capitolo 2

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Mi piace andare al college. Infatti, la mattina mi sveglio sempre carica e piena di vita, pronta a scappare da questo inferno. Perché sì, preferisco stare dieci ore al college, piuttosto che stare in questa casa.

Scivolo giù dal mio letto caldo e mi stiracchio. Mi abbasso e tiri fuori da sotto il letto le mie ciabatte, dirigendomi poi verso il bagno nella mia stanza. Ancora assonnata, cerco di mettere a fuoco la mia immagine nello specchio, ma appena noto la piccola ferita al labbro, faccio una smorfia. Tasto con le dita la zona dolorante ed emetto un gemito di dolore.

Apro il mobiletto del bagno - dove tengo alcuni medicinali - e prendo un cerotto per le labbra. Mi lavo la faccia e i denti, metto il cerotto invisibile sul labbro, dopodiché prendo il rossetto rosso e lo passo di sopra, per far sì che non si noti troppo. Finisco di prepararmi, poi ritorno nella mia stanza, afferro il mio zaino e ci metto dentro il necessario, facendo attenzione a non dimenticarmi per niente al mondo il cellulare e le cuffiette.

Esco dalla stanza quasi di soppiatto. Per fortuna io e America non andiamo allo stesso college, altrimenti sarebbe stato davvero un suicidio per me. Vivo vicino all'università, e per me è davvero una sfiga. Avrei preferito di gran lunga stare nel dormitorio femminile, ma a quanto pare Joseph non me lo permette. Mi sarebbe piaciuto arrivare a chiamarlo papà, ma non è mai successo e mai succederà. Non si tratta di un mio capriccio, anzi. Mi fa schifo come persona, nonostante si sia "preso" cura di me. Dicono che il genitore sia colui che ti cresce e non colui che ti dà vita. Beh, posso dire di essere sfigata il doppio, allora? Mio padre biologico non l'ho mai conosciuto e mio padre adottivo è uno stronzo.

Scendo le scale, ma la domestica mi ferma nell'atrio.

«Anemoon, non vieni a fare colazione?»

Scuoto la testa. «No, farò colazione con Reed. Sono già in ritardo, devo scappare.» invento. No, tecnicamente io e Reed facciamo spesso colazione, ma non sono in ritardo. Anzi, preferisco sempre uscire in anticipo. È molto più piacevole girare per le strade di New York, piuttosto che stare in compagnia di America e Joseph di prima mattina.

Tiro fuori le chiavi dalla tasca e vado verso la mia moto, con il cuore che batte all'impazzata. Ho paura che si apra la porta di colpo e che lui mi gridi di tornare dentro. Aumento il passo, finché non mi ritrovo in sella, con il casco addosso, pronta a partire.

Supero il cancello di casa mia e finalmente mi sento già più libera. È una sensazione orribile vivere tra queste quattro mura e sentirsi soffocare ogni giorno. Questa non la definisco più casa da un anno. Clara, era lei la mia casa.

Il vento mi scompiglia i capelli e il freddo penetra nella mia pelle. Sento l'adrenalina scorrermi nelle vene; adoro la velocità, adoro sfrecciare tra le macchine, adoro tutto questo: come se niente fosse in grado di trattenermi. Mi fermo davanti a Starbucks per aspettare il mio migliore amico. Mi tolgo il casco e mi sposto una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

Picchietto le dita sulla moto e do uno sguardo veloce all'orologio. Dove diavolo è Reed? Come se lo avessi chiamato col pensiero, lo vedo attraversare la strada di corsa - facendosi quasi investire - mentre alza le mani per chiedere scusa, e sorride non appena mi vede. È sempre il solito.

«Moon, ciao!» viene verso di me con un sorriso da ebete in faccia. Le labbra mi fremono e trattengo a stento la voglia di ricambiare il sorriso.

«Ma ciao, ragazzone.» lo prendo in giro, dandogli una piccola gomitata non appena cerca di abbracciarmi.

«Ehi, smettila di chiamarmi in questo modo. Fa davvero schifo, Moon.» è l'unico a chiamarmi così. Gli altri mi chiamano tutti Ane. C'era un'altra persona che mi chiamava in questo modo, vi lascio indovinare chi.

Con te non avrò paura // DISPONIBILE SU AMAZONDove le storie prendono vita. Scoprilo ora