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ABEL

Era un villaggio strano, il nostro.

Tante dicerie passavano ogni giorno di casa in casa, e alcune avevano persino la fortuna di giungere lontano, al di là del fiume e dei mulini. Non si trattava solo di pettegolezzi. Spesso erano delle storie a viaggiare sulla bocca di tutti. Leggende, tradizioni, racconti appartenenti al passato che ormai avevano perso la propria autenticità.

Ma tra tutte le storie mai pronunciate, ce n'era una che non mi era mai stato possibile cancellare dalla mente. Una vecchia leggenda che aveva quasi la mia età e che ogni abitante del villaggio conosceva.

Si narrava di questo giovane uomo venuto da lontano, forse da un luogo oltre i confini della nostra Olanda. Molti dicevano che avesse i capelli bianchi come la neve, altri invece sostenevano che fossero biondi, ma tutti concordavano sul colore dei suoi occhi: neri, come la pece, come la più oscura delle tempeste, come la più buia delle notti. Aveva gli occhi neri e smaniosi, questo era ciò che dicevano tutti. Ed era bellissimo. Alcuni sostenevano che fosse l'essere più bello che avesse mai messo piede nel nostro villaggio, dotato di una bellezza capace di uccidere.

Nessuno conosceva il motivo che lo aveva spinto ad arrivare lì. Tutto ciò che si sapeva era che lo straniero era giunto numerose volte nella nostra terra, si era trattenuto per qualche tempo e poi era scomparso nel vento, senza lasciare alcuna traccia.

C'erano alcuni al villaggio che erano convinti che avesse un legame con la mia famiglia. Non sapevo perché, ma alcune voci dicevano così.

Mia madre non aveva mai provato interesse per quelle storie, e mio padre si era sempre rifiutato di rispondere alle mie domande al riguardo. Lottie diceva che era per via dell'attaccamento alle proprie radici. Diceva che nostro padre non apparteneva a quel villaggio. In realtà, nessuno della nostra famiglia apparteneva a quella terra.

La mia famiglia aveva origini scozzesi, ma aveva conosciuto numerosi Paesi nel corso della storia.

Io ero l'unico ad essere nato nella terra dei mulini e dei tulipani, quando invece il mio nome non aveva niente a che fare con quel posto. Mi chiamavo Abel, un nome che sia la corona francese che quella inglese potevano vantare come proprio. Charlotte invece era nata in Francia, così come i miei genitori. Peccato che mia sorella non ebbe mai la possibilità di conoscere a fondo quella terra perché, a soli due anni, venne portata via da nostro padre e nostra madre per giungere in questo villaggio, lontano dai confini francesi.

Nessuno mi aveva mai rivelato perché lo avevano fatto. Nemmeno Lottie riusciva a indovinarne il motivo. Di una cosa però ero certo: quel villaggio era la mia casa e non l'avrei lasciato per niente al mondo. La tranquillità e la naturalezza che si respiravano lì non avrei mai potuto trovarle in nessun altro posto. Amavo la mia terra e amavo la mia casa.

Poi però tutto cambiò quando lo straniero decise di tornare.

Secondo le voci, erano anni ormai che non si faceva più vedere, tanto che alcuni stavano iniziando a dubitare della sua esistenza. Non erano in pochi a credere che non ci fosse nulla di vero sulle storie che si raccontavano sul suo conto e che, in fin dei conti, lui fosse proprio quello: una storia.

Stavo cominciando a credere anche io che fosse così. Per anni avevo ascoltato tutti i racconti su di lui e per anni avevo sempre provato quel forte e insensato desiderio di incontrarlo. Non sapevo perché lo volessi così tanto, forse per curiosità, o forse desideravo semplicemente incontrare il suo sguardo per poter ammirare i suoi occhi.

Quando tornò al villaggio, mancavano circa due settimane al ventesimo compleanno di mia sorella.

Io non ero lì quando accadde. La vecchia Dagmar, una locandiera, mi raccontò di aver avuto l'impressione che le sue vecchie ossa stessero per spezzarsi di colpo quando tornò.

Come un papavero sonniferoWhere stories live. Discover now