CAPITOLO 1

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Ochagavía, Navarra (Spagna), 2009

La salita era lunga e ripida, ma ne valeva la pena, perché quella era la via per il mio paradiso. Nonostante i muscoli delle gambe invocassero riposo e il cuore pompasse nel petto a un ritmo frenetico, accelerai il passo, smaniosa di arrivare a destinazione. Solo pochi coraggiosi si avventuravano a piedi ed io ero una di essi. La mia famiglia derideva l'attrazione viscerale che nutrivo per questo luogo magico, non ancora intaccato dalla mano malvagia dell'uomo. Era proprio per fuggire dai miei genitori e da mio fratello che venivo qua ogni volta che mi era possibile, ma loro non lo sapevano. Non sapevano niente di me, perché non comunicavamo. Mamma e papà viaggiavano spesso per lavoro e quando si trovavano in casa, mi trattavano con freddezza, riservando le loro amorevoli attenzioni al primogenito, Leon, per il quale ero solo una mocciosa che gli stava tra i piedi. Tutti avrebbero fatto volentieri a meno di me e sebbene avessi trascorso anni a chiedermi di quale delitto mi fossi macchiata per meritare un trattamento del genere da parte del sangue del mio sangue, non avevo mai trovato risposta e alla fine avevo smesso di cercarla.

Una notte di quasi due anni prima, mentre piangevo nella mia camera dopo l'ennesima sgridata senza motivo, ero scivolata fuori dal letto e avevo aperto la finestra, abbracciando con lo sguardo la valle di Salazar e soffermandomi poi a lungo sulla chiesetta di Nuestra Señora de Muskilda, che sorgeva sulla vetta del monte Muskilda, a circa mille metri di altezza. Avevo chiesto più volte ai miei di farmela visitare, ma non ero mai stata ascoltata. Volevo provare l'ebbrezza di salire in cima e scoprire come ci si sentisse a guardare Ochagavía da quella prospettiva. Volevo sapere se l'aria fosse diversa, se la natura offrisse suoni, odori e colori nuovi. Volevo sapere se vi regnasse la pace che non riuscivo a trovare in casa mia. E così, la mattina dopo, in sella alla mia bicicletta e armata di una sconsideratezza che era del tutto normale in una ragazzina di dodici anni, avevo pedalato per quattro chilometri, ben consapevole di come si allargasse il mio sorriso man mano che mi avvicinavo al monte. Una volta trovato il sentiero di pietra, mi ero liberata della bici e avevo proseguito a piedi, fermandomi di tanto in tanto per riprendere fiato. Non avevo avuto paura neanche per un istante, perché ero convinta che solo i miei familiari potessero farmi del male, quindi lontano da loro ero al sicuro. Appena avevo raggiunto la chiesa, mi ero voltata per guardare il paesaggio, rimanendo folgorata dalla bellezza dei boschi, delle valli e dei rilievi, con i loro colori vibranti e le estensioni mozzafiato. Avevo inalato a fondo l'aria, meravigliosamente pulita e fresca, e ascoltato un silenzio che sarebbe stato perfetto senza la leggera brezza a scuoterlo. In quel momento, per la prima volta in vita mia, mi ero sentita felice, perché avevo trovato la forza di riconciliarmi con me stessa e con il Mondo. Su quella cima solitaria, avevo trovato la pace. Chiudendo gli occhi, mi ero fatta una promessa solenne: non avrei più permesso alla cattiveria della mia famiglia di ferirmi. Avrei continuato a vivere in casa loro, ma solo con il corpo, perché con la mente sarei stata sempre altrove, in un posto tutto mio, nel quale nessuno avrebbe mai potuto farmi del male. E poi, raggiunta l'età giusta, mi sarei trovata un lavoro e avrei lasciato quella casa maledetta in modo definitivo, iniziando una nuova vita da qualche altra parte.

Erano trascorsi due anni da allora ed io mi sentivo fiera di me, perché avevo mantenuto la promessa. La mia famiglia aveva davvero perso il potere di toccarmi. L'armatura che indossavo era spessa e resistente e quando, in rari casi, veniva scalfita, mi bastava percorrere il sentiero e raggiungere il santuario per ripristinarne l'integrità.

Mi piegai in avanti, appoggiando le mani sulle ginocchia, e cercai di riportare la respirazione a un livello normale. Finalmente ero arrivata. Come facevo sempre, mi voltai indietro, abbeverandomi della vista dei Pirenei e della foresta d'Irati, con i suoi faggi, gli abeti, i pascoli solcati da piccoli ruscelli. Riuscivo a scorgere anche il fiume Irati, che si snodava tra gli alberi, e il grazioso bacino d'Irabia, che scintillava come un gigantesco diamante sotto i raggi del sole. Era incredibile l'effetto calmante che la visione di quel paesaggio aveva su di me. Con il sorriso sulle labbra, mi avvicinai alla chiesetta, costruita nel Dodicesimo Secolo in stile romanico. L'esterno era molto rustico e caratterizzato da una torre con il tetto conico rivestito di tegole di legno. Entrai dal portale principale e attraversai la navata centrale, fermandomi a un passo dalla cancellata di ferro che impediva l'accesso all'abside maggiore, all'interno della quale era custodita la scultura gotica in legno dorato e policromato della Madonna col Bambino. Chiusi gli occhi e giunsi le mani in un gesto di preghiera.

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⏰ Dernière mise à jour : Jul 11, 2016 ⏰

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