".

"Sai se potremo entrare?" chiese Chanej.

"No, la discussione di stasera è privata. Alle prossime forse, se non c'è nessuna votazione. Anzi, vi ringrazio che mi avete comunque accompagnata, non dovrebbe essere troppo lunga. Abbiamo un limite di tempo molto preciso, massimo un'ora. Quindi alle 20:00, massimo massimo 20:15 dobbiamo aver finito. Dipende anche quando segnano l'inizio ufficiale"

"Aspetta, allora perché ci stiamo presentando così presto?" chiese Cato, mentre erano quasi già arrivati all'ingresso.

"Perché l'ultima volta i rappresentanti umani hanno fatto una riunione privata, praticamente, prima dell'inizio di quella ufficiale, senza avvisarci. Voglio evitare che succeda di nuovo".

"Però così ti sei giocata la cena" osservò Chanej. Tibu fece un mezzo sorriso. "Spero di spaccarmi di pizzette al compleanno di Naria"

"Se ce ne saranno di avanzate" le rispose. "Ora ci conviene entrare".

Si addentrarono nei corridoi seguendo Cato che, come prevedibile, sapeva bene dove andare. Le aule buie facevano uno strano effetto. Anche la maggior parte dei corridoi erano immersi nella penombra e i cortili del primo piano sembravano usciti da un film dell'orrore, cristallizzati nell'aria fredda e immobile, gli alberi già mezzi spogli. Presero uno scalone di pietra bianca che portava al piano di sopra, che per fortuna loro era coperto, non come i portici al piano di sotto. Le balconate della struttura originaria erano state chiuse con dei pannelli di vetro antiproiettile ormai coperto in molti punti da polvere ed escrementi di uccelli. Sarebbe bastata una banalissima runa della purezza per tenerli puliti. La luce era accesa al piano di sopra ma nonostante questo faceva molto freddo. Non si sarebbe tolta la giacca.

Percorsero tutto il corridoio, aprirono poi una porta tagliafuoco grigia ed entrarono di più nell'edificio. Dopo altre tre svolte e una piccola pausa al bagno, arrivarono all'esterno di un'aula con una placca di bronzo affissa accanto alla porta. Dentro, dalla porta aperta, si vedevano i gradoni di legno tipici delle vecchie università. Non aveva un aspetto comodo.

"Eccoci. Noi ti aspetteremo seduti sulle scale mi sa".

Chanej mise dentro la testa e notò che vicino alla cattedra che di solito ospitava il professore erano state messe due grosse scatole di cartone. Vicino c'era un gruppo di studenti umani. Ancora nessun magico era in vista.

"Se vuoi andare a fare un'azione di disturbo questo è il momento giusto" disse Cato, che si stava sporgendo all'interno dall'altra parte. Qualcuno dei presenti si voltò e li guardò male e Chanej si sentì in obbligo di stamparsi in faccia l'espressione più truce possibile. Cercò di fare in modo che vedesse bene che aiutava Tibu a tirare fuori le cose dallo zaino, tenendoglielo, e quando l'amica entrò dandole le spalle, segnò rapidamente un'innocua runa della luce che le fece brillare la mano. La donna strabuzzò gli occhi e tornò a guardare davanti a sé. Chanej poteva solo immaginare l'espressione terrorizzata che si era annidata dall'altro lato della nuca.

"Speriamo vada tutto bene" commentò Cato.

"Nel caso non vada bene ci siamo noi. Hanno visto che non era da sola" replicò Chanej e poi andò a sedersi sui gradini della scala che portava al piano di sopra. Tirò fuori Bastiardo dalla tasca e lo appoggiò sulle ginocchia dove iniziò ad annusare l'aria, probabilmente alla ricerca di qualche odore che significasse pericolo.

"Hai portato i rinforzi, vedo" disse Cato, sedendosi sul gradino accanto a lei e allungando un dito vicino al naso del riccio. Bastiardo lo annusò, non sentì niente di interessante quindi tornò a pattugliare l'altro ginocchio.

"Certo. È uno spirito di difesa, potrebbe essere utile" commentò. In effetti era anche un piccolo modo di fare conversazione.

"Come fai a sapere in cosa è bravo il tuo spirito?"

"Come fai a sapere in cosa sono bravi i tuoi amici?" rispose col suo stesso identico tono, fissandolo in faccia, prima seria, poi ammorbidì l'espressione. Non voleva suonare così aggressiva. "Sappiamo sentire come sono i nostri famigli, li capiamo, la maggior parte delle volte. Non è come avere un animale domestico qualsiasi, senza offesa ai tuoi gatti"

"No no, lo so che sono diversi, perché sono spiriti"

"Sai che hanno anche un'altra forma?" gli chiese Chanej, sorridendo. Voleva tanto sapere se l'aveva letto nel suo libro. Dallo sguardo stupito dell'umano capì di aver detto qualcosa di inaspettato. "Pensavi il mondo degli spiriti fosse uno zoo praticamente?". Riuscì a stento a trattenere una risata. Era una visione così pura e assolutamente adorabile. Cato non disse niente ma strinse le labbra e alzò le sopracciglia. "Non dico che pensavo fosse uno zoo..."

"Ma non ti sei mai chiesto come fosse, giusto?"

L'altro annuì e Chanej si mise a pensare quale fosse il modo per spiegare in modo normale una cosa abbastanza terrificante. "Tu lo vedi così, una palla di ciccia e aculei. Un muso appuntito. Questa è la forma animale che i famigli hanno assunto nei secoli per affiancare i magici nella vita di tutti i giorni, che per la maggior parte del tempo, comunque, si svolgeva in un contesto rurale. La forma spirituale, però, dei famigli può essere di qualsiasi misura e forma. Lo spirito del Mar Baltico, Chudoyudo è grosso come un'isola, mentre ce ne sono altri non più grossi di una capocchia di spillo. Sta di fatto che gli esseri umani non possono vederli".

"E che forma ha Bastiardo?"

"Terrificante, se devo essere onesta. La prima volta che l'ho visto non sono più riuscita a dormire. È un vero e proprio mostro, ma lui lo sa. Però ha scelto una forma molto poetica, per essere uno spirito protettore è un animale coperto di spine".

"Vivete in una realtà che fa molta più paura della nostra, non dico solo a livello della discriminazione e disuguaglianza. Deve far paura conoscere così tanto" osservò Cato, affondando le mani nelle tasche probabilmente per non sentire il freddo.

"Eppure ti sei messo a studiare. Non hai paura di sapere troppo?"

"Lo preferisco al non sapere. Preferisco sapere che esistono i mostri, piuttosto che ignorarne l'esistenza. Ma è una questione personale, c'è chi preferisce ignorare i problemi".

Chanej si sentì punta nel vivo da quell'affermazione. Se c'era qualcuno di magistrale nell'ignorare i problemi era proprio lei, i problemi con la sua famiglia, primi tra tutti. Forse l'idea di sapere da dove spuntassero la spaventava più di quanto le piacesse ammettere.

"Comunque so che è bravo a proteggere perché la sua energia mi dice questo".

"Ti dice qualcosa la mia energia?" chiese Cato, interessato e distratto dal suo cambio di argomento.

"L'energia di esseri complessi è difficile da leggere. Dovresti rivolgerti a Tibu o a Pallia, loro sono più versate. Io al massimo posso interpretare un antico manoscritto e poi farlo ballare".

"Che è comunque una cosa molto interessante" si difese lui con tono convinto.

"Non serve dire balle. Lo so benissimo che non è lo stile di magia che uno si immagina quando pensa a un incantesimo".

"Quello sì, ma non vuol dire che sia meno interessante. Assomiglia al linguaggio dei segni".

"Sai che le rune segnate con le mani sono usate dai magici non udenti per comunicare, come il linguaggio dei segni latino, solo molto più culturalmente nostro. A volte è divertente capire cosa si dicono quando ne incontro in giro. Anche se sono rari".

Si sentirono dei rumori provenire dal piano di sopra e le scale vibrarono mentre qualcuno, più di uno scendeva le scale a passo svelto. Chanej e Cato si spostarono per farli passare. Erano cinque ragazzi, tutti biondi. Ridevano sguaiati mentre scendevano. Poi uno di loro si accorse della riunione in corso e fece segno a tutti gli altri di abbassare la voce, ma scoppiò a ridere nel farlo. Quando li superarono arrivò alle sue narici odore di birra, proveniente dalla borsa di plastica che portava uno di loro. Passando uno di loro si girò a fissare brevemente sia Cato che Chanej, come se non riuscisse a classificare cosa fossero e perché fossero lì assieme. Poi si girò e se ne andò assieme ai suoi amici.

"Strano – disse Cato – non pensavo li avessero riammessi".

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