Capitolo 2

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Il signor Jeffers l'avrebbe uccisa.

Non esisteva alcuna possibilità, né una misera scusa, che potesse dissuaderlo dall'usarla come bersaglio umano.

Probabilmente l'avrebbe strangolata, oppure l'avrebbe finita a colpi di bastone per poi seppellire il suo cadavere nel retro dell'edificio, o magari l'avrebbe avvolta in un sacco nero, legata a un masso e gettata nel fiume Tamigi, dove probabilmente nessuno l'avrebbe mai più ritrovata.

Insomma, di modus operandi per mandarla all'altro mondo ne aveva tra cui scegliere. L'unica costante tra i vari scenari restava quindi la sua morte per quell'ennesimo ritardo che l'insegnate di arte non le avrebbe perdonato.

Era morta.

Imbottigliata nel traffico e morta.

 Kate batté il palmo sul volante. Un colpo frustrato dopo aver lanciato un'altra occhiata all'orario sul display del telefono ed essere letteralmente sbiancata nel realizzare che il suo ritardo ammontava a una trentina di minuti abbondanti.

Sbuffò e continuò a tamburellare con le dita, per la smania di trovare un modo per tirarsi fuori da quel macello, quando si decise a non aspettare più il semaforo verde. Non mancavano che un centinaio di metri perché lei potesse finalmente raggiungere l'università, ma quella manciata d'asfalto sembrava non voler finire mai.

Ci sarebbe invecchiata su quella strada, e anche se sarebbe stata comunque una sorte migliore di quella di affrontare l'ira del suo insegnante, non avrebbe potuto immaginare una fine più indegna, triste e banale di quella.

Sbuffò annoiata e appoggiò la testa al finestrino, quando Jaz la chiamò ancora: «Dove diavolo ti sei cacciata? Muoviti, che hai ancora qualche possibilità di salvezza.»

«Sto arrivando» borbottò, ingranando la marcia per avanzare a passo di gigante, quel tanto che le era sufficiente per sopraggiungere all'agognata entrata. «Ci vediamo dopo»

«Sì. A dopo.»

Fece quindi che parcheggiare la macchina e, seppur di malavoglia, sfilò le chiavi dal cruscotto e aprì la portiera.

Prima o poi avrebbe comunque dovuto affrontare quella tortura.

Kate si passò una mano tra i capelli, cercando di dare una parvenza di senso a quell'esplosione di ciocche e, dopo essersi sincerata di aver chiuso la macchina, prese a camminare con passo blando, sperando che tutte le scuse che avrebbe dovuto sostenere dì lì in seguito si riducessero drasticamente al minimo. Niente di più sbagliato, ovviamente.

«Be', eccoci arrivati» commentò, rallentando di un poco il passo, quasi volesse trattenersi per qualche altro istante in quella conversazione privata, seppur fosse evidente che non aveva altra scelta se non quella di entrare in aula.

Il tempo appena sufficiente perché i suoi occhi mettessero a fuoco il gruppo di studenti rimasti a osservare la sua entrata, quando però arrivò a concludere quel sondaggio visivo, si rese conto di un particolare. Fra tutte quelle occhiate decisamente conosciute, amichevoli e non, c'erano un paio di occhi limpidi e chiari che la fissavano con una chiara espressione di sfida, dalla sua postazione accanto alla cattedra.

«Mi scusi» si sforzò di dire, come se qualcuno le stesse strappando una a una, quelle lettere. Una fastidiosa pinza che martoriava la sua lingua a ogni suono emesso, «sono rimasta un po' bloccata nel traffico.»

Aaron Wayne- per tutti "Professor Wayne", nonché suo nuovo insegnante di arte – continuava a osservarla con l'accenno di una smorfia a piegargli le labbra, quasi si stesse trattenendo a sento dal gridarle in faccia.

Se ne stava appoggiato alla cattedra a braccia conserte, con quelle iridi verdi e pungenti fisse su di lei. La guardava vagamente interessato, neanche fosse un animale nella gabbia di uno zoo, in attesa di qualcosa, di vederla fare o borbottare altro, o forse, in attesa di decidere se espellerla dall'aula o meno.

Ecco, lui la esaminava davvero neanche fosse una strana creatura, così strana da non riuscire a interrompere quel suo inquietante scrutare in ogni minimo dettaglio, e tutta quell'immotivata attenzioe non fece che metterla più a disagio di quanto già non fosse.

«Ok» biascicò poi semplicemente, con un tono venato scaturito dall'insofferenza del dover sprecare il tempo della sua ora in quel contesto.

Quella sofferta risposta però sembrò bastare almeno per Kate che, dopo essersi sistemata i capelli dietro l'orecchio con un gesto che sapeva di tic nervoso, lo affiancò con un sorriso per scortarlo e raggiungere il suo posto nel banco.

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