Capitolo tre.

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Un altro giorno è passato.
Lentamente sollevo le palpebre per ammirare la poca luce che filtra dalla mia finestra.
Il mio sguardo è fisso nel vuoto, perso.
La mia mente invece è altrove, urla.. scalcia.
La voglia di vivere mi ha completamente abbandonata, sono un cadavere riesumato.
È così che ci si sente dopo un’esperienza del genere, almeno credo.
Nella mia mente posso ancora sentire tutte le urla, tutte le mie suppliche, il dolore degli schiaffi ricevuti.
È inutile guardarsi allo specchio per vedere ciò che sono diventata, un fantasma.
Vorrei riprendere la mia vita in mano ma ogni volta che ci provo mi sento come sprofondare sotto terra.
È così che ci si sente, umiliate, ferite.. distrutte.
Per la maggior parte delle donne che subiscono violenza è difficile riprendere la loro vita, riprendere da dove si sono fermate.
La mia vita era piuttosto bella, stava andando tutto meravigliosamente bene.
Tutto al suo posto.
Mi piaceva fare progetti, pensare al mio futuro.
L’entusiasmo, l’allegria..
Mi è stato tutto portato via, tutti i miei sogni sono diventati incubi ad occhi aperti.
La sofferenza psichica è proporzionale alla gravità dell’azione commessa.
La notte non dormo, a volte non respiro.
Quando sento cigolare la porta tremo dalla paura.
Quando mio figlio piange vado nel panico.
Tutto collegato ad una persona sola, colui che per troppo tempo ha studiato tutte le mie mosse, tutti i miei modi di fare.
Colui che si è infiltrato nella mia famiglia, frequentando persino i miei fratelli.
Mi sento così stupida ad aver creduto alle sue belle parole, mi sento stupida ad essermi sentita in colpa quando mi sono innamorata di Nathan.
Mi sento stupida ad aver pensato che fosse un bravo ragazzo, affidabile, lavoratore.
Mi sento una schifosa al solo pensiero che l’ho usato per far ingelosire il padre di mio figlio.
Non ho mai creduto nel karma, ma adesso che ci penso forse un fondo di verità c’è.
La vita vuole punirmi, ogni volta che sono tranquilla, che trovo la mia pace deve sempre succedere qualcosa.
Eravamo sul punto di iniziare la nostra vita insieme, ero sul punto di dimostrargli quanto immensamente lo amo, concedendogli tutta me stessa.
Ero pronta, nervosa ma pronta.
E adesso, ogni volta che prova a toccarmi, il mio corpo sobbalza dalla paura.
Le sue parole fulminano il mio cervello, facendomi allontanare da lui.
Ancora e ancora.
Combatto contro me stessa, contro le mie più profonde paure.
Contro la mia ostilità verso il sesso opposto, contro il mio desiderio di vendetta.
Le donne che hanno subito una violenza, grave o non grave, dovrebbe trovare il coraggio di affrontare la cosa, di urlare e di denunciare.
E non parlo soltanto per il mio esempio, ma per tutte le donne che sono state segnate dalla perversa lussuria di qualche bestia.
I suddetti animali, non possono essere definiti come uomini, al contrario.
Dovrebbero essere chiamati feccia umana, la peggior specie.
A volte mi faccio coraggio pensando che le cose potrebbero essere andate peggio, nel mio caso posso ritenermi fortunata.
La mia fonte di sollievo, di pura gioia è distesa al mio fianco che dorme beata.
La sua faccia d’angelo mi fa pensare che non tutto è perduto, che posso ancora lottare per prendermi ciò che volevo.
Una casa, una famiglia, un lavoro e mio marito.
Jamie è l’unica persona che mi fa sorridere, che spazza via tutti i brutti pensieri con un solo sorriso.
Mi accoccolo accanto a lui, pensando a quando era dentro di me, nel mio ventre.
Tutte le notte passate in bianco a cercare una posizione comoda, e prima di addormentarmi infilavo le cuffie nelle orecchie e mi accarezzavo la pancia.
Non posso credere che abbia quasi tre mesi, il tempo vola così in fretta e nel suo viso vedo riflesso quello di Nathan mischiato al mio.
Sono fortunata, lo so.
La mia famiglia mi è vicina, il mio ragazzo si prende cura di me, mio figlio cresce bene.
Cosa mi tormenta allora?



NATHAN POV.


“Come stai?” chiedo, sfiorandole il braccio.
“Bene” risponde in modo riluttante, allontanandosi da me.
Confuso e disperato mi siedo sul bordo del letto, passandomi una mano in faccia.
“Non stai bene. Si può sapere che stai facendo?” chiedo piano, cercando di capire il senso delle sue azioni.
“Voglio buttare tutto” mormora, la voce non sembra nemmeno sua.
“Perché mai dovresti farlo?” faccio una smorfia.
“Non voglio più queste cose intorno” sbotta, strappando dalle pareti tutti i poster musicali.
“Che significa? Mi hai minacciato di morte per aver espresso un’opinione riguardo la tua musica.. e adesso che fai? Butti tutto?” mormoro.
“Voglio buttare ogni cosa” sputa, appallottolando la carta spessa.
“Ascolta” mi alzo e mi avvicino a lei.
“Perché non usciamo? Io, tu e Jamie. Oppure se preferisci possiamo uscire da soli. Mangiamo una pizza, andiamo al cinema. Qualsiasi cosa, l'importante è che tu esca da questa stanza..” propongo, accarezzando le sue braccia.
“Mi prendi in giro?” chiede piano.
“No” sussurro, rabbuiandomi.
“.. perché dovrei farlo?”
“Hai visto la mia faccia?” chiede indicandosi il volto.
“Hai visto la mia faccia?” ripete, stavolta con tono più duro.
“Si, e allora?” scrollo le spalle.
“È la mia faccia ad essere butterata non la tua” mi sputa contro.
“Che vuol dire questa frase? Sto soffrendo questa cosa tanto quanto te” mormoro.
“No” fa un sorriso amaro, si allontana da me.
“Tu non hai idea di ciò che sto passando..”
“Tu non hai idea dei pensieri che mi frullano in testa, tu non hai idea dell’inferno in cui sto vivendo. Questa casa mi tormenta, queste pareti mi tormentano. Persino mia madre mi tormenta..” sputa.
“.. e non hai idea di quello che si prova a sentire le sue mani addosso” urla, graffiandosi la pelle delle braccia.
“.. non hai idea del peso sullo stomaco, dell’angoscia e della paura. Tu non sai un cazzo” mi punta il dito contro.
“Credi che a me faccia piacere vederti in questo stato?”
“Credi che io non stia soffrendo quanto te? Avevamo deciso di andare a vivere insieme, costruire un qualcosa di bello. Volevo costruire la mia vita con te. Ma sono giorni interi che mi urli contro, mi aggredisci. Te la prendi con me per quello che è successo, mi dai la colpa. Ma sai che ti dico? Non lo è affatto. Non voglio portare questo peso sulla coscienza soltanto per alleggerire la tua” sputo.
“Non sei l’unica che non riesce a dormire la notte..” il mio petto si solleva e si abbassa, l’affanno è evidente.
“Pensavo mi amassi, che volessi costruire una famiglia. Ma sembra che sia l’unico ancora a crederci” aggiungo offeso.
I suoi occhi si fanno carichi di lacrime, la faccia diventa rossa e le labbra tremano.
Mi uccide vederla stare male in questo modo, mi uccide dover essere proprio io a metterla di fronte alla realtà.
Non possiamo continuare di questo passo, soffre lei, soffro io.
Soffre Jamie.
Tutti soffriamo, e non ne veniamo mai a capo.
Ha bisogno di essere scossa, di capire ciò che sta sfuggendo tra le sue mani.
Ha bisogno di combattere ciò che la sta torturando e non nascondersi nel dolore.
Scoppia a piangere, vorrei abbracciarla ma so già che dopo due minuti esatti saremo di nuovo punto e da capo.
Mi incolperà per ciò che le è successo, mi griderà in faccia i suoi disagi e mi farà sentire come una merda.
Una fottuta nullità.
“Non piangere ti prego” sussurro, la voce carica di tristezza.
“Perché non capisci ciò che sto passando? Perché?” piange disperatamente.
“E perché tu invece non capisci me? Hai tutto ciò che una persona vorrebbe. Me, tuo figlio, i tuoi genitori eppure ti lasci andare così. Avrebbe potuto accadere di peggio ma non è successo. Hai la possibilità di tornare a sorridere e a vivere” dico piano, mi avvicino e le accarezzo il volto.
“Sei così presa dal tuo tormento che non ti accorgi delle persone che ferisci” sussurro, le lacrime rigano il suo volto.
Mi avvicino e le poso un bacio in fronte, poi mi avvio verso la porta.
“.. dove vai?” mi chiede, asciugandosi il volto.
“Torno a casa, prendo un Jamie per un paio di giorni. Magari ti schiarisci le idee” la informo, esco dalla porta e sento i suoi passi dietro di me.
“Cosa? No” urla.
“Non puoi farlo.”
Mi abbasso al livello del seggiolone e prendo Jamie tra le mie braccia.
“Si che posso” farfuglio.
“No” sputa.
“Dimentichi che è anche mio figlio.”
“No, tu non puoi farlo” urla, dalla cucina sbucano i suoi genitori.
“Ti prego, portami con te” mi supplica.
“Che sta succedendo qui?” chiede suo padre, il tono sembra duro.
“Papà non ti intromettere” urla verso suo padre.

STRONG LIKE TWO II . (WATTYS 2017) Where stories live. Discover now