Tutti lo sentirono. Tutti avvertirono la sua presenza.

Persino io, che stavo passeggiando nel prato che circondava la residenza della mia famiglia. Quando mi recai al villaggio, scoprii che era tornato.

Dopo tanti anni, lo straniero dagli occhi neri come la tempesta era tornato. E non era cambiato. Nemmeno un po'. Nonostante il tempo, era ancora lo stesso giovane uomo che alcuni avevano conosciuto anni e anni prima.

Domandai in giro dove fosse andato, in preda a un'ansiosa curiosità, ma nessuno mi diede una risposta. Tutti però sapevano che era nei paraggi. Era strano da descrivere, ma lo sapevo anche io. Lo avvertivo nell'aria.

Passarono i giorni, ma le nostre strade non si incrociarono mai. Sembravamo respingerci l'un l'altro, come se non potessimo stare entrambi nello stesso posto allo stesso momento. Eppure, avevo sempre la sensazione di vederlo ovunque. Per le strade del villaggio, accanto al mulino, nella mia stanza, lungo il corso del fiume, nella locanda della vecchia Dagmar, oppure disteso in mezzo ai campi di fiori.

E fu proprio lì che lo vidi per la prima volta. In un campo di tulipani rossi. Era seduto in mezzo ai fiori e stava canticchiando qualcosa fra sé e sé quando mi avvicinai. Con lo sguardo stava soppesando la propria mano, sopra alla quale si era posata una farfalla dai mille colori sgargianti.

Il giovane era diverso da come me lo ero immaginato, ma allo stesso tempo era proprio identico al ragazzo misterioso che animava la mia mente da anni. I suoi capelli erano chiarissimi sotto i raggi splendenti del sole. Il suo viso sembrava avere la stessa consistenza della porcellana, delicato, fine, ma anche spigoloso e tagliente. C'era armonia in lui. C'era pace, tranquillità, sicurezza. C'era pericolo, forza, violenza.

Eppure, c'era anche equilibrio in lui. E bellezza. Era davvero bellissimo.

Nonostante mi trovassi a pochi passi da lui, non dissi nulla. Non volevo infrangere una simile scena. Aspettai.

«Vorrei un papavero sonnifero» mormorò il giovane agitando la mano, facendo volare via la farfalla.

Era proprio vero quello che dicevano. La sua voce aveva un bizzarro accento, straniero e allo stesso tempo familiare. Sembrava che dalla sua bocca non fosse uscita una semplice voce, ma le urla di mille uomini in preda all'agonia.

Avevo sperato in uno sguardo da parte sua, per poter osservare da vicino quei due occhi di cui tutti parlavano, ma lui non mi guardò nemmeno. Si alzò tenendo la testa bassa, poi si allontanò, senza dire una parola. Il suo silenzio mi congelò il sangue e mi impedì di seguirlo, ovunque stesse andando.

Il giorno seguente, fu lui a trovare me. Stavo passeggiando vicino l'argine di un piccolo corso d'acqua con un libro in mano, e lui era lì, sull'altro argine, ad osservare il proprio riflesso. Guardai anch'io il manto trasparente che ci separava, fissando i nostri riflessi, poi rialzai lo sguardo e lui non c'era più.

Quando i nostri mondi collisero di nuovo, il giorno seguente, io stavo camminando sul sentiero terroso che costeggiava il vecchio mulino. Lui arrivava dalla direzione opposta, e si muoveva come se avesse a disposizione l'eternità intera. Sembrava la personificazione della calma. Eppure, avvertivo qualcosa di strano in lui. Qualcosa di tremendamente pericoloso.

Quando gli rivolsi la parola per la prima volta, decisi di ignorare quel qualcosa.

«Chi sei tu?» dissi, quasi mormorando.

Lui teneva lo sguardo puntato a terra, come sempre. «Dimmelo tu.»

«Io non so chi tu sia» replicai. «Ma so che non sei come gli altri. È da anni che al villaggio parlano di te.»

Come un papavero sonniferoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora