Cose che a volte capitano

474 20 22
                                    

Il portone del civico 59 di via San Gennaro ad Antignano era enorme. Almeno così sembrava a lui che aveva solo sei anni ed era uno scricciolo. Don Vittorio, il portiere, quando il tempo era bello, passava ore appoggiato a quel portone a parlare con donna Giovannina che vendeva legumi nel negozio accanto.

«Uè, Sasà, ce l'abbiamo fatta pure oggi» gli gridava Don Vittorio quando lo vedeva rientrare da solo da scuola.

«Buongiorno, don Vitto'» rispondeva il ragazzino con voce squillante.

Era un bambino sveglio. Per questo, e anche perché l'Istituto Grasso era a pochi isolati di distanza, i suoi gli avevano concesso di andare a scuola da solo. A passo svelto e senza fermarsi. Poi, a dirla tutta, nel 1959 al Vomero pericoli non ce n'erano.

Sasà s'infilava nel cortile e svoltava a sinistra, nella Scala A. Il palazzo era antico e aveva uno scalone bellissimo, largo più di due metri, con i gradini di marmo bianco, un'inferriata tutta ghirigori e un corrimano di legno scuro e lucido cui lui si aggrappava per salire fino al terzo piano. Abitava lì, a casa di nonna Maria, con mamma e papà. Su ogni pianerottolo c'erano due appartamenti, uno di fronte all'altro, e due ballatoi, uno per appartamento, che davano sullo scalone. Sasà saliva e accennava un saluto con la mano ai due uomini affacciati al ballatoio della casa di nonna. Stavano quasi sempre lì. Ogni volta quelli gli facevano segno di stare zitto e lui abbassava lo sguardo come se avesse ricevuto un rimprovero. Non aveva paura di loro, li conosceva da sempre. Gli mettevano allegria con quegli abiti fuori moda, ma soprattutto sapeva che loro gli volevano bene.

Casa di nonna aveva un corridoio d'ingresso con una grande finestra. Era lungo almeno otto metri e, proprio alla fine, c'era la portafinestra che dava sul ballatoio. Era chiusa a chiave da sempre e nessuno in casa sapeva che fine avesse fatto la chiave. La porta aveva gli scuri inchiodati e una pesante tenda di velluto rosso scuro copriva il vano del muro maestro in cui era alloggiata.

Lui, di tanto in tanto, s'infilava dietro la tenda e tastava gli stipiti e gli scuri per vedere se c'era un meccanismo segreto.

«Sasà, ma che fai? Giochi a nascondino da solo?» gli diceva ogni volta nonna Maria.

Lui usciva, sconfitto, ripromettendosi di tornare in un altro momento a cercare il meccanismo segreto. Perché i due uomini sul ballatoio, il modo di entrare in casa lo trovavano. Ma forse "loro", semplicemente, non avevano bisogno di aprire la porta.

Non aveva mai detto a nessuno di quei due. Non doveva parlare di loro, lo aveva capito da tempo. Dicono sia impossibile avere ricordi dei primi due anni di vita, eppure Sasà aveva una scena impressa nella memoria.

Era piccolo e dormiva ancora in camera di mamma e papà, in un lettino con le sponde alte, nell'angolo diametralmente opposto alla porta. Quasi ogni notte si svegliava, si alzava in piedi tenendosi alle sponde e cominciava a piangere. Tra lui e la mamma c'era un comodino con un abat-jour, sempre acceso, che emanava una luce fioca. "Loro" si affacciavano alla porta, vestiti sempre allo stesso modo. Quello alto e magro, con i capelli neri impomatati, aveva un vestito blu scuro. L'altro, basso, panciuto e stempiato, portava un abito liso di un brutto marrone rossiccio. Mentre la mamma lo guardava dal lettone e stentava ad alzarsi, loro si avvicinavano e gli facevano segno di stare zitto. Lui dapprima s'incantava a guardarli alla luce fioca dell'abat-jour, poi riprendeva a piangere. Allora la mamma si decideva ad alzarsi. Mezza addormentata cercava le pantofole. Nel frattempo "loro" erano già andati via. Sasà li seguiva con lo sguardo e intanto con il braccino teso indicava la porta alla mamma.

«E sì, bello di mamma, domattina usciamo. Ora è notte e si dorme» diceva lei prendendolo in braccio.

«Un'altra volta 'sto capriccio?» borbottava il papà nel dormiveglia.

Cose che a volte capitanoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora