10. Devo avere paura di trovarti accanto al lavandino con una pistola?

35.3K 1.3K 1.2K
                                    

«Ti dico che hai sbagliato.» continuo a ribadire.

«Io non sbaglio mai.»

«Gabriel, la matematica è più complicata. Non puoi semplicemente sommare tutto.»
Lui butta la testa all'indietro, fino a stendersi col busto sul divano.

Non si può insegnare a una persona come lui. È una tortura. Si lamenta di voler fare una pausa ogni dieci minuti; quando arriva il momento di ripetere quello che in teoria avrebbe dovuto studiare, comincia a cantare qualche stupida canzoncina; mentre anche nelle pause si lamenta di voler dormire.
Sono davvero tentata di comprare dei tappi per le orecchie.

«Possiamo smettere?» chiede speranzoso.
«Non se ne parla. Sono solo le cinque.»

Le cose proseguono, non efficientemente, ma proseguono. Ci incontriamo quasi ogni giorno a casa sua per studiare, anche se quella che studia sono solo io.

«Posso dormire?» chiede di nuovo, tirando fuori il labbro inferiore.

«No.»
«Uscire?»
«No.»
«Mangiare?»
«La pianti?»
«Vietarmi di mangiare è davvero crudele.»

Lo osservo alzarsi. «Dove vai?»

«A cagare. Posso o... devo avere paura di trovarti accanto al lavandino con una pistola?»

Ridacchio al suo tono esasperato e lo lascio andare. Intanto che lui scappa da questa montagna di libri, decido di alzarmi e sbirciare un po' in giro.

Il salotto non è molto ricco di foto o decorazioni. È semplice, ma non c'è vita.

Cammino verso camera sua in punta di piedi, curiosa di vederla. Le pareti sono di un verde scuro, noto con sorpresa; il letto doppio è posto al centro della stanza, un comodino di colore nero sta al lato sinistro; l'armadio, sempre di colore scuro, è davanti alla parete che confina con il salotto, mentre la scrivania è posta all'altra parte della camera.

Mi piace. Ha un'aria calma, sicura.
Osservo la foto incorniciata posta sul comodino, avvicinandomi. È raffigurata una donna, con lunghi capelli castano scuro e occhi neri. Sorride verso la fotocamera, con la testa leggermente inclinata di lato e le mani aperte ai lati di essa come se stesse per fare una smorfia.
La ripongo sul ripiano.

Solo questa, nient'altro. La sua camera è completamente spoglia. Mi dirigo verso la finestra che dà sulla strada e osservo fuori sospirando.

Che Gabriel si senta solo? La sua rabbia si è plasmata recentemente o è così da principio? Perché uno sguardo così colmo di odio non lo possiedono tutti. So cosa si prova, so cosa significa sentire le vene pulsare, stringere così forte i pugni da lasciare i segni delle unghie sui palmi, sentire la voglia di prendersela con tutto e tutti. So che la sua rabbia è intensa, perché è durata fino ad ora, e ancora continua a provarla.

Vorrei sapere il perché. Cosa può portare a provare tutto questo? Nel mio caso, la questione sembra essere facile. Soffro solo per un motivo: mio padre.

Ma a quanto pare quello che provo, i sentimenti che dominano ogni giorno sugli altri, non sono ben visti dalle altre persone. Non ho mai raccontato a nessuno di mio padre. I compagni di scuola vedevano i lividi, le ferite, le smorfie di dolore quando camminavo per i corridoi, ma nessuno si è preoccupato di sapere perché stessi così, perché a dodici anni io non parlassi con nessuno, o stessi sempre da sola e avessi quelle ferite.

A Washington, quando ero piccola, non coprivo i segni. Stupidamente, pensavo che qualcuno si sarebbe fermato e mi avrebbe ascoltata, ma non è mai accaduto. Mi rendevo solo ridicola.

Poi, arrivata a New York, ero già abbastanza grande da capire che ero sola e lo sarei rimasta.

Ho cominciato a nascondere le macchie violacee con grandi felpe, persino quando faceva caldo, a mostrarmi disinteressata a ciò che succedeva a scuola e concentrandomi solo sullo studio. Le persone non volevano avere a che fare con una persona come me: riservata a tal punto da pensare avessi qualche problema.

DifficultWhere stories live. Discover now