Prologo

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Vi è mai capitato di sentirvi in trappola? Di aver sperato che tutto fosse solo un sogno e di aver aspettato e aspettato che si potesse tornare indietro per cancellare quel singolo istante della vostra vita che vi permetterebbe di riscriverla daccapo?

Vi siete mai sentiti soli? Siete mai stati circondati dal nulla? Come se tutto quello che avete intorno a voi fosse il vuoto, come se l'unico modo di sopravvivere fosse quello di galleggiare nell'incertezza, alla ricerca di qualcosa di più profondo? Beh, se la risposta è sì, allora mi capirete...

Il rumore dell'aereo che ricomincia a rollare, cancellando, in un solo istante, quel poco di stabilità che avevo nella mia vita, mi terrorizza. Non riesco a credere a come tutto sia cambiato in fretta. Fino a una settimana fa la mia vita era perfetta, con un padre e una madre felicemente sposati, un fratello relativamente decente. La mia vita era una semplicissima routine. Al mattino mi svegliavo per andare a scuola, nel pomeriggio studiavo e, quelle poche volte in cui ne avevo la possibilità, leggevo, fino allo sfinimento. La sera alle dieci mi mettevo a dormire e aspettavo esaltata l'arrivo di un nuovo giorno, ma in un normalissimo pomeriggio tutto è cambiato.

Entrando in casa vengo accolta dal caos, ci sono vestiti sul pavimento, sedie rovesciate e uno stranissimo odore di bruciato proviene dalla cucina. Mi incammino velocemente ai fornelli e vedo il fuoco ancora acceso. La cipolla nella pentola è bruciata e il telefono in frantumi sul pavimento. Corro in tutte le stanze della casa sperando di trovare qualcuno, ma il silenzio mi fa capire di essere sola. Provo a chiamare più e più volte mia madre, ma non risponde, ho paura di sapere la verità, c'è qualcosa di tremendamente strano in questa faccenda: mia madre non esce mai di casa senza aver prima lucidato ogni singolo angolo.

Sento un rumore di ruote stridenti sul viale sterrato e subito dopo il clacson. Affacciandomi alla finestra mi paralizzo, vedo il volto sconvolto di Stephenie, l'amica di mia madre, attendermi nella macchina e non riesco a muovere più nulla. Sento il freddo invadermi man mano e il cervello bloccarsi. Dopo diversi minuti di paralisi totale riesco finalmente a muovermi e a entrare nella sua macchina.

Non appena mi avvicino mi rendo conto che la situazione è più grave di quanto non immaginassi. Ha gli occhi nocciola contornati da un cerchio rosso, il mascara sbavato sulle guance solitamente marmoree e un sorriso appena accennato che mi ripromette che tutto sta per finire. Parte a grande velocità senza rivolgermi la parola e, in questo momento, ho paura, non so esattamente per quale motivo, ma temo che qualcuno sia ferito e non ho la forza di fare domande. In pochi minuti raggiungiamo la stazione di polizia, sento l'ansia diventare sempre più grande e quel terribile presentimento, che da questa mattina non mi ha mai abbandonata, diviene sempre più forte.

Stephenie si avvicina e mi prende la mano, continua a non parlare e nella mia mente milioni di domande si susseguono.

"Cosa sarà successo? Mia madre sta bene? È entrato qualcuno dentro casa? È ferita?"

Continuo a pensare e a ripensare a quale possa essere la spiegazione più plausibile, ma nulla...

Entrata nella stanza vedo mia madre, con gli occhi gonfi e pieni di lacrime mentre lo sceriffo Owen, di fronte a lei, le tiene la mano in modo consolatorio.

«C-cosa è successo?» riesco a dire dopo diversi minuti di silenzio.

«Tuo p-p-padre», dice la mamma tra le lacrime.

«Vi lascio qualche minuto da sole» sussurrano contemporaneamente, Stephenie e Owen, uscendo dalla stanza.

«Tesoro siediti.»

Muovere le gambe si rivela un'impresa impossibile, so cos'è successo. I miei genitori mi preparano a questa possibilità da quando ero piccola, ma allora perché mi sento così male?

«Dillo» comando tra le lacrime.

«Tesoro tuo padre stava tornando a casa per il tuo compleanno, ma poco prima che partisse il suo plotone è stato attaccato e non ci sono stati più contatti.»

"Ah già... oggi è il mio compleanno. Buon diciottesimo compleanno Cris!"

E ora eccomi qua, su questo volo che mi allontana sempre di più da lui e da tutti i ricordi che insieme, per anni, abbiamo costruito e mi riporta in quella sconosciuta città dove sono nata. Tra poco meno di 5 ore e 39 minuti sarò a Seattle, potrò riabbracciare mio fratello, è vero, ma avrò detto addio a troppe cose. Addio alle maratone di pizza nel sabato sera, addio alla mia amata casa, addio alle discussioni sui miei romanzi preferiti addio alle vocine durante i nostri viaggi, addio al sole perenne, addio alle serate trascorse guardando Grey's anatomy, addio alla mia scuola e a quei pochi amici che avevo, ma soprattutto addio a mio padre, il mio migliore amico.

I ricordi si riaffacciano veloci non appena scorro le nostre foto sul telefonino, non ne trovo una dove non stia sorridendo e sento già la sua terribile mancanza. Scorrendo tra i suoi post vedo la foto del mio sedicesimo compleanno, i cappellini da festa verdi, la torta enorme e tantissimi palloncini. Mi manca e non riesco a vivere senza di lui... ma la vera domanda è: ci riuscirò mai?

Non credevo che la mia paura più grande potesse essere cambiare città, ma soprattutto andare in un posto dove nuovamente non mi accetteranno e ci saranno altre persone pronte a giudicarmi senza un vero e proprio motivo. Lo so, in questo momento è il mio problema minore, ma se devo pensare a come lui non sarà più lì, pronto a difendermi e ad abbracciarmi ogni sera per consolarmi, mi sento persa...

Continuo a pensare e ripensare a tutti quei fantastici momenti trascorsi insieme, eppure la mia mente torna sempre a quel terribile giorno e, in ogni singola volta in cui cerco di accennare un sorriso, solo per mia madre, lo vedo, accanto a me, ma non riesco a raggiungerlo, come se fossimo separati da una barriera invisibile.

Ci sono quegli attimi, come questo, in cui penso che sia tutta colpa mia. È mia la colpa se ha spostato il suo turno quella settimana per poter organizzare meglio il mio compleanno è mia la colpa se stava tornando a casa, ma soprattutto è mia la colpa della sua morte. La colpa di tutto ciò che succede di brutto attorno a me è "dell'intelligente, asociale, cicciona del secondo piano". Già, è così che mi hanno chiamata. A scuola non hanno fatto che ripeterlo per tre lunghissimi anni e io l'ho creduto, ci ho creduto davvero, finché un giorno mi sono resa conto di non essere più tanto irrecuperabile, di non essere una di quelle ragazze che non ha neanche la voglia di muoversi e così mi sono messa a dieta, giusto per diventare quella che realmente volevo essere, ma ho portato tutto fino allo sfinimento, un'altra volta. E così eccomi qui, seduta sul sedile di questo maledettissimo aereo che già una volta ha distrutto la mia vita, ma che ora mi sta uccidendo. Non posso non pensare a come mi stia allontanando da lui sempre di più, non potrò più andare a trovarlo al cimitero, non potrò più abbracciare il suo cuscino ogni qualvolta in cui sentirò la sua mancanza e non potrò più guardare per ore il nostro albero, quello dove, incidendo le nostre iniziali, ci siamo promessi di volerci bene a vicenda qualunque cosa fosse accaduta e lo abbiamo fatto. Anche tutte quelle volte in cui eravamo tanto arrabbiati l'uno con l'altra da non poterci guardare in volto abbiamo continuato a volerci bene e a vivere contando sulla reciproca presenza, ma, adesso, ho paura. Non credo che riuscirò a superare tutto questo da sola. A Miami, ogni volta in cui non c'era, potevo contare sulla mia migliore amica: essermi allontanata anche da lei distrugge quella poca stabilità che la mia vita avrebbe potuto avere, ma mia madre non capisce che lasciare quella città, la nostra città, mi allontanerà sempre di più da lui. Mi sta spingendo ad andare avanti con tutte le sue forze, ma io non posso, è veramente troppo presto...

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