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L'autobus deviò, che nessuno si chiedeva più niente, né se l'autista avesse intenzione di buttarsi nel fiume, né se il tragitto non fosse sempre stato quello, così come lo era quel mattino. La realtà è che per uno dei passeggeri a bordo, l'autista aveva intenzione di buttarsi nel fiume, per l'altro, il percorso era sempre stato quello - fino a quel giorno non avevo mai creduto agli universi paralleli -. L'acqua era fredda, ti trascinava con violenza verso il fondo sporco, e lei non credeva di poter morire. Non si può morire se si è sempre stati vivi, non si può morire se non ci si è mai ritenuti reali. Quel film la soffocò per qualche secondo, finché non distolse lo sguardo dal finestrino; forse sarebbe stato meglio se fosse andato a finire dritto nel Po, e l'acqua gelida l'avrebbe svegliata dall'autocoscienza, e un angelo l'avrebbe salvata, o forse sarebbe morta, finita, sprecata - forse lo desiderava realmente -, o forse avrebbe fatto più per sopravvivere che lasciarsi mentire dai pianeti e dai satelliti; forse sarebbe stato meglio del tragitto che era sempre stato quello. Il naso bruciava, e il bruciore raggiungeva l'occhio destro, il freddo repentino si era trasformato in una toposfera di asteroidi di stagnola. Quel lunedì sull'autobus era lei l'unica passeggera; la ragazza dai capelli mogano non era salita alla solita fermata. Chiuse gli occhi e lasciò sprofondare la testa nell'acqua, non voleva salvarsi, non ne aveva voglia. Anche se assurdo, morì annegata, ma in realtà morì solo per sè, nessuno se ne accorse, né dell'autobus, né di lei - in quel momento non riusciva a concentrarsi per ricordare se vi fosse un altro passeggero a bordo o meno -.
Il tragitto terminò sul vicolo dei gatti randagi, lei scese portando i capelli dietro le spalle e proseguì ripercorrendo a piedi il tratto lungo il fiume. Le due ciminiere mettevano in fuga i corvi, dello stesso colore dei suoi capelli, qualcosa di quell'istante fu un dejà vu; forse l'asse per cui guardava l'orizzonte, o forse erano soltanto i suoi occhi.

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