È morto stanotte il leggendario John Lennon, raggiunto da quattro colpi di pistola appena fuori dalla sua attuale residenza presso il palazzo Dakota, a New York. Il suo aggressore, identificato in una guardia giurata di nome Mark David Chapman, è stato arrestato dalle forze dell'ordine sul luogo del delitto.
Vaffanculo, John.
Tiro giù un altro bicchiere di whiskey, e l'alcool sembra quasi ustionarmi la gola.
La televisione continua a gracchiare, con la voce della giornalista di turno che mi trapana i timpani.
Maledetta puttana.
E sei una maledetta puttana anche tu, John Lennon, una sgualdrina da palcoscenico che mi ha fottuto il cervello.
Lo storico cantante dei Beatles è stato portato d'urgenza al pronto soccorso, ed è stato dichiarato deceduto dai medici alle undici e nove minuti di questa sera. Uno dei proiettili aveva trapassato l'aorta.
Dovevi morire dando spettacolo, vero?
Il whiskey mi fa schifo, ma mando giù un altro bicchiere.
Rock n'roll, baby.
Come quando ci ritrovavamo dietro il Cavern, a ficcarci la lingua fin nella trachea, con le mani alla disperata ricerca di lembi di pelle da graffiare e marchiare.
A te piaceva, il maledettissimo whiskey.
Roba da uomini, dicevi, e io lo leccavo via dalle tue labbra, ubriacandomi del suo e del tuo sapore, mentre con le dita cercavo nel buio la zip dei tuoi pantaloni.
L'uomo ha avuto il tempo di fare qualche passo e mormorare "Mi hanno sparato", prima di crollare a terra. A nulla sono serviti gli sforzi dei medici per rianimarlo, le ferite riportate erano troppo gravi.
A modo tuo eri un adorabile figlio di puttana, che ti presentavi da me e mi sbattevi la felicità addosso.
"Ti porto a Parigi, dolcezza" avevi detto, mentre balbettavo che non avrei mai trovato i soldi.
Avevi sventolato una banconota da cento sterline, infilandomela nel bordo dei pantaloni -come a una fottuta puttana- e mi avevi costretto i fianchi contro i tuoi, esplorando le mie cosce con le mani.
"Troverò il modo di farmi contraccambiare il favore" avevi mormorato sulle mie labbra.
Parigi era il mio sogno e tu lo eri con lei.
Avevamo visto poco della città, troppo presi a scoprire quanto sembrasse diverso farlo senza amore nella città dell'amore.
Mi avevi preso mille volte, sul letto cigolante della nostra minuscola stanza.
Venivi con la bocca contro la mia, suggellata in un bacio disperato per impedire che qualcuno ci sentisse e fosse maledettamente invidioso.
Aspettavo che ti addormentassi e ti scattavo qualche foto, quel tuo viso illuminato dalla luna di Parigi.
Se ti fossi svegliato mi avresti urlato contro che ero una maledetta checca, e mi avresti sputato in viso.
E che importava?
Eravamo giovani e bellissimi, e avevamo il mondo ai nostri piedi.
Mark David Chapman si era conquistato l'autografo dell'artista appena quattro ore prima di sparargli.
Dicevi che la fama ti faceva schifo, con una mano sul culo dell'ultima fan che avevi deciso di portarti a letto.
Io ti urlavo contro la mia gelosia e finivamo per prenderci a botte dopo ogni fottuto concerto, a spaccarci le labbra e gli zigomi con pugni piazzati bene.
Ti gridavo che non ero il tuo giocattolo e tu ridevi, prendendomi la testa fra le mani e mordendomi le labbra fino ad approfondire ogni singola ferita che vi avevi lasciato, soffiandomi addosso che ero solo la tua puttana e senza di te non sarei stato niente.
Era una gara a chi si faceva più male, e tu vincevi sempre.
L'assassino ha proferito poche parole contro la futura vittima, «Ehi, mister Lennon, sta per entrare nella storia!», mettendo fine a una leggenda che aveva cambiato l'immaginario e la musica del secolo.
"Io non ti amo"
Lo ripetevi dopo ogni fottuto pompino, afferrandomi dal colletto per costringermi ad alzarmi.
"Cristo, quanto sei debole, Paul"
E mi baciavi, reclamando in modo osceno le mie labbra, saggiando dalla mia lingua il sapore del tuo stesso seme.
Ci trovavano a terra, in un bagno di sudore, ancora avvinghiati l'uno all'altro, a emettere grida che ci avrebbero trascinato all'inferno.
E io ero la tua obbediente puttanella, che si controllava per non lasciare solchi e graffi sulla tua schiena bianca, mentre tu mi mordevi e mi marchiavi finché non ero livido e dolorante.
Era il nostro modo di fare l'amore, consumare quelle scopate contro il muro sporco del retro di un locale o nel buio di un camerino, per poi crollare l'uno sull'altro.
E a quel punto andava bene anche qualche carezza, giustificata dal fatto che eravamo troppo storditi dal piacere per poter ragionare davvero.
"Ricordatelo, Paul: io ti scopo e basta" mormoravi, prima di addormentarti sul mio petto, sfinito dall'orgasmo.
John Lennon si era lasciato alle spalle, dieci anni prima, i Beatles, poi la lotta impari con il governo americano e con l'FBI. Aveva anche ricominciato a comporre, dopo aver trascorso un periodo di assoluta reclusione.
Un attimo prima che salissimo sul palco ingoiavi qualche pasticca, per calmare l'ansia che ci devastava le vene, e poi mi baciavi.
Gli altri ci guardavano fisso mentre ti prendevi tutto di me, divorando la mia bocca con una fame vorace e nervosa, rincoglionendomi del tutto e lasciandomi caldo e frastornato, del tutto impreparato alla folla che ci aspettava.
"Pensa a ciò che ci aspetta dopo, dolcezza, e fammi sognare" sibilavi al mio orecchio, tormentandomi il lobo fra i denti.
Dovevo concentrarmi al massimo per non lasciarmi distrarre dagli sguardi lussuriosi che mi lanciavi durante l'esibizione, dal tuo culo stretto nel tessuto dei pantaloni.
Non aspettavi neanche i saluti finali per sbattermi dietro le quinte, incurante degli sguardi disgustati dei tecnici, e mi sussurravi all'orecchio un "Cazzo, quanto ti voglio" che mi impediva di ragionare su qualsiasi altra cosa non fosse trovare un luogo appartato dove lasciarmi scopare.
Il suo nuovo album, Double Fantasy, era uscito appena tre settimane fa. Il secondo sarebbe dovuto essere Milk & Honey, un album che Lennon non completerà mai.
L'unica volta in cui ti avevo lasciato un segno rosso sul collo -un succhiotto, roba da tredicenni- mi avevi tirato uno schiaffo così forte che ero crollato a terra.
"Non ti apparterrò mai, non sono un cazzo di vitello su cui marchiare le tue iniziali, vedi di ficcartelo in testa" mi avevi urlato, afferrandomi dai capelli e gettandomi un po' più in là.
E lo intendevi davvero.
Il giorno dopo ti avevo trovato inginocchiato davanti a Brian, nel mio camerino, e ti eri voltato verso di me con un sorriso beffardo e vittorioso insieme.
"Ah, McCartney, hai voglia di un ménage à trois?" avevi chiesto, asciugandoti maliziosamente le labbra con il dorso della mano.
Avevo pianto.
Così tanto che avevamo dovuto cancellare il concerto previsto per quella sera, così tanto che in giro avevano iniziato a mormorare che fossi malato, che stessi morendo.
Così tanto che eri venuto davanti camera mia e mi avevi ordinato di aprirti.
Ti eri seduto sul bordo del letto e avevi afferrato la chitarra, cantando fino a far nascere sul mio volto il più puro dei sorrisi.
"Of all the love I have won or have lost, there is one love I should never have crossed.
He was a boy in a million, my friend.
I should have known he would win in the end
I'm a loser, and I lost someone who's near to me.
I'm a loser and I'm not what I appear to be".
Non era importante il fatto che sicuramente avrebbero cambiato le parole di quella canzone, le parole che cantavano di un amore da froci.
Era quanto di più simile alla tenerezza che avessi mai fatto nei miei confronti.
Così ti avevo chiesto se quei versi erano per me, e tu avevi detto che non mi amavi e non lo avresti fatto mai, però ero la cosa più vicina all'amore che conoscevi.
Me lo ero fatto bastare.
Orde di fan newyorkesi peregrinano fin qui, al Roosevelt Hospital, per rendere omaggio a un eroe sconfitto. Lennon aveva finito di registrare Walking On Thin Ice e sembrava aver recuperato la passione che lo caratterizzava negli esordi con i Beatles.
"Siamo la band migliore che questo fottuto mondo abbia mai conosciuto" mi giuravi, elettrizzato, spogliandomi ferocemente dei vestiti e trascinandomi in un vortice di passione e vizi.
A quei tempi non facevamo nemmeno in tempo ad arrivare fino al letto, e finivamo per far sesso su un tavolo, sul pavimento, a volte sulle scale.
Ci coprivamo come capitava, e mentre rollavi accuratamente una canna l'unico commento che riuscivo a strapparti era che ti ero divertito, che era stato divertente.
Tu ti divertivi e io mi innamoravo sempre di più, e sentivo l'amore soffocarmi come un cappio al collo.
Così un giorno avevo raccolto tutto il mio coraggio.
Ti avevo preso in disparte e ti avevo detto due sole parole.
Avevi ridacchiato, scuotendo la testa, e avevi semplicemente risposto "Lo sai che non me ne frega un cazzo, Paul", accendendoti una sigaretta.
Ancora una volta avevi preso quel cappio e ne avevi fatto un collare con cui tenermi al guinzaglio.
Testimone dell'accaduto è stata la moglie Yoko Ono, ora in grave stato confusionale.
Non volevi che ci fosse nessuno in mezzo a noi.
Nessuno più, meno, nonostante o come te.
Solo tu.
Solo tu.
Nella mia vita dovevi esserci tu e basta, senza metri di paragone.
Mi avevi riso in faccia quando ti avevo detto che sì, Linda mi piace. Sai, John, forse la sposo.
Avevamo passato il mio addio al nubilato nella tua macchina, stretti l'uno all'altro, mentre gli altri ci aspettavano per dare inizio ai festeggiamenti.
Mi avevi preso senza delicatezza, spingendo in me con tutta la rabbia che avevi dentro.
Con le mani affondate nei miei capelli mi avevi giurato che sarei stato sempre tuo.
"Puoi raccontarti quante stronzate vuoi, Paul" avevi ringhiato, con gli occhi offuscati dal piacere crescente, "Ma tu appartieni a me".
Ero rimasto sveglio tutta la notte, a scostarti i capelli dalla fronte e a baciarti dolcemente le palpebre e le guance.
Avevi ragione, avevo realizzato, mentre incastravo l'anello al dito di mia moglie.
Quello che non capivo era che, in realtà, quello che aveva una maledetta paura di appartenere a qualcun altro, eri tu.
La moglie dell'artista si rifiuta per il momento di parlare davanti alle telecamere, troppo affranta per la perdita del consorte.
Lei era arrivata come un temporale estivo, lei era arrivata e io ero scomparso, lei era arrivata e ti aveva portato via con sé.
"Ho una donna, Paul" mi avevi informato, secco e coinciso, senza neanche guardarmi negli occhi.
I nostri incontri erano continuati, sempre al buio, sempre di nascosto, come gatti randagi alla mercé della notte.
Ti stringevo le carni così forte da farti urlare, pur di farti provare la metà del dolore che provavo io, e intanto restavo silenzioso.
Durante quelle scopate piangevo, senza fermarmi neanche durante l'orgasmo, che raggiungevo senza emettere il minimo suono.
Avevo passato anni ad aspettare qualcosa che, ora lo capivo, non sarebbe mai arrivato.
Avevo passato anni a baciare labbra smaniose di provarne mille altre.
E tu mi urlavi di reagire, mi picchiavi, mi umiliavi, mi davi il miglior sesso della mia vita, scrivevi canzoni con me.
Tutto pur di rompere quella coltre di indifferenza in cui mi ero rintanato.
Tutto, pur di illuderci che fosse ancora come prima.
Piangevi con me, stretto alle mie cosce, odiandomi come mai avrei creduto possibile.
"Vaffanculo, Paul, vaffanculo" urlavi, soffocando le tue urla contro la pelle sensibile del mio collo, torturandola fino ai lividi.
Già allora profumavi di profumo che non era più quello del tuo corpo sul mio.
Non ci resta che aspettare le dichiarazioni delle persone che più gli erano vicine.
"Me ne vado" avevi detto semplicemente, fissando i tuoi occhi nei miei.
"Io e Yoko ce ne andiamo via, Paul" avevi spiegato, scrollandomi per le spalle.
Se fossi stato più coraggioso ti avrei tenuto con me.
Invece avevo pianto, una volta in più, tanto ormai non faceva differenza: avevo perso il conto delle lacrime versate per te.
Tu mi avevi preso il viso fra le mani, e mi avevi sfiorato le labbra nel bacio più casto e puro che mi avessi mai dato.
"Non ho più bisogno di te, Paul" avevi mormorato, dolcemente.
E te ne eri andato per sempre.
Incuriosisce specialmente la reazione dell'ex compagno di band Paul McCartney, con cui i rapporti erano divenuti tesi in seguito allo scioglimento dei Beatles.
Sarà una lunga notte.
Mi verso l'ennesimo bicchiere di whiskey, e lo alzo in aria come a brindare con il vento.
Rock n'roll, baby.
Note
Tra le moltissime storie che ho scritto sui Beatles, questa è di sicuro (anche se molto vecchia) tra le mie preferite.